È stato dunque pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge 71/24 (Disposizioni urgenti in materia di sport, di sostegno didattico agli alunni con disabilità, per il regolare avvio dell’anno scolastico 2024/2025 e in materia di università e ricerca).
Innanzitutto non può non colpire il fatto che si tratti di un atto governativo d’urgenza, anziché il frutto di una discussione parlamentare, data la particolare delicatezza dell’argomento.
In sostanza, di particolare rilevanza per la qualità dell’inclusione scolastica italiana, sono tre gli articoli, al Capo II, importanti per le innovazioni che comportano:
° Articolo 6: Potenziamento dei percorsi di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità, che prevedono quelli che sono già stati chiamati i “mini-corsi” per coloro che lavorano senza specializzazione su sostegno didattico presso l’INDIRE (Istituto Nazionale Documentazione, Innovazione, Ricerca Educativa);
° Articolo 7: Percorsi di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità per i possessori di titolo conseguito all’estero, in attesa di riconoscimento, sorta di “sanatoria” con annesso corso di INDIRE per coloro abbiano acquisito specializzazioni estere (argomento di grande ambiguità mai risolte dal Ministero ormai da troppi anni);
° Articolo 8: Misure finalizzate a garantire la continuità dei docenti a tempo determinato su posto di sostegno.
Sull’articolo 6 l’unica riflessione possibile rimanda alla decisione politica che privilegia la quantità degli insegnanti formalmente specializzati rispetto alla qualità e al merito della formazione.
Si ricorda sommessamente che gli attuali TFA-Tirocini di Formazione Attiva (percorsi, a parere di chi scrive, già fin troppo brevi) prevedono procedure selettive in ingresso che dovrebbero garantire un certo livello di partenza. E qui preferisco fermarmi, segnalando unicamente la disparità di trattamento di chi, avendo già pagato la tassa relativa, ha sostenuto le prove per il “percorso ordinario” e si trova adesso su un binario che avrà il doppio del costo e della durata, anche se in possesso dei requisiti che avrebbero permesso l’accesso al percorso agevolato. Quali tipologie di università abbiano già stabilito partnership con l’INDIRE, se tradizionali o telematiche, non è dato sapere.
Preferisco invece dettagliare la mia analisi sull’articolo 8 il quale prevede, in estrema sintesi, che «al fine di agevolare la continuità educativa e didattica di cui al comma 1, nel caso di richiesta da parte della famiglia, e valutato, da parte del dirigente scolastico, l’interesse del discente, nell’ambito dell’attribuzione degli incarichi a tempo determinato» si possa confermare la docenza annuale all’insegnante, specializzato o meno, su posto di sostegno.
L’analisi di questa disposizione che, in premessa, assume caratteristica di urgenza tale da non poter essere discusso nelle sedi parlamentari, deve passare per due distinti piani di lettura.
Il primo è certamente quello giuridico: difatti, in nome della continuità didattica, affermata già dal Decreto Legislativo 66/17, si propone sostanzialmente un incarico diretto a personale precario inserito in graduatorie provinciali.
La prima questione riguarda l’applicabilità generale o particolare, la valenza generale di una norma, ed è la seguente: può il principio di continuità riguardare una singola tipologia di insegnante “precario”? Non dovrebbe invece riguardare il team docente tutto (precario, come di ruolo) oppure ci sono docenti più “utili” di altri? Perché l’insegnante di sostegno dovrebbe essere diverso dai suoi colleghi? Perché la continuità didattica dovrebbe essere garantita da un singolo docente?
E dunque è facile concludere che si introduce una sorta di “discriminazione” al contrario, sintomo dell’idea mai troppo nascosta che l’inclusione è una faccenda esclusivamente in capo al docente di sostegno.
La seconda questione giuridicamente rilevante riguarda la trasparenza delle procedure di merito nell’individuazione degli incarichi dalle graduatorie. Si ritiene realmente possibile che, in base a criteri del tutto soggettivi, si possa ignorare la procedura pubblica legata a titoli e anni di servizio? Qui si apre lo spazio più buio e normativamente discutibile di questo articolo.
E infine, appare quanto meno sbalorditivo, all’interno del comma 3 dell’articolo, l’uso dell’espressione «titolo di specializzazione per l’insegnamento agli alunni disabili [corsivo di chi scrive]»: sfugge forse allo spettabile Ministero l’introduzione dell’espressione «con disabilità», prevista sin dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006, ratifica dall’Italia nel 2009?
E tuttavia, non essendo una giurista, ciò che mi preme di più esprimere è la preoccupazione legata ad una mancanza di visione, l’ennesima, di natura psico-pedagogica, di quelli che sono i delicati equilibri della relazione educativa.
Intanto viene a mancare, dalle fondamenta, quell’idea di comunità educante in cui educare è diritto-dovere di tutti, e non di alcuni. Ovvero, se l’inclusione arranca, non è caricandone il peso completamente sulle spalle degli insegnanti con incarico a tempo determinato su sostegno che otterremo una scuola nuova e migliore. Anzi, è proprio la mancanza di condivisione, di corresponsabilità educativa che nega la piena realizzazione di una visione, quella inclusiva, che deve diventare patrimonio di tutti i professionisti che operano a scuola. Diversamente, invece, è nel superamento dell’insegnante “dedicato esclusivamente a…” che può intravedersi una crepa nel meccanismo costante di delega che ha caratterizzato finora la scuola.
Le storture di questa delega sono note: GLO (Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione) a cui non tutti partecipano, PEI (Piani Educativi Individualizzati) scritti esclusivamente dagli insegnanti di sostegno, “aule dedicate” (segno di una separazione mai effettivamente superata), valutazioni mai veramente personalizzate, l’assoluta marginalità di molti insegnanti di sostegno cui mai è stato concesso di sentirsi veramente corresponsabili e co-docenti della classe (ciò che il mio amico Carlo Scataglini chiama “la sedia dell’insegnante di sostegno”, quella in fondo all’aula, quando c’è) . E altro, che costituisce la realtà che tutte le persone di buona volontà conoscono bene.
E poi c’è una questione ancora più delicata, ed è quella della committenza e dell’autonomia docente.
Scopo del docente è favorire un progetto di autonomia e autodeterminazione che ha obiettivi e strumenti propri. E che deve rispondere a criteri di scienza e coscienza che fanno capo alla professionalità di quel docente. E che, se deve essere valutata, deve esserlo con criteri docimologici precisi che riguardino la collettività della scuola. Evidentemente, il criterio del “gradimento” di un genitore non può essere né scientifico né oggettivo.
Stesso discorso si pone rispetto al decisore finale, ovvero il Dirigente Scolastico, che verrebbe caricato di un potere e di una discrezionalità su cui è bene riflettere molto attentamente. Il tutto, naturalmente, come trattamento specificamente riservato ad uno specifico insegnante e non ad altri.
Se il nostro orizzonte deve essere quello di una comunità educante, che si costruisce con il dialogo e la condivisione di intenti, lo spostamento della committenza dallo Stato al gradimento dei genitori, non può che minare dalle basi i necessari rapporti di fiducia e indipendenza che soli possono costruire un vero Progetto educativo basato sull’alunno. Che, ricordo sommessamente, è il vero, unico e solo committente di quello che è il Progetto di vita che lo riguarda.
Non è difficile comprendere quale mare di possibile collusione affettiva nasconda questo dispositivo giuridico. Insegnanti precari che, per ottenere l’agognata conferma, devono mettere al primo posto l’insindacabile gradimento del genitore. A tal proposito, provenendo la sottoscritta dal cosiddetto “privato sociale”, so già fin troppo bene cosa significa “accontentare l’utente” per mantenere il posto di lavoro, anziché applicare – anche quando difficile e a volte, fonte di scontro -, un progetto educativo vero. Che implica scelte non scontate, a volte faticose, a volte difficili. L’esatto contrario dell’adagio “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone” che sembrerebbe essere la ratio di questo provvedimento.
Non si contesta, né si potrebbe l’importanza del ruolo dei genitori, né la loro piena e indiscussa responsabilità sui figli. Né le loro comprensibili e reali preoccupazioni sullo stato dell’inclusione e sulla questione della “girandola” di insegnanti di sostegno che mutano ogni anno. Ma è necessaria una riflessione accorta. Che non scambi fra loro problemi e soluzioni. Ad esempio, riguardo la questione delle cattedre di fatto infinitamente superiori a quelle di diritto, che rendono la questione del precariato praticamente endemica. Oppure il fatto che, se l’inclusione non funziona, il dito è invariabilmente puntato sugli insegnanti di sostegno, per quel meccanismo di delega per cui si continua a voler ignorare che l’inclusione si fa “nel villaggio”, non “nella capannetta isolata di sostegno”.
C’è un’idea di scuola, dietro a questo provvedimento, che non si può fingere di non vedere. È un’idea privatistica, di customer satisfaction [letteralmente “soddisfazione del cliente”, N.d. R.], di mercato basato sul gradimento, di conservatorismo compassionevole che, mentre finge di offrire “spazi” all’inclusione, costruisce “centri di accoglienza” con annesso “personale specializzato” per mantenere isolati e controllati i soggetti meno funzionali alle logiche dell’individualismo, dell’abilismo e della privatizzazione galoppante che hanno investito ormai tutti i settori dei servizi pubblici.
L’esatto opposto, quindi, di un’idea di scuola pubblica, indipendente, garanzia di diritti ed equità per tutti e tutte, per promuovere le differenze e le potenzialità di ciascuno.
Insegnante di sostegno, già assistente all’autonomia e alla comunicazione.
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