Il Malawi si trova in Africa Orientale, stretto tra Mozambico, Zambia e Tanzania. Non ha sbocchi sul mare, ma vanta il terzo lago più vasto del continente africano, che porta lo stesso nome del Paese ed è tanto grande da occuparne un quinto del territorio. Nella sua bandiera c’è un sole rosso che sorge, segno di fiducia nel futuro per i quasi 17 milioni di abitanti della nazione che la Banca Mondiale colloca tra le dodici al mondo più esposte ai mutamenti climatici.
700.000 persone nel 2014 hanno sofferto un’acuta mancanza di cibo, circa due terzi delle famiglie sopravvivono al di sotto della linea di demarcazione della povertà, misurata dall’impossibilità di procurarsi 2.200 kilocalorie al giorno a testa (fonte: «Nigrizia», luglio-agosto 2015). Malgrado tutto, fuori dalla capitale Lilongwe, esiste un luogo dove inaspettatamente, pur tra mille difficoltà, la speranza assume connotati concreti.
Si tratta del campo profughi Dzaleka, al cui interno vivono oltre 16.000 rifugiati, fuggiti dalle guerre che infiammano i loro Paesi d’origine. Nel campo opera There Is Hope, un’organizzazione non governativa fondata nel 2006, che aiuta rifugiati e richiedenti asilo a costruire un futuro mediante percorsi di studio e avviamento al lavoro. Come vedremo, tra i suoi progetti più interessanti, alcuni riguardano anche i profughi con disabilità.
There Is Hope
There Is Hope è un organismo non profit registrato ai sensi della legge del Malawi ed è membro del CONGOMA, il Consiglio per le Organizzazioni Non Governative in Malawi; si avvale dell’aiuto delle Chiese d’America, Canada e Inghilterra e lavora in stretta collaborazione con l’Assopromi di Bollate (Milano), associazione di sostegno ai progetti missionari.
L’organizzazione è nata dalla volontà e dall’esperienza di vita di Innocent Magambi, originario del Burundi, venuto al mondo in un insediamento di rifugiati in Congo, dove i genitori si erano recati per sfuggire al conflitto che insanguinava il Paese natio. Magambi ha trascorso i suoi primi 27 anni in diversi campi profughi in Tanzania, Zambia e Malawi. La sua storia ha preso una svolta decisiva, quando ha ottenuto una borsa di studio in un college di Lilongwe. E tuttavia, questa grande opportunità di cambiamento che lui ha colto e messo a frutto, non gli ha fatto dimenticare i problemi del suo popolo. Non si possono cancellare 27 anni in un campo profughi, non si può cancellare dalla memoria un conflitto armato e l’essere sopravvissuti al confronto con la guerra. Per questo motivo Innocent ha fondato There Is Hope, letteralmente “c’è speranza”, organizzazione che è l’espressione concreta di un impegno che fa acquisire ai rifugiati maggiore consapevolezza e fiducia, primo passo per imparare a utilizzare il proprio potenziale personale, divenendo autosufficienti e offrendo un contributo positivo allo sviluppo di una società migliore.
La vita a Dzaleka
Quando ho iniziato a elaborare questo approfondimento, la prima cosa che mi sono chiesta è stata: «Come si vive in un campo profughi?». Ne sentiamo parlare spesso ultimamente, eppure la nostra idea al riguardo è molto vaga. Pongo dunque questa domanda a Florisa De Leo, moglie di Innocent Magambi, e lei mi racconta: «Ti descrivo la vita di Dzaleka. È un posto sovrappopolato, gli alberi vengono tagliati per costruire case e per accendere il fuoco. Sono distribuiti aiuti di base, tipo il cibo, ma non è sufficiente e assolutamente non vario, minestra e fagioli mese dopo mese, anno dopo anno. L’accesso alla sanità è molto molto basilare. Esistono una scuola elementare e una media superiore. È vietato lavorare fuori dal campo, possono farlo solo infermieri, medici e insegnanti qualificati che abbiano ottenuto un permesso speciale dopo un tirocinio di mesi, non retribuito, presso una struttura sanitaria del Malawi».
«Quanto tempo mediamente una persona può sostare nel campo – chiedo – e dopo qual è la destinazione?» «Il soggiorno nel campo dura qualche anno o tutta la vita, a volte molteplici generazioni, e questa è la parte più deprimente della realtà in cui operiamo. Ci sono profughi da due-tre generazioni che hanno completamente perduto la loro identità non solo nazionale, ma anche personale, perché hanno sempre solo vissuto di beneficenza. La destinazione dopo il campo profughi è una grande incognita. Alcuni tornano al loro Paese di origine, altri scappano in cerca di fortuna di Paese in Paese, altri ancora tentano di stabilirsi in Malawi per vie più o meno legali. Il sogno di tantissimi è ottenere un trasferimento in Occidente, tramite un processo che l’ONU chiama di resettlement, il più difficile da raggiungere [tramite il “resettlement”, l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi, trasferisce i rifugiati in un Paese terzo. Solo un ristretto numero di Stati appartenenti all’ONU fa parte del programma di reinsediamento, N.d.A.]. Purtroppo c’è una grande corruzione per ottenere i diritti d’asilo politico, il Malawi non naturalizza i profughi neppure dopo decenni, né concede la cittadinanza ai figli dei rifugiati nati e cresciuti nel Paese».
Il contesto in cui opera There Is Hope
Nel mondo si combattono decine di guerre dimenticate che da anni spargono sangue di civili innocenti. È il caso dell’Africa, dilaniata da conflitti interni agli Stati, dove gli interessi economici legati all’accaparramento delle risorse si mescolano alle lotte tribali.
In Burundi, dopo il colonialismo, le divisioni etniche hanno portato una tribù a posizioni socio-economiche più vantaggiose, provocando tensioni sociali via via sempre più accese. Risultato: 300.000 morti e un milione di sfollati. Situazione simile in Ruanda, che dietro una pace e una democrazia apparenti, nasconde violenze e violazioni dei diritti umani. Solo nel 1994, durante un genocidio “scoperto” mesi dopo dai media internazionali, morirono 800.000 persone.
Discorso a parte per il Congo, il Paese in assoluto più ricco di risorse naturali e minerali, a partire da oro e diamanti, pertanto al centro di combattimenti fra nazioni che se ne contendono il controllo del territorio. Lì si combatte quella che viene definita la “guerra mondiale africana”: sono almeno 350.000 le vittime dirette del conflitto, 2 milioni e mezzo contando anche i morti per carestie e malattie che ne sono diretta conseguenza. E ancora, in Somalia la spirale di violenza, iniziata dopo l’uscita di scena del presidente Siad Barre nel 1991, ha provocato quasi mezzo milione di morti. Dopo l’ottenimento dell’indipendenza da parte dell’Eritrea, infine, due anni di scontri con l’Etiopia hanno fatto più di 70.000 vittime, e le ostilità non sono ancora cessate (qui la fonte di questi dati).
Se dunque il bollettino delle vittime è impressionante, non meno tragici sono i numeri che raccontano di persone come noi, uomini, donne, bambini e anziani, che fuggono e cercano rifugio nei Paesi confinanti. Il Malawi ospita oltre 35.000 rifugiati e richiedenti asilo provenienti per lo più da Ruanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Somalia ed Etiopia. Alcuni di questi sono figli e nipoti di persone fuggite dai conflitti negli Anni Settanta, persone che hanno vissuto in altri campi profughi prima di trasferirsi in Malawi in cerca di migliori opportunità.
Scuola e produzione di reddito
There Is Hope ha posto le fondamenta delle proprie attività sull’empowerment (crescita dell’autoconsapevolezza) sociale ed economico dei profughi che vivono a Dzaleka. Povertà, infatti, non è solo mancanza di beni materiali, ma anche uno stato della mente sviluppato dalla cultura, dalle credenze e dalle circostanze della vita. Per questo motivo l’Associazione non offre carità fine a se stessa, bensì si impegna per creare un rapporto solido con i rifugiati, un rapporto che precede sempre gli aiuti materiali.
La scuola è la prima arma di difesa contro la sopraffazione perché insegna la dignità. La maggior parte dei rifugiati in Malawi non ha avuto un’istruzione adeguata, avendo trascorso la vita scappando. There Is Hope pone le basi dell’istruzione con una scuola primaria e una secondaria all’interno del campo. Molto prestigioso ed estremamente apprezzato è il pacchetto di borse di studio universitarie, di cui attualmente beneficiano ogni anno circa 20 studenti di Dzaleka. L’Associazione, inoltre, sostiene il conseguimento di diplomi di infermeria e ragioneria, e organizza corsi di falegnameria, montaggio audio-video e sartoria, ospitati nel Centro di Formazione del campo. A questi si aggiunge la formazione biblica per pastori e volontari delle chiese locali.
Molte persone che vivono a Dzaleka possiedono le competenze necessarie per essere economicamente indipendenti, hanno soltanto bisogno di un capitale di partenza e di un po’ di incoraggiamento. There Is Hope aiuta piccoli gruppi di rifugiati nella creazione e nel rafforzamento di iniziative imprenditoriali da intraprendere all’interno del campo.
Molte di queste attività generatrici di reddito si concentrano sulle donne, una categoria particolarmente fragile. È il caso delle donne sieropositive che allevano e vendono polli, senza dimenticare i gruppi che gestiscono bancarelle di frutta e abiti di seconda mano e i laboratori di sartoria all’interno del campo, attività possibili grazie al microcredito che l’organizzazione eroga alle madri sole con figli.
Il Centro di Formazione di Dzaleka ospita anche l’atelier di artigianato Kibebe, sempre gestito dalle donne del campo, che ideano, realizzano e vendono prodotti per bambini e per la casa. Fra le 30 e le 50 persone in questi anni hanno trovato occupazione nell’artigianato.
Sono sufficienti cinque minuti a piedi dall’ingresso del campo per raggiungere il Lilambwe Centre, Centro Polifunzionale che There Is Hope ha voluto donare ai rifugiati e agli abitanti dell’area adiacente i quali, pur non essendo profughi, vivono situazioni di reale necessità. Le attività principali che vi si svolgono sono l’insegnamento della lingua inglese e giochi per i bambini. Gli spazi sono inoltre disponibili per riunioni, feste o altre iniziative di persone del posto, sia rifugiati che non.
Rifugiati con disabilità, una storia di successo
Essere disabili in un campo come Dzaleka significa vivere un doppio svantaggio, per la condizione fisica e per lo stato di rifugiati. Prima di conoscere la loro storia, domando a Florisa De Leo come sono visti i disabili nella cultura africana e se esiste qualche forma di sostegno sociosanitario. «Purtroppo – mi spiega – è presente un pregiudizio profondo nella mente delle persone, sul fatto che la disabilità possa essere una “punizione divina”. Non sono al corrente di una politica di inclusione sociale, tutto è basato sulla beneficenza, ma questo non deve sorprenderti, se tieni conto che il livello di democrazia, rispetto dei diritti umani e servizi sociali è generalmente basso in Africa. Anche il sostegno economico ai disabili non esiste, se non erogato da organizzazioni di volontariato, spesso di stampo missionario o comunque internazionale».
Le persone con disabilità di Dzaleka sono dunque riuscite a sovvertire questo destino che pareva ineludibile e a riscriverlo, divenendo protagoniste attive della loro esistenza. There Is Hope le ha aiutate, sostenendo l’Associazione Umoja, composta dai rifugiati con disabilità che vivono nel campo, ed è tuttora al loro fianco. Grazie a un’inesauribile determinazione e allo spirito di gruppo, realizzano artigianalmente e vendono sul mercato internazionale i biglietti d’auguri Umoja, colorate e originali creazioni di carta riciclata e stoffa africana. Inoltre, insieme ai loro familiari, confezionano una linea di saponi con ingredienti al cento per cento naturali, realizzati nel Centro Polifunzionale. Con queste attività, i disabili possono ottenere un piccolo, ma importante reddito, sul quale costruire la speranza di un futuro migliore.
Una storia, in particolare, è rimasta impressa a Florisa, quella di un uomo vedovo del Congo che ha potuto iniziare una nuova vita per merito dei biglietti d’auguri Umoja. Infatti, in Africa, per sposarsi, un uomo deve pagare la dote alla famiglia della moglie e in particolare nella cultura del Congo la cifra è elevata. Con i guadagni ottenuti dal lavoro artigianale, quest’uomo non solo è riuscito ad ottemperare agli obblighi pre-matrimoniali imposti dalla sua cultura, ma oggi riesce a mantenere la famiglia che si è allargata con l’arrivo di un bambino.
Un altro fronte di impegno è il miglioramento della qualità della vita dei rifugiati con disabilità attraverso l’erogazione di ausili. In tal senso, già dal 2012 è partita una partnership con 500 Miles, un’organizzazione non-profit scozzese che aiuta i disabili residenti nei Paesi più poveri a vivere in maniera indipendente, fornendo loro protesi e ortesi. Gli esperti di 500 Miles si recano periodicamente a Dzaleka per valutare la situazione delle persone con varie forme di disabilità e realizzano dispositivi ortopedici su misura in base alle differenti esigenze riscontrate. Chi usufruisce del progetto viene seguito nel tempo e incoraggiato all’uso regolare e corretto delle protesi. Grazie alle donazioni degli amici sparsi in tutto il mondo, ad oggi There Is Hope ha pagato ausili di vario genere a circa 40 persone.
Ringraziamo Florisa De Leo Magambi e Franco De Leo per la disponibilità e la collaborazione.
Per approfondire:
° Sito e canale YouTube di There Is Hope.
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