Dopo alcune giornate passate alla Convention Scientifica di Telethon [a Riva del Garda, in provincia di Trento, N.d.R.], in un clima “frizzante” e ricco di idee, mi accingevo a tornare a casa, carica e soddisfatta. Quanto mi è accaduto però all’Aeroporto Marconi di Bologna, ha coinciso con due belle “sberle”, riportandomi all’“altra realtà delle cose”.
Arrivo dunque al desk come qualsiasi altro passeggero e mi ritrovo letteralmente “assalita” da una signora che controlla la fila, la quale vedendomi ci fa un cenno, urlando contemporaneamente alla collega al desk: «È arrivato un Charlie!». Charlie è appunto la codifica che si usa per classificare un passeggero con disabilità severa, che ha bisogno di assistenza totale nei vari passaggi. È una codifica interna, però, non certo il mio nome!
Al desk, quindi, le solite domande di rito, dandomi sempre del tu, di fretta e come davvero si stia trattando di “pacchi”.
Dopo di me arriva un’altra famiglia con un ragazzo con disabilità psicofisica abbastanza grave e la signorina di prima esclama nuovamente «un altro Charlie!», questa volta un po’ scocciata. Il ragazzo vicino a me è un po’ agitato e si vede; ai familiari vengono fatte alcune domande in modo abbastanza sgarbato, a lui nemmeno uno sguardo. Con me, infatti, visto che parlo, sono “costretti” a relazionarsi, lui possono davvero e comodamente trattarlo come un “pacco”.
Dopo questo approccio, resto realmente allibita per qualche secondo: possibile che nella civilissima Bologna il personale sia così poco “istruito” a come comportarsi con passeggeri con esigenze speciali? Prima di essere un “charlie” sono un passeggero come gli altri, ho pagato il mio biglietto esattamente come tutti gli altri, non voglio tappeti rossi, ma un trattamento da essere umano sì.
Seconda parte. Ci portano oltre la security, con un solo addetto che ci segue più o meno tutti e quindi in una specie di “recinto” nel bel mezzo dell’aeroporto. No, non una “sala amica”, non c’è infatti né una porta, né un bagno, né uno spazio per i bagagli, niente di tutto ciò, ci sono due-tre seggiolini e il nastro per “recintarci”. Ci viene detto di aspettare li, i passeggeri passano, qualcuno si ferma a guardare lo strano “accampamento”, il ragazzo vicino a me è “parcheggiato” li, ancora un po’ agitato, e ovviamente chi passa non può fare a meno di notarlo. Non credo gli faccia piacere, ma del resto lui non parla…
Dopo un po’ che siamo lì, arriva un addetto e anche alla luce del caos creato dagli altri passeggeri, inizia a urlare «Bariii», riferendosi a noi, credo. Urlo anch’io («sì, siamo noi”), cosicché prende le mie carte d’imbarco e le strappa. «Così facciamo prima», parole sue.
Pochi minuti dopo un altro collega arriva e urla «Cataniaaa»: questa volta è il turno del ragazzo vicino a me e anche con lui stessa storia delle carte d’imbarco. Qualcun altro passa e chiede di nuovo «BARI», «CATANIA», sempre con aria scocciata.
Arriva finalmente il momento di salire sull’aereo. Per Bari siamo io e un’altra signora, due addetti ci portano sull’Ambulift, poi se ne vanno e restiamo soli insieme al ragazzo che lo guida, il quale è un tecnico e non un addetto all’assistenza. La signora che viaggia con me è preoccupata, perché di solito c’è sempre il personale dell’assistenza che ti aiuta a portare i bagagli in cabina, a salire in aereo, lì a Bologna, invece, nulla.
Mia madre fa due, tre viaggi per portar dentro i bagagli, ma la signora ha bisogno di aiuto e così bisogna chiamare l’assistenza, che con calma arriva e la aiuta.
Io viaggio spesso, almeno una volta al mese, e conosco vari aeroporti da Bari a Palermo, passando per Bergamo, Genova ecc. Tutti hanno dei problemi, ma almeno lì ti trattano come un essere umano, hai un posto dove stare ad aspettare il tuo volo, hai l’assistenza giusta e qualche volta anche un sorriso. Per Bologna è chiedere troppo?
Un paio di mesi fa, dopo la tragica vicenda di Parigi, eravamo tutti “Charlie”. A quanto pare, però, io e tanti altri passeggeri con disabilità resteremo “Charlie a vita”, senza possibilità di scelta. O forse no? Spero di potermi ricredere presto.
Solo due parole, anche da parte del nostro giornale, rivolte agli addetti dello scalo bolognese di cui parla Anita Pallara. Anzi, una domanda semplice, semplice: non sarebbe il caso di vergognarsi un po’ e quanto meno di scusarsi?