L’inammissibile morte della piccola Nicole in un’ambulanza diretta a Ragusa, per mancanza di posti letto negli ospedali di Catania, ha suscitato lo sdegno e l’incredulità del presidente della Repubblica Mattarella e con lui di tutti i cittadini italiani, aprendo anche una dolorosa piaga sulla sicurezza dei modelli organizzativi della Sanità italiana, oltreché svelando lo spettro di un fallimento del sistema di tutela della Salute a livello politico, organizzativo e professionale.
Ascoltando in questi giorni le voci dei vari interlocutori coinvolti, sembra che le responsabilità siano sempre degli altri: il presidente della Sicilia Rosario Crocetta ha assolto gli ospedali, accusato i medici e chiesto al Ministro di rivedere le normative nazionali; il ministro Beatrice Lorenzin ha replicato – giustamente – che l’accreditamento delle strutture sanitarie compete esclusivamente all’Amministrazione Regionale; Diego Piazza, presidente dell’ACOI (Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani) è certo che la tragedia sia figlia dei tagli lineari e di carenze del management, mentre Vito Trojano, presidente dell’AOGOI (Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani), conferma che l’accreditamento delle strutture neonatali in Sicilia non è ancora applicato in molte realtà; dal canto suo, l’ANAAO ASSOMED Sicilia (Associazione Medici Dirigenti) fa rilevare che il servizio di trasporto emergenze neonatali nel bacino di Catania, Ragusa e Siracusa non è mai stato attivato. Infine, l’assessore regionale alla Salute Lucia Borsellino, colpita dalle “dure” parole del Ministro, si è limitata a interpretare il più classico dei cliché della politica nostrana, annunciando – senza per ora rassegnarle – le proprie dimissioni.
In occasione di una tragedia di simile portata, oltre a evitare strumentalizzazioni, è indispensabile mettere da parte ogni forma di conflitto di interesse di categoria e, se necessario, uscire anche dalle proprie posizioni istituzionali, per identificare con lucidità le reali criticità di sistema che non si risolveranno affatto quando la Magistratura – ormai unico arbitro della Sanità italiana – avrà identificato le responsabilità che ricadranno, verosimilmente, sugli anelli più deboli della catena.
In sostanza, si continua a ignorare che un determinante fondamentale degli esiti di salute, in particolare nell’emergenza, è rappresentato dai requisiti minimi di accreditamento delle strutture sanitarie, definiti e verificati da ciascuna Regione in assoluta autonomia.
Purtroppo, tale processo di accreditamento non è stato sempre guidato dalla necessità di tutelare al meglio la salute dei cittadini, ma troppo spesso è stato condizionato dall’esigenza di garantire gli interessi degli erogatori.
Pertanto, questo eccesso di autonomia delle Regioni, non governato a livello centrale, ha concretizzato situazioni estremamente pericolose per la salute dei cittadini, da un lato legittimando inaccettabili carenze strutturali, tecnologiche e organizzative delle strutture pubbliche, dall’altro consentendo l’accreditamento di erogatori privati anche in assenza di adeguati requisiti.
Di conseguenza, l’eterogeneità nell’offerta di servizi e prestazioni sanitarie condiziona la salute, la vita e la morte dei cittadini italiani, in particolare nelle Regioni le cui performance, in termini di erogazione di LEA [Livelli Essenziali di Assistenza, N.d.R.] e di equilibrio finanziario, hanno ripetutamente dimostrato che gli episodi di malasanità sono figli legittimi di una cattiva gestione politica.
La tragedia di Catania mette a nudo tutte le contraddizioni istituzionali tra diritto alla tutela della Salute e organizzazione dei servizi sanitari, dimostrando che oggi le responsabilità delle Istituzioni finiscono per diluirsi e svanire nelle pieghe normative. Infatti, per garantire l’uguaglianza dei cittadini, lo Stato dovrebbe allineare a standard nazionali i requisiti minimi di accreditamento di tutte le strutture sanitarie del Paese, ma di fatto non detiene alcuna competenza legislativa perché pianificazione e organizzazione dei servizi sanitari sono state affidate alle Regioni con inaccettabili diseguaglianze tra le stesse.
Non a caso un recente rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha “bacchettato” il nostro Servizio Sanitario Nazionale, denunciando che «le riforme costituzionali del 2001 hanno contribuito a creare 21 Sistemi Sanitari Regionali con differenze notevoli sia per quanto riguarda l’assistenza che gli esiti».
Per cercare di rimediare a questa situazione, il Governo sta lavorando intensamente e proprio nei giorni scorsi [nella notte tra venerdì 13 e sabato 14 febbraio, N.d.R.] la Camera ha approvato il nuovo articolo 117 del titolo V della Costituzione, che separa nettamente le competenze in materia sanitaria tra Stato e Regioni.
Oggi è difficile percepire i potenziali vantaggi di questa riforma per la tutela della Salute degli Italiani, che non sembra decretare “la fine di 21 diversi Servizi Sanitari”, perché con il nuovo articolo 117, lo Stato non potrà comunque esercitare i poteri sostitutivi nei confronti delle Regioni inadempienti nell’attuazione dei LEA, in quanto la legislazione esclusiva riguarda solo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – ma non quelli sanitari (!) – che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Se quindi «garantire la Costituzione significa garantire i diritti dei malati», come ha affermato il presidente della Repubblica Mattarella nel suo discorso di insediamento, come Fondazione GIMBE chiediamo – in occasione di una riforma costituzionale di simile portata – chiediamo, come Fondazione GIMBE, di passare dalle parole ai fatti, assegnando in maniera inequivocabile allo Stato il ruolo di garante per il diritto alla Salute dei cittadini italiani.