Può succedere, a volte, che i mass-media propongano l’uso esasperato di neologismi o di termini fino a poco tempo prima usati – come dire? – “normalmente”, che entrano a far parte, tout court, del nostro bagaglio comunicativo. È capitato ieri, ad esempio, con “nella misura in cui…” o “un attimino”, succede oggi con il “detto questo…”, con lo “stacchiamo la spina”, con “l’infantilismo intra-uterino”, e anche con l’abuso (avete notato?) dell’aggettivo “ottimo” e via dicendo.
In questo clima inflazionato, capita magari – persino a una modesta persona come il sottoscritto – di veder giudicato svariate volte, con la patente di “ottimo”, un normale intervento sul tema del cosiddetto “dopo di noi” [“‘Dopo di noi’: costruire il futuro, conoscendo il presente”, pubblicato dal nostro giornale, N.d.R.], in cui francamente credevo di essermi limitato a sottolineare situazioni e condizioni che tutti, ahimè, dovremmo conoscere bene.
Non mi meraviglia, allora, che una persona di levatura ben più alta, pubblica e autorevole, quale certamente è il giornalista e scrittore Gianluca Nicoletti, raccolga – ed è facile averne un riscontro visitando sul web network e siti specializzati – una miriade di “ottimo” e “mi piace” per la pubblicazione di un articolo che viceversa, a mio parere, è stato – meno prosaicamente – un “buon” intervento, su cui non è blasfemo – tuttavia – non ritrovarsi in totale sintonia.
Detto che tale articolo è stato da me immediatamente ripreso e inserito integralmente nel sito che amministro, trattandosi in ogni caso di un prezioso e lodevole contributo sull’autismo, mi viene in mente che forse siamo messi abbastanza male, se il dibattito e l’interesse su questo drammatico tema si accendono a intermittenza ed esponenzialmente soprattutto in coincidenza con la pubblicazione di un articolo o di un’intervista.
Segno di una discussione che latita? Di una scarsa capacità, da parte delle Associazioni, di tradurre in progetto strategico il disagio e i bisogni di genitori e figli? Di un appeal ridotto ai minimi termini? Chissà… Mi sembra, però, che anche questo elemento possa e debba diventare motivo di riflessione, per Associazioni che ambiscono a recitare un ruolo attivo in un processo di cambiamento sicuramente non facile, all’interno del quale faticano a conquistarsi spazi.
Due temi mi sono sembrati pericolosamente assenti o, se si vuole, carenti, nel citato articolo di Nicoletti: quello legato alla denuncia dei motivi per cui, con la maggiore età, muta radicalmente la vita dei nostri figli, favorendo per conseguenza il ricorso a scelte quasi sempre molto dolorose; e l’altro – addirittura ancor più centrale – di quale possa essere il modello educativo da proporre loro, per intercettarne, più e meglio, le necessità (talune delle quali primarie), favorendo lo sviluppo delle autonomie indispensabili. Nodo, mi sia consentito ricordarlo, che non potrà certo essere sciolto, sic et simpliciter, dalla pur auspicata opzione legislativa, sebbene io trovi tutt’altro che indifferente avere o non avere una legge di riferimento sull’autismo.
È insomma su questo, sulla scelta di un efficace programma abilitativo da applicare ai nostri figli, che si gioca – a mio parere – la vera partita del “dopo di noi”: il resto può essere un utile corollario di discussioni accademiche che non appassionano nessuno, fatte salve nobili eccezioni!
Paro subito una possibile obiezione che l’Autore dell’articolo potrebbe muovermi: «Il compito di entrare nel merito di queste scelte non è (non sarebbe) di un familiare ma di altri Soggetti. Tanto per esser chiari, dei cosiddetti esperti».
Risposta: a parte la non trascurabile circostanza che questi Soggetti dovrebbero spiegarci, una volta per tutte, quale modello educativo globale, valido cioè dall’infanzia all’età adulta e anziana, oggi possiede in sé le caratteristiche di essere pienamente abilitante (e di ciò, vivaddio, fornirci la dimostrazione), mi chiedo: «Perché, allora, dovrei comprendere l’“invasione di campo”, con tanto di condanna, che c’è stata (io non mi spingo a chiamarla atto di cinismo), rispetto agli autistici laureatisi con il supporto della Comunicazione Facilitata?». È o non è, questa, una contraddizione? E pongo la domanda da scettico della Comunicazione Facilitata, consapevole però che il mio scetticismo non possa essere confuso con una presa di distanza a prescindere, tanto più in assenza – come detto – di modelli alternativi “certi”, estendibili a tutti.
I 600.000 o 400.000 o 721.457 (giusto per partecipare alla “fiera dei numeri”…), che sarebbero le persone autistiche nel nostro Paese, costituiscono, a loro volta, un dato palesemente arbitrario. Va infatti ricordato in ogni occasione – e qui non è avvenuto – che se in proposito si brancola nel buio, ciò non avviene per caso, ma è dovuto innanzitutto all’atteggiamento irresponsabile di larga parte della psichiatria italiana, che fa sì che al raggiungimento dei 18 anni di età, i nostri figli perdano letteralmente l’etichetta di “autistici” che li aveva contraddistinti fino a quel momento, per diventare altro. Che cosa? Lo sappiamo bene: insufficienti mentali gravi.
Come si fa allora a dire che gli autistici sono 600.000, 400.000 o 721.457, se non conosciamo il dato riferito agli autistici adulti? Perché non denunciare in tutte le sedi questa aberrante realtà?
E qui mi fermo, anche se confesso che mi piacerebbe far notare a qualche insigne studioso che dietro il recente “exploit” riguardante il numero di pazienti autistici può forse esserci stata una vera e propria inflazione di diagnosi più che un’endemia di autismo! Ma comprendo che non è questa la sede per parlarne.
Accanto alle questioni testé richiamate, confesso poi, ma è un mio limite, che non adoro – pur non essendo “nato ieri” – sentir parlare di autismo in coincidenza con l’uscita di un libro (chissà perché tutto questo mi richiama alla mente i salotti felpati di Fabio Fazio).
Nicoletti è persona talmente intelligente e autorevole, e a lui va tutta la mia ammirazione e stima, che non abbisogna certo di sponsorizzazioni così plateali e – mi perdoni – disturbanti.
Nel suo eccellente blog, un garbato intellettuale come Fabio Brotto (che poco appare sui media, e la cosa non mi dispiace affatto), attento conoscitore di autismo, padre di un adolescente autistico, in uno spazio mediatico che temo essere largamente inferiore alle platee sconfinate e osannanti di altri blog e siti, propone periodicamente alcune recensioni di libri che, grazie a lui, vengono per fortuna opportunamente segnalati.
Difficilmente questi libri si trovano tra gli scaffali delle librerie. Ciò significa che le scelte del pubblico sono palesemente orientate da chi detiene il potere nella grande macchina dell’editoria italiana. In altre parole, come ha scritto qualcuno, quando entriamo in una libreria non ci rendiamo conto che altri hanno già deciso per noi cosa possiamo leggere e cosa no perché, di fatto, non possiamo leggere che quello che troviamo. Non immaginiamo neppure lontanamente quante opere pregevoli, di case editrici piccole, ma niente affatto minori, siano state scartate secondo un sistema massificato che ignora del tutto i contenuti e la qualità.
Alzi la mano, ad esempio, chi ha sentito parlare di Autism as Context Blindness o di Io sono speciale di Peter Vermeulen, per citare due libri che solo grazie a Brotto ho potuto leggere (e che segnalo a mia volta).
C’è da scommettere che da parte degli incalliti convegnisti nostrani ci saranno pochi o nessun invito per chi ha scritto questi libri, così come pochi o nessun invito hanno ricevuto in passato altri Autori altrettanto meritevoli. Prevarranno scontati leitmotiv per tutta la penisola, la corsa all’“Ospite Prestigioso”, perché – lo abbiamo imparato bene – al fascino discreto del trafiletto sul giornale da esporre in bacheca, al nome che fa presa, pochi sono oggi disposti a rinunciare, tanto più in regime di (anticipata) quaresima di consensi e partecipazione.
E per finire: non condivido affatto (questa volta in pieno) il messaggio finale dell’articolo di Nicoletti: «Alla fine qualcosa ci inventeremo». Non lo condivido per due ordini di motivi: Primo: qui non si tratta di fare “qualcosa” per i nostri figli, ma di fare la cosa giusta. Secondo: colgo in queste parole un forte rischio di divisione tra le famiglie, cioè tra quante avranno la possibilità (economica, culturale ecc.), alle soglie del “dopo di noi”, di arginare – quanto meno – la situazione, e tra quante invece ne saranno irrimediabilmente travolte. Insomma, a non voler essere ipocriti, il pericolo è ritrovarci con “autistici di serie A” e “autistici di serie B”.
Per queste “piccole ragioni” ribadisco dunque il convincimento che più che di Uomini e Donne della Provvidenza ci sia tanto bisogno di lavoro comune, olio di gomito, voglia – ripartendo dai tanti errori del passato – di rimettersi in discussione, per costruire un progetto davvero all’altezza della difficile sfida che abbiamo davanti.
Scriveva Vittorio Foa: «Bisogna raccontare il passato per interrogare il presente e il futuro. Non ho nostalgia del passato; ho nostalgia del futuro, di quello che non vedrò e vivrò». Mi sembra un insegnamento da non smarrire!