Halifax, capitale della provincia della Nuova Scozia nel Canada Orientale. Presso l’Art Gallery of Nova Scotia della città c’è un’opera bizzarra. Si tratta di un’esuberante casetta di legno, decorata con disegni a colori vivacissimi. Disegni semplici, fiori e animali, eppure non infantili ad osservarli bene, anche se richiamano alla gioia pura che soltanto i bambini possono provare.
Prima di diventare un’installazione artistica, quella minuscola abitazione che sembra uscita da una favola è stata per trentadue anni l’abitazione di una pittrice folk semisconosciuta di nome Maud Lewis.
Il cinema ha contribuito a svelarne l’esistenza fuori dai confini canadesi, nel 2016, quando al Toronto Film Festival ha debuttato Maudie – Una vita a colori, intensa pellicola biografica che narra la vicenda umana di questa piccola straordinaria donna con disabilità. Un’esistenza poverissima e ai margini, caratterizzata dal sorriso e dalla serenità che sapeva trasmettere con le sue opere e – afferma chi l’ha conosciuta – dal suo modo di essere timido e dolce.
Il cognome da nubile di Maud era Dowley, nacque il 7 marzo 1903 in Nuova Scozia, probabilmente a Yarmouth. I genitori, John e Agnes, non disponevano di grandi risorse e potevano offrire poco alla loro bambina, venuta al mondo con gravi problemi fisici.
L’artrite reumatoide la costrinse a convivere dalla più tenera età con un dolore costante, la malattia le deformava le dita, le incurvava le spalle, il mento restava premuto contro il petto, l’andatura era claudicante. Era più piccina dei coetanei, a scuola il suo aspetto la rendeva una vittima prediletta di bullismo. Maud ne soffriva, si sentiva a disagio, ragion per cui abbandonò gli studi a quattordici anni.
Cominciò a trascorrere molto tempo da sola, ma non era infelice. I genitori la circondavano di cure amorevoli e, malgrado le difficoltà, le insegnavano che anche lei aveva delle potenzialità. La mamma dipingeva cartoline di Natale che rivendeva per raggranellare qualche soldo, fu lei ad impartirle le prime lezioni di disegno. Maud seguì le orme materne con i biglietti augurali, un formato piccolo scelto per necessità, perché le grandi tele erano impossibili da “affrontare” con i limitati movimenti delle sue braccia (nella sua carriera produrrà solo cinque quadri di sessanta centimetri per novanta).
Quando le mani devastate dall’artrite non le consentirono più di suonare il pianoforte – altra sua passione – colori e pennelli diventarono gli unici amici. Resterà questo il periodo più sereno della sua vita, perché poi, dalla metà degli Anni Trenta, l’esistenza di Maud prese una piega drammatica.
Nel 1935 morì il papà, seguito due anni dopo dalla mamma. Il fratello maggiore, Charles, reclamò per sé l’eredità di famiglia, estromettendo la sorella che, rimasta senza alcun mezzo di sostentamento, fu costretta a trasferirsi a casa di una zia, nella cittadina di Digby.
Nella medesima contea si trova Marshalltown, una comunità rurale dove abitava Everett Lewis, venditore ambulante di pesce. Scapolo quarantenne, rozzo e semianalfabeta, aveva bisogno di una governante tuttofare e mise un annuncio in un negozio locale. Un giorno sentì bussare alla porta della sua microscopica dimora, andò ad aprire e si trovò davanti Maud. Quello scricciolo fragile, somigliante a un folletto, era interessato ad accettare l’impiego come domestica. Fino ad allora aveva conosciuto soprattutto la solitudine e l’emarginazione, Maud aveva voglia evidentemente di riscatto e indipendenza.
Non è dato sapere quale alchimia scattò tra i due, sta di fatto che nel 1938 diventarono marito e moglie.
La casa coniugale era l’angusto capanno di Everett, un’unica stanza con soffitta, il tetto spiovente per difendersi dalle gelide tempeste atlantiche, senza elettricità né acqua corrente, una stufa in ghisa alimentata a legna serviva per riscaldare e cucinare. Al piano di sopra si andava la sera, per dormire, salendo sulla scaletta scricchiolante almeno quanto le ossa di Maud.
La giovane sposa trasformò quel tugurio nel suo studio, tra quelle mura squallide dipingeva le cartoline che poi vendeva ai clienti del marito a venticinque centesimi l’una, quando lo seguiva nel quotidiano giro del pesce.
Le scene di vita quotidiana riprodotte con colori brillanti ebbero un successo immediato e la incoraggiarono a prendere sul serio quello che fino ad allora era stato un passatempo. Everett le comprò il primo set di colori ad olio e le tagliò piccole tavole di legno su cui disegnare. Non si sa se lo fece per amore o perché aveva fiutato l’affare. I conoscenti, anni dopo, lo descriveranno come un uomo avaro che, per risparmiare, aveva rimosso le batterie dalla radio, impedendo a Maud di ascoltarla, e nascondeva i magri guadagni delle cartoline sotto le assi del pavimento o in vasi sepolti nel terreno.
Ad un certo punto il progredire dell’artrite non permise più a Maud di svolgere i lavori domestici, se ne occupava Everett, lamentandosi. Appollaiata su una sedia accanto alla finestra, lei creava intanto il suo mondo fantastico. Dipingeva ogni superficie disponibile nella casupola, finestre, porte, carta da parati, la stufa, il lavabo, perfino le teglie per i dolci, nulla sfuggiva al suo traboccante estro artistico. Le pareti divennero un paradiso terrestre di foglie, boccioli, uccelli e farfalle; l’intera casa un inno alla gioia che nessuno si sarebbe aspettato, conoscendo la dolorosa quotidianità dell’artista. E possiamo immaginare quanta fatica le costò decorare quegli spazi, lei che teneva il pennello con la mano contorta, sorreggendola con l’altro braccio.
Il passaparola attirò un numero crescente di curiosi a Marshalltown, civico 1 in una stradina sterrata e isolata ai margini dell’Highway, la principale arteria viaria della Nuova Scozia occidentale. Sul ciglio della strada era affisso un cartello, Dipinti in vendita, la gente svoltava all’interno e per due o tre dollari, al massimo cinque, si portava a casa un dipinto gioioso.
Maud stendeva un primo strato di bianco, disegnava le linee guida e infine dipingeva, estraendo la pittura pura dal tubetto, senza mischiare o sfumare i colori. La prospettiva era infallibile, le veniva spontaneo, non aveva mai frequentato alcuna accademia d’arte. Traeva ispirazione dalla sua infanzia, dai rari viaggi in città e dal paesaggio che intravedeva dalla finestra: «Dipingo tutto a memoria, non copio molto, perché non vado da nessuna parte, faccio solo i miei disegni».
Nei quadri di Maud le persone sorridono felici su carrozze vivacemente equipaggiate, i buoi portano al collo campanacci da cui pare uscire il suono, gli alberi sono un tripudio di fiori, i bambini pattinano, le barche galleggiano sull’acqua mentre i gabbiani volano placidi sul mare. I soggetti prediletti erano i gatti dallo sguardo allegro, occhi spalancati su campi di tulipani.
Il passaparola trasformò Maud in una celebrità. Nel 1964 il giornale di Toronto, «Star Weekly», pubblicò un articolo su di lei, e nel 1965 la CBC-TV le dedicò un documentario.
Dopo la trasmissione, divenne una figura di culto in Canada, i suoi dipinti si vendevano anche a dieci dollari, un’inezia considerando che nel 2017 un quadro della Lewis è stato battuto all’asta per 45.000 dollari e un piccolo originale autenticato ne vale fino a 2.000.
La sua notorietà raggiunse gli Stati Uniti e durante la sua presidenza alla Casa Bianca, Richard Nixon le commissionò due dipinti. Era lei il capofamiglia, quella che portava a casa il pane, ma non pareva affatto farci caso. Il suo piacere più grande restava l’atto creativo in sé, vedere la felicità negli occhi di chi guardava i suoi disegni e con essi tornava ad apprezzare il piacere delle cose semplici.
Durante i suoi ultimi cinque anni di vita, un flusso costante di persone si affacciava alla porta della sua casa, tutti erano intrigati dal suo spirito e da quello stile pieno di vitalità, dal suo vivere solitario. Solitario sì, ma anche insalubre e per nulla adatto ad una donna nelle sue condizioni di salute.
Nel 1969 fu un continuo pellegrinaggio avanti e indietro dall’ospedale. Confinata permanentemente in casa, quando non era ricoverata, rimaneva nel solito angolo davanti alla finestra, dipingendo ogni volta che poteva. Morì nel nosocomio di Digby, il 30 luglio 1970, per le conseguenze di una polmonite. Il suo apparato respiratorio era rovinato dalla costante esposizione alle vernici e al fumo della legna.
Aveva sessantasette anni, venne coricata in una bara per bambini e sepolta in una tomba per indigenti. Un finale ingrato per quella che ormai era una figura di culto in Canada.
Dopo la sua scomparsa alcuni truffatori – tra cui, si dice, il marito – produssero dei falsi con l’intento di speculare sulla fama dell’artista, una pittrice prolifica che aveva lasciato centinaia di opere, un’icona del movimento popolare per la quale la domanda del mercato era aumentata.
Fortunatamente non tutti miravano al vile denaro. Dal 1979, anno della morte di Everett per mano di un ladro, la casetta cominciò ad andare in rovina. Nella contea molti la consideravano un monumento, e così un gruppo di cittadini fondò la Maud Lewis Painted House Society, un’organizzazione che aveva lo scopo di raccogliere fondi per ristrutturare quella dimora dipinta con amore. Resisi però conto che l’impresa avrebbe richiesto molto più denaro di quanto sarebbero riusciti a racimolare, nel 1984 la casa venne venduta alla Provincia della Nuova Scozia e consegnata alle cure della Art Gallery of Nova Scotia, smontata, restaurata e rimontata all’interno della galleria, dove tuttora si trova come parte permanente della mostra di Maud Lewis.
Nella posizione originaria, a Marshalltown, vi è invece una replica dell’abitazione in acciaio, mentre nel 1999, pochi chilometri più a Nord, sulla strada per Digby, un pescatore in pensione ne ha costruito una copia fedele, completa degli interni.
Chi si trova davanti all’originale o a uno dei suoi “cloni”, stenta a credere che in quello spazio ristretto abbia potuto vivere una persona per oltre trent’anni. Maud era una “finta semplice”, mi si passi la definizione, come le sue opere, evocative e nostalgiche, che risultano infantili soltanto ad un occhio poco attento, perché in realtà hanno composizioni sofisticate e denotano un acuto spirito di osservazione.
Aveva qualcosa di speciale, è un esempio del trionfo dello spirito umano sulle avversità, un modello di resilienza, parola che oggi va di moda e che lei, non conoscendola, ha messo in pratica con naturalezza. Una donna intensa, appassionata e particolarissima, delicata nel corpo e dotata di una forza mentale eccezionale.