Ammetto di essere molto turbato dalle conseguenze logiche e morali di una sentenza clamorosa, ma che stranamente, per ora, ha avuto scarsa eco, forse per l’imbarazzo che suscita e per il rispetto doveroso nei riguardi della famiglia al centro della vicenda.
Una bambina che nasce con la sindrome di Down, in poche parole, ha un danno per la propria vita che oggi si può quantificare: un milione di euro. Una somma da destinare non ai genitori, ma proprio a lei, alla bimba, ora ragazza. Lo ha deciso in via definitiva la Cassazione.
La storia nasce a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, ma ciò che a me colpisce non è il merito della sentenza, ma la cultura che l’ha prodotta, e che la sostiene.
In estrema sintesi, una donna, incinta, chiede al medico di effettuare esami tali da tranquillizzarla sulla salute del nascituro. Il medico non le ordina – fra i vari esami di routine – quelli che consentono la diagnosi precoce di una serie di possibili malformazioni genetiche, fra cui la sindrome di Down. La bambina nasce proprio con tale sindrome. I genitori denunciano il medico e l’ospedale. Ritengono di non essere stati messi in condizione di decidere se portare avanti o meno la gravidanza. Il tribunale dà loro torto per due volte, fino al verdetto ribaltato in Cassazione. Ma la vera novità, che l’avvocato della famiglia giudica infatti una «rivoluzione copernicana», è che per la prima volta si stabilisce che nascere con un handicap è un danno gravissimo per la persona che nasce, non per i genitori. E quindi il bambino con disabilità ha diritto a un indennizzo, per i danni che la sua vita comporterà in modo permanente.
Sono certo che moltissime persone riterranno questo ragionamento del tutto corretto, anzi ineccepibile, giusto. Diranno: «Finalmente!». Io sinceramente sono invece terrorizzato dall’idea che passa attraverso questa Sentenza.
In Italia, da oggi in poi, è sancito che nascere con una disabilità è un disastro. È una vita persa in partenza. Non è un ragionamento legato all’eterna e mai risolta diatriba attorno all’aborto, si badi bene. È qualcosa di più sottile e di più inquietante. Si stabilisce che un bimbo con sindrome di Down vale un milione di euro (di danni). Se c’è un modo per quantificare lo stigma attorno alla disabilità, questo è uno dei più sottili e convincenti, proprio perché si traduce in denaro, ossia in risorse fornite alla ragazza con sindrome di Down, per “rifarsi una vita”, visto che la sua – poveretta – è “di seconda scelta”, di scarsa qualità, definitivamente compromessa.
Non voglio certo negare le difficoltà che tuttora esistono nell’educazione e nella crescita di un bambino con una disabilità congenita, anche se negli ultimi anni abbiamo esempi eccellenti di vita piena e dignitosa di tante persone con sindrome di Down. Ma questo retrogusto di carattere eugenetico mi preoccupa. Ci vedo l’eco di teorie utilitaristiche del primo Novecento, le stesse che – importate dagli Stati Uniti in Nord Europa e in Germania – hanno condotto fino alle teorie eugenetiche condotte all’estremo esito dello sterminio nazista, raccontato stupendamente da Marco Paolini in Ausmerzen vite indegne di essere vissute.
Meglio non nascere, dice in sostanza la Cassazione. E se si nasce con un handicap, è colpevole chi non ha fatto la propria parte per evitarlo. E deve pagare. Tanto. Mi guardo allo specchio: ho sessant’anni. Sono nato con venti fratture per gli esiti dell’osteogenesi imperfetta. Una vita segnata, certo. Ma che vita. Anche mia madre non sapeva, allora, che le cose sarebbero andate così. Non so, sospendo il giudizio. Il mio personale giudizio.