«Questa raccolta di documenti fu pubblicata per la prima volta 10 anni fa. Sono testimonianze che erano e restano spaventose. Il tempo non potrà mai attenuarne l’orrore» (1). Con queste parole inizia la seconda edizione del testo in cui Alexander Mitscherlich, con Fred Mielke, si propose di descrivere, analizzare e testimoniare, quanto accadde nel corso del processo dei medici nazisti, iniziato a Norimberga il 9 dicembre 1946 e terminato il 19 luglio 1947.
Tra i crimini contestati ai 23 imputati – di cui 20 erano medici – vi erano anche quelli legati al cosiddetto “Programma di Eutanasia”, in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000 persone con disabilità o con disturbi psichici (oltre 70.000 nell’ambito del solo Programma Aktion T4). Tutti gli imputati si dichiararono non colpevoli. Al termine del processo sette di loro furono assolti, sette furono condannati a morte, gli altri a pene detentive di diversa durata.
Alexander Mitscherlich era il presidente della Commissione di Osservatori inviata dall’Ordine dei Medici della Germania Occidentale per il processo. Di essa facevano parte anche il dottor Fred Mielke e la psichiatra Alice Ricciardi von Platen. Nessuno di loro aveva ancora raggiunto i 40 anni e, probabilmente, ci si aspettava da parte loro un diplomatico silenzio nello stilare il resoconto delle vicende processuali. Silenzio che, presumibilmente, avrebbe aperto loro le porte verso una brillante carriera sanitaria. I tre incaricati decisero, invece, non solo di raccontare fedelmente la cronaca del processo, ma di contribuire attivamente a quel grande percorso di chiarimento delle responsabilità che nel dopoguerra ritenevano «avrebbe dovuto esserci nel nostro paese» (2), ma che, secondo quanto amaramente dovettero costatare alcuni anni dopo, non ci fu.
A settant’anni di distanza dalla conclusione del processo, e in occasione della Giornata della Memoria di oggi, 27 gennaio, credo valga la pena ricordare quanto scrissero i diversi componenti della Commissione Medica, per provare a capire le ragioni di questa rimozione e valutare se, come io credo, abbiano ancora oggi qualcosa, o molto, da insegnarci.
Alice Ricciardi von Platen fu la prima a scrivere nel 1948 il libro Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, mentre i suoi colleghi, un anno dopo, documentarono il loro lavoro nel testo Medicina disumana. Documenti del “Processo dei medici” di Norimberga (preceduto nel 1947 da un breve opuscolo documentativo). Entrambi i libri passarono non solo inosservati, ma fu come non fossero mai apparsi. La loro sorte «è avvolta ancora oggi nell’oscurità» (3) e il loro contenuto «fu rimosso dalle nostre coscienze» (4).
L’analisi che Mitscherlich offre di questa rimozione nell’introduzione alla seconda edizione del suo lavoro è la seguente: «E qui è opportuno soffermarsi un po’ sulla sorte (finora assai singolare) di questo libro e dell’opuscolo che lo precedette, “Das Diktat der Menschenverachtung”. […] Uscito l’opuscolo, cominciarono a giungerci proteste di alcuni studiosi il cui nome figurava in quei documenti. […] Ma nessuno di coloro che avevano lavorato nell’apparato hitleriano inserì nella sua difesa la semplice frase: Mi dispiace. Qui si profilava già quello che si potrebbe definire l’isolamento dei colpevoli, cioè il riversare tutte le colpe sulle spalle dei criminali patologici, altro aspetto di quell’ostinazione a non voler vedere e capire che a mio avviso, se continuerà, segnerà la fine della nostra esistenza storica» (5).
Porre l’accento su una mancanza, su un «Mi dispiace», credo che non solo sia centrale nell’analisi di quanto accaduto, ma sia soprattutto indicativo della persistenza, anche in seguito, di un certo atteggiamento che, secondo l’Autore, continuava a non riconoscere nelle vittime persone di egual valore.
È interessante notare, inoltre, come questo processo di “patologizzazione” di alcuni per salvare tutti gli altri, questo riversare le colpe su pochi “colpevoli”, non venga da Mitscherlich accettato in maniera esclusiva, bensì solo in relazione a una redistribuzione della responsabilità, diretta e/o indiretta, nell’àmbito di una ben più ampia platea istituzionale: «È innegabile – scrive – che la dittatura di Hitler fu criminale, tanto al vertice quanto al gradino più basso, quello degli aguzzini, ignoranti o istruiti che fossero. Di un’oscurità sconcertante è la funzione svolta dal grande strato intermedio; ma è chiaro che senza la complicità di questo, senza la sua tolleranza e indifferenza, i progetti delittuosi non avrebbero mai potuto tradursi in azione. […] Dei circa 90.000 medici che esercitavano in Germania in quell’epoca, circa 350 si macchiarono di crimini. In sé, la cifra è alta, soprattutto se si pensa alle dimensioni dei delitti; ma in rapporto a tutto il corpo dei medici resta solo una piccola frazione: circa un trecentesimo. […] Ma il nocciolo della questione è un altro. Se 350 furono coloro che commisero direttamente dei crimini, c’era tutto un apparato che li mise in condizione ed offrì loro la possibilità di degenerare. Essi non uccisero pazienti che avevano in cura. […] L’analisi del caso patologico particolare è necessaria, naturalmente, ma non sviscera il rapporto tra causa ed effetto, non sviscera la catena di motivi che rende possibile simili delitti» (6).
Mitscherlich, quando ormai la guerra è terminata da quindici anni, teme che non sia stato ancora colto l’insegnamento e il monito legato a tali crimini. L’averli relegati in un passato ormai superato, attribuendo tutte le colpe ai pochi condannati e ritenendosi quasi immunizzati dal ripetersi di tali avvenimenti, non è accettato dall’Autore: «Ché questa documentazione non riguarda storia morta, ma avvenimenti verificatisi nei nostri tempi. […] E perciò non basta aver paura che certe cose possano ripetersi; bisogna anche capire che quelle cose sono state fatte da uomini che, quando vennero al mondo, non erano mostri, ma spesso in maniera del tutto normale, grazie a doti normali, arrivarono a farsi un’istruzione e ad occupare posti importanti nella società, prima di narcotizzare e paralizzare le facoltà umane che avevano acquisito e di risprofondare nelle bassezze degli istinti bestiali distruttivi. […] Ma ci è parso necessario far forza al nostro amor proprio, cioè alla stima che cerchiamo di avere di noi stessi, e tentare di individuare il rapporto che c’è tra questi fenomeni di abbrutimento di paralisi della coscienza e la nostra “società civile”. Alla base di queste azioni c’è tutta una gamma di atteggiamenti che vanno dalla perversione congenita e dalle peggiori forme di degenerazione alla “tolleranza” servile, quella forma minore disumanità che da un lato è caratterizzata dall’egoismo dell’istinto di conservazione e dalla vile sopravvalutazione di superiori, e dall’altro da una capacità enorme, che sconfina nel virtuosismo, di tacitare la voce della coscienza [grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni, N.d.R.]» (7).
Mitscherlich apparteneva, come i suoi colleghi, al mondo sanitario e lo conosceva dall’interno. Era, inoltre, un membro rispettato di quella “società civile” che non temeva di chiamare in causa. L’aver riconosciuto la preoccupante attualità di alcuni degli aspetti più “comuni” e “normali” degli atteggiamenti e comportamenti, che furono sfondo e, soprattutto, presupposto del “Progetto Eutanasia”, rappresentava per lui un potenziale pericolo di riproposta, magari in modi e forme diversi, di tali crimini e violenze.
Tali preoccupazioni vennero condivise anche dall’altro membro della Commissione, la citata Ricciardi von Platen, che con uno sguardo forse maggiormente rivolto al futuro, nell’introduzione del suo testo ammoniva: «La dimensione raggiunta dall’Eutanasia negli istituti tedeschi dimostra come, una volta intrapresa la strada dell’annientamento delle cosiddette vite indegne, non ci siano più limiti: sostenuti da considerazioni di carattere ideologico e materiale si annienta la vita anormale sino al punto in cui non si è annientata la vita stessa. […] Nell’epoca dell’interesse collettivo, evidentemente, il diritto del singolo alla tutela statale non è più un fatto scontato. Ma se le tendenze distruttive dovessero avere il sopravvento, l’interesse collettivo si trasformerebbe in minaccia di sterminio nei confronti degli individui malati ed indifesi. Finché l’umanità vivrà, solo una parte degli individui sarà conforme alla norma dell’essere umano medio» (8).
Si potrebbe pensare che l’enormità dell’accaduto e la “patologizzazione” degli autori dei crimini siano sufficienti per metterci al riparo dal ripetersi di simili derive criminali. Mitscherlich, Mielke, Ricciardi von Platen, tuttavia, non la pensavano così. Erano stati testimoni del processo, del clima in cui si era svolto e degli atteggiamenti con cui i loro resoconti furono accolti. Alcuni loro ammonimenti mantengono intatta tutta la loro attualità, e portano in primo piano la necessità di continuare a studiare, a ricordare quanto accaduto, cercando, al contempo, di rileggerlo, di contestualizzarlo nella nostra società odierna, in particolare provando a chiedersi se sia stata definitivamente superata la logica di un bio-potere che, secondo Michel Foucault, ha governato le moderne società, fondandosi su un’idea razzista per cui «la morte dell’altro, la morte della cattiva razza, della razza inferiore (o del degenerato, o dell’anormale), è ciò che renderà la vita in generale più sana; più sana e più pura» (9). Concetti che si ritiene essere lontani dalla nostra attuale cultura e civiltà, e che inducono a derubricare la morte dell’“altro” a caso fortuito o inevitabile, a un’eccezione legata, per lo più, a sofferenze personali e/o comportamenti accidentali. L’analisi di Foucault, però, prosegue ulteriormente: «Sia ben chiaro che quando parlo di messa a morte non intendo semplicemente l’uccisione diretta, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta: il fatto di esporre alla morte o di moltiplicare per certuni il rischio di morte, o più semplicemente la morte politica, l’espulsione, il rigetto» (10).
Intesa in questi termini la «morte indiretta» è stata non solo presupposto e precondizione dell’attuazione del “Programma eutanasia”, preceduto da anni di ostracismo, tagli di risorse, violenze e stigmatizzazioni delle persone con disabilità o con disturbi psichici, ma è anche qualcosa che interroga l’attuale “società civile”. Credo infatti che le morti del passato ci riguardino ogni volta in cui non ci indigniamo, non prendiamo posizione o ci giriamo dall’altra parte di fronte a piccole ingiustizie e/o violazioni dei diritti di cui siamo testimoni nel nostro quotidiano. Il fatto che, oggi come allora, ci siano persone che non voltano lo sguardo, che continuano a battersi, nelle grandi così come nelle piccole cose, per la dignità, la garanzia e il rispetto dei diritti di tutti, è, credo, non solo la speranza, ma anche l’impegno della memoria.
Il “Progetto Eutanasia” della Germania nazista
«Il genocidio nazista non si è verificato in un vuoto. Esso fu soltanto il metodo più radicale per escludere alcune classi umane dalla comunità nazista tedesca. La linea politica di esclusione seguì e si sviluppò nel corso di oltre cinquant’anni di opposizione scientifica all’eguaglianza fra gli uomini» (11).
Nel 1920 apparve un libro dal titolo L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute, in cui gli autori, Alfred Hoche (1865-1943), uno psichiatra, e Karl Binding (1841-1920), un giurista, svilupparono un concetto di “eutanasia sociale”: il malato incurabile, secondo gli Autori, era da considerarsi non soltanto come un portatore di sofferenze personali, ma anche di sofferenze sociali ed economiche. Da un lato il malato provocava sofferenze nei suoi parenti e, dall’altro, sottraeva importanti risorse economiche che sarebbero state più utilmente utilizzate per le persone sane. Lo Stato, dunque, arbitro della distribuzione delle ricchezze, doveva farsi carico del problema che questi malati rappresentavano. Ucciderli avrebbe pertanto portato a un duplice vantaggio: porre fine alla sofferenza personale e consentire una distribuzione, più razionale e utile, delle risorse economiche (12).
Tuttavia, la motivazione economica non appariva ancora sufficiente per passare dalla teorizzazione alla pratica della soppressione delle cosiddette “vite indegne di essere vissute”. Il nazismo avrebbe completato le teorie “economiche” aggiungendovi il suo progetto razziale.
Già al tempo della pubblicazione del Mein Kampf, fra il 1924 e il 1926, Hitler aveva dichiarato che la sacra missione razziale del popolo tedesco era quella di «raccogliere e conservare […] i più preziosi fra gli elementi originari di razza e […] di sollevarli con lentezza, ma in modo sicuro, in una posizione di predominio». Hitler fu chiarissimo sulla necessità della sterilizzazione («i mezzi medici più moderni»), a sostegno di una visione immortalizzante della razza mediata dallo Stato («un futuro millenario»). Per lui il rischio era assoluto: «Se non è più presente la forza per lottare per la propria salute, cessa il diritto di vivere in questo mondo di lotta» (13).
Il nazismo predicava un progetto di “igiene della razza” su base “eugenetica”, vale a dire coltivava l’idea di ottenere un miglioramento della “razza” germanica coltivando e favorendo i caratteri ereditari favorevoli, “eugenici”, e impedendo lo sviluppo dei caratteri ereditari sfavorevoli, “disgenici”. All’interno di questo progetto non trovavano ovviamente posto i malati incurabili e le persone con disabilità o con disturbi psichici. Queste persone erano sostanzialmente una minaccia non soltanto per l’economia tedesca, ma, cosa ancor più grave, un terribile pericolo di degenerazione per la razza tedesca nel suo complesso.
È opportuno, però, ricordare che se «l’eugenetica condusse, a lunga scadenza, agli orrori dell’olocausto hitleriano», questa deriva criminale trovò il suo “humus vitale” nella teorizzazione e nell’istituzionalizzazione dell’eugenetica in moltissimi Paesi democratici (Stati Uniti, Svezia, Svizzera…) (14).
Il movimento nazionalsocialista giunse al potere nel gennaio del 1933, con la nomina di Hitler come Cancelliere da parte del Presidente del Reich. Il 14 luglio 1933 fu promulgata la legge sulla sterilizzazione, con il macchinoso nome di Legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie. Tale norma aprì l’offensiva contro le persone con disabilità e servì da pietra angolare per la legislazione eugenetica e razziale del regime. Alle politiche di sterilizzazione furono affiancate politiche di eugenetica positiva, ossia di incoraggiamento e promozione delle nascite ritenute “positive” per il regime.
Relativamente a queste misure promozionali di soggetti “puri”, è doveroso ricordare il Progetto Lebensborn o Fonte della vita. Himmler aveva voluto questo istituto al fine di «creare nelle SS […] un’élite biologica, un nucleo razziale da cui la Germania potesse attingere per rinvigorire un’eredità ariana ora pericolosamente diluita attraverso generazioni di mescolanza razziale».
Nell’àmbito del progetto nazista che doveva sfociare nell’omicidio delle “vite non degne di essere vissute”, un’attenzione particolare venne dedicata alla preparazione dell’opinione pubblica fin dagli Anni Trenta, attraverso un oculato e mirato programma propagandistico. Le organizzazioni naziste prepararono opuscoli, poster e film, dove si mostrava il costo di mantenimento degli istituti medici preposti alla cura dei malati incurabili, e in cui si affermava che il denaro risparmiato poteva essere speso con più profitto per il “progresso” del popolo tedesco “sano”.
Nel 1939, secondo quanto testimoniato dal dottor Brandt al Processo di Norimberga, il padre di un bambino, di nome Knauer, si rivolse alla Cancelleria del Führer (KdF), pregandolo di autorizzarlo a ricorrere all’eutanasia: «Hitler mi incaricò di occuparmi di quella faccenda e di partir subito per Lipsia, per costatare sul luogo se le cose che gli erano state dette rispondevano a verità. Si trattava di un bambino che era nato cieco e sembrava idiota, e a cui inoltre mancavano una gamba e parte di un braccio […]. I medici sostennero che mantenere in vita un bambino simile era veramente ingiustificato. Qualcuno osservò che era più che naturale che negli istituti di maternità, in casi simili, i medici stessi di propria iniziativa somministrasse loro l’eutanasia, senza star tanto a discutere» (15).
Brandt, dopo il consulto con i medici, fece uccidere il bambino. In seguito al “caso Knauer”, Hitler autorizzò Philipp Bouhler, direttore della Cancelleria del Führer, e Karl Brandt, a istituire un programma di soppressione dei bambini portatori di difetti fisici e/o mentali.
Verso l’estate del 1939 la pianificazione era stata terminata e le prime uccisioni avvennero nell’ottobre dello stesso anno. Per l’uccisione furono creati i cosiddetti “Reparti per l’assistenza esperta dei bambini”. Il primo “reparto” fu aperto nella clinica di Heinze a Brandenburg-Gorden e, nella circolare che ne annunciava la creazione, si dichiarava che «sotto esperta supervisione medica il reparto di psichiatria infantile a Gorden fornirà tutti gli interventi terapeutici disponibili resi possibili da recenti scoperte scientifiche». Furono istituiti altri ventidue reparti simili in tutta la Germania, sul modello di quello di Gorden (16). L’attuazione della politica di eutanasia infantile fu così lasciata agli specialisti, ai medici dei reparti infantili e la scelta della tecnica di soppressione era lasciata alla loro discrezione.
Dopo la sterilizzazione obbligatoria e l’uccisione dei bambini, l’uccisione degli adulti rappresentò l’ulteriore passo la cui autorizzazione e copertura “legale” arrivò con una lettera che Hitler stesso indirizzò a Bouhler e Brandt nell’ottobre 1939 (successivamente retrodatata al 1° settembre 1939): «Al capo (della Cancelleria) del Reich Bouhler e al dottor Brandt viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, che devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa» (17).
La sede dell’organizzazione fu stabilita al civico numero “4” della Tiergartenstrasse di Berlino. Proprio da questo indirizzo fu ricavato il nome in codice per l’operazione di eutanasia: T4. Così come per l’eutanasia infantile, la seconda sezione del KdF -la già citata Cancelleria del Führer al cui vertice vi era Bouhler – diretta da Victor Brack, fu quella cui fu assegnato il compito di coordinare l’eutanasia degli adulti, affidandone direttamente a Brack la direzione e il coordinamento.
Brack assunse lo pseudonimo di Jennerwein, e insieme al collaboratore Werner Blackenburg, che utilizzava lo pseudonimo Brenner, iniziò il reclutamento del personale che doveva integrare quello già presente e scelsero personalmente tutti gli uomini e le donne che avrebbero dovuto far parte della T4. Tutto il personale aderì volontariamente.
In seguito furono fondati sei centri di uccisione, anche se, nel corso dello sviluppo del programma, lavorarono insieme non più di quattro centri. I primi due centri, istituiti nel gennaio 1940, cui come a tutti gli altri fu poi assegnata una sigla in codice, furono quelli di Brandeburgo (B), dove si erano tenuti gli esperimenti, e di Grafeneck (A). A maggio del 1940 fu aperto il centro di Hartheim (C) e a giugno quello di Sonnenstein (D). A settembre del 1940 Bernburg (Be) sostituirà Brandeburgo e a dicembre Hadamar (E) sostituirà Grafeneck. Queste sostituzioni si resero necessarie, viste le crescenti critiche provenienti dalla popolazione, e spinsero i dirigenti della T4 a prestare maggiore attenzione alla segretezza e alla dissimulazione dell’operazione, come con l’istituzione dei centri di smistamento in cui i pazienti facevano tappa prima di essere portati alla destinazione finale (18).
Centro di uccisione è la definizione che Henry Friedlander utilizza per definire gli Istituti destinati alla soppressione delle persone selezionate, perché ritiene che sia la più adeguata per descrivere «luoghi in cui gli esseri umani erano uccisi con una procedura che prendeva a modello la produzione industriale», distinguendoli dai campi di concentramento, poiché in questi ultimi gran parte dei prigionieri moriva per fame, malattie, lavori forzati e/o esecuzioni sommarie (19).
Nei centri di uccisione l’utilizzo di farmaci per via iniettiva, come testimonierà Karl Brandt, fu sperimentato con scarso successo, sia per i tempi del decesso sia giacché la morte con questa procedura era giudicata “inumana”. Fu così fatta la proposta dell’impiego del monossido di carbonio e lo stesso Brandt, in un successivo colloquio con Hitler, gli consiglierà l’impiego del gas come metodo più umano di uccisione delle vittime.
La scelta, il numero e l’organizzazione del personale rispondevano a un’esigenza strettamente correlata all’uccisione delle persone, ossia, come ben descrive Friedlander: «Se la camera a gas fu un’invenzione della Germania nazista, una creazione ancora più rilevante fu il metodo approntato per trascinare le vittime nelle camere a gas, ucciderle e disfarsi dei loro corpi, come in una catena di montaggio. […] Ogni partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più di una piccola rotella in una grande macchina medica che aveva la sanzione ufficiale dello stato» (20).
La concomitanza di diversi fattori (l’impossibilità di mantenere il segreto sull’operazione e le crescenti proteste della cittadinanza, i sermoni di denuncia del vescovo Clemens August von Galen, e il probabile raggiungimento del numero di vittime previsto) (21), portarono Hitler a ordinare la sospensione dell’operazione T4 il 24 agosto 1941. Tale ordine, tuttavia, se da una parte obbligò dirigenti e responsabili a ridimensionarne l’impianto organizzativo, dall’altra non ebbe l’effetto di sospendere gli omicidi, bensì esclusivamente quello di imporre un cambiamento del metodo con cui erano effettuati.
Si aprì così una nuova fase, comunemente definita di “eutanasia selvaggia”, e in cui i medici potevano decidere di loro iniziativa chi doveva o no morire e come ucciderlo. Non si uccidevano più le persone nelle camere a gas, si uccidevano nelle corsie degli ospedali, con farmaci e/o per inedia (22). Le professioni sanitarie, in particolare gli psichiatri, assunsero il comando delle operazioni e ponderarono attentamente i modi “scientificamente” migliori per uccidere i pazienti.
Parallelamente al proseguimento delle uccisioni delle persone con disabilità negli ospedali vi fu inoltre anche la prosecuzione del progetto di ampliamento del raggio d’azione della T4, le cui pratiche erano state esportate già nella primavera del 1941 – prima dell’ordine di sospensione di Hitler – nei campi di concentramento, sotto la sigla 14f13, e si erano estese in modo indiscriminato a un vasto numero di prigionieri e, in particolare, agli ebrei.
Nell’àmbito dell’operazione 14f13 assistiamo all’ampliamento delle potenziali vittime, attraverso un passaggio che appare significativo e rende più chiaro l’anello di congiunzione tra lo sterminio dei disabili e quello degli ebrei. Oltre alle persone con disabilità e inabili al lavoro, in precedenza selezionate e uccise, gli ebrei diventano una categoria di persone da uccidere, pur con l’inutile formalità, come si è visto, della visita medica.
Con la conclusione della T4, inoltre, il personale impiegato nel progetto di eutanasia fu reclutato per portare avanti le azioni di sterminio coordinate e gestite dalle SS. Particolarmente significative in tal senso sono le valutazioni che lo storico Edouard Husson fa sui collegamenti tra il programma T4 e Reinhard Heydrich, braccio destro di Himmler e, probabilmente, l’artefice e il principale ideatore della “soluzione finale”.
Il coinvolgimento delle SS e l’interesse di Heydrich sugli sviluppi del programma T4, fin dal suo inizio, erano legati all’idea che il sistema “eutanasia” avesse tutte le caratteristiche di una “soluzione definitiva”, e che ci fosse la possibilità di ampliarlo ad altri gruppi di persone, non appena ve ne fossero stati i presupposti. Nel novembre del 1941, un centinaio di funzionari e medici impiegati nella T4 furono inviati in Polonia per lavorare, sotto le direttive di Odilo Globocnik e Adolf Eichmann, alla realizzazione del campo di sterminio di Belzec.
Belzec, insieme a Sobibor e Treblinka, facevano parte di un unico progetto finalizzato allo sterminio degli ebrei di Polonia, che prenderà il via nel 1942 e sarà definito Aktion Reinhard, in relazione al nome del suo ideatore, morto nel giugno del 1942 (23).
Nel mese di dicembre 1941 arrivò a Belzec anche Christian Wirth, che aveva avuto una parte centrale nella realizzazione della prima camera a gas a Brandeburgo. Wirth fu poi promosso ispettore di tutti e tre i centri, subordinato solo a Globocnick.
Dopo la fine di Aktion Reinhard nel 1943, il gruppo della T4, composto di ben novantadue persone, sotto la direzione di Wirth, si trasferì sulla riviera adriatica, occupando e cercando di trasformare la vecchia Risiera di San Sabba, vicino a Trieste, in un campo di sterminio.
Secondo diversi Autori vi fu una stretta relazione tra lo sterminio dei disabili e la “soluzione finale” attuata dai nazisti e finalizzata all’eliminazione degli ebrei. Secondo Friedlander, in particolare, gli ebrei non furono l’unico gruppo di persone selezionato con criteri biologici, ma tale criterio fu applicato anche alle persone con disabilità, secondo il medesimo crescendo che passò attraverso la definizione di normative discriminatorie, l’attuazione di politiche ostracizzanti e in ultimo la realizzazione del programma di omicidio di massa per l’eliminazione definitiva.
Seguendo con attenzione la cronologia delle operazioni di sterminio naziste si può ragionevolmente concludere che essendo stato l’omicidio delle persone con disabilità il primo, precedendo quello degli zingari e quello degli ebrei, con buona probabilità è servito anche da modello e “prova generale” per i successivi. Il successo dell’operazione convinse i gerarchi nazisti che era possibile indurre uomini e donne comuni a uccidere un gran numero di persone innocenti, con la copertura e la cooperazione delle strutture burocratiche e culturali/scientifiche. Per Friedlander, dunque, lo sterminio delle persone con disabilità non fu solo la premessa della soluzione finale, ma il suo primo capitolo (24).
Nell’opera di Raul Hilberg La distruzione degli Ebrei d’Europa, Christopher R. Browning (25) evidenzia come il numero delle pagine e gli approfondimenti legati all’argomento siano stati considerevolmente aumentati tra la prima edizione del 1961 e quella, riveduta e ampliata, del 1985, in cui l’Autore afferma che: «L’eutanasia era la prefigurazione concettuale e nello stesso tempo tecnica e amministrativa della “soluzione finale” che sarebbe stata attuata nei campi di sterminio» (26).
Se il nazismo contribuì allo sviluppo parossistico di questi nuovi meccanismi di potere, è importante rilevare come gli stessi siano, tuttavia, presenti in tutte le società moderne che funzionino secondo le modalità del bio-potere (27). Occorre sviluppare un’analisi approfondita di questi meccanismi, proprio a partire dalla loro manifestazione estrema. Il rischio di banalizzarli o dimenticarli non solo sarebbe ingenuo, ma, forse, sarebbe un nuovo passo verso la loro tacita accettazione e verso le loro potenziali derive.
Note:
(1) Alexander Mitscherlich, Fred Mielke, Medicina disumana. Documenti del “Processo dei medici” di Norimberga, ed. it. 1967 (I ed. 1949, II ed. 1960), Milano, Feltrinelli, p. 5.
(2) Ibidem, p. 12.
(3) Norbert Frei, Carriere. Le elites di Hitler dopo il 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 22.
(4) Alice Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, ed. it. 2000 (I ed. 1948, II ed. 1993), Firenze, Le Lettere, p. 5.
(5) Mitscherlich, Mielke, Medicina disumana cit., p. 14.
(6) Ibidem, p. 13.
(7) Ibidem, p. 6.
(8) Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente cit., pp. 10-11.
(9) Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 219-222.
(10) Ivi.
(11) Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 3.
(12) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Milano, Baldini Castoldi, 2003, passim.
(13) Robert Jay Lifton, I medici nazisti, Milano, Rizzoli Editore, 2002, p. 43 (edizione più recente 2012).
(14) Raffaella De Franco, In nome di Ippocrate. Dall’“olocausto medico” nazista all’etica della sperimentazione contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2001, p. 114.
(15) Mitscherlich, Mielke, Medicina disumana cit., p. 138.
(16) Gianni Moriani, Pianificazione e tecnica di un genocidio, Roma, Franco Muzzio, p. 71.
(17) Ibidem, p. 72.
(18) Friedlander, Le origini del genocidio nazista cit., p. 123.
(19) Ibidem, p. 454.
(20) Ibidem, p. 129.
(21) Richard J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, Milano, Mondadori, 2014, passim.
(22) Lifton, I medici nazisti cit., p. 134.
(23) Michael Burleigh, Wolfgang Wippermann, Lo stato razziale. Germania (1933-1945), Milano, Rizzoli, 1992, p. 148.
(24) Friedlander, Le origini del genocidio nazista cit., p. X.
(25) Christopher R. Browning, Le origini della soluzione finale, Milano, il Saggiatore, 2012, p. 205.
(26) Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1999, p. 985.
(27) Foucault, Bisogna difendere la società cit., p. 225.
Segnaliamo che accedendo a un’altra ampia ricognizione storica, curata da Stefania Delendati per il nostro giornale, con il titolo Quel primo Olocausto, oltre ad approfondire i vari temi riguardanti lo sterminio di migliaia e migliaia di persone con disabilità, da parte del regime nazista, si può anche consultare (nella colonnina a destra del testo) il cospicuo elenco di testi da noi presentati in questi anni su tale materia.