Ancora una volta la raccolta di firme di Parlamentari per calendarizzare la Proposta di Legge sul fine vita mette sotto i riflettori un aspetto parziale di un problema molto più complesso e generale. Si prende cioè un solo aspetto – quello terminale della vita – per dire che è prioritario pensare a “morire bene”, mentre per il “vivere meglio” c’è sempre tempo. Tanto stiamo tutti bene e la malattia è qualcosa che non ci appartiene. Né a noi, né al nostro modello sociale, che non rispetta il diritto di cura per tutti, che in prima battuta taglia sempre sulla disabilità e sull’assistenza. Salvo avere poi quel “fastidio” di ammalati, familiari e associazioni che protestano e arrivano fino a lambire Palazzo Chigi. Allora si discute, c è un tira e molla e tra “secchiate d’acqua” per la SLA [sclerosi laterale amiotrofica, N.d.R.] e adesioni formali, qualcosa si rimedia, mentre di Disegni di Legge sulla tutela dei diritti e sull’illegalità degli assistenti di cura (caregiver) familiari, costretti ad assistere una persona gravemente disabile a discapito della propria libertà, non se ne parla.
I politici dovrebbero affrontare seriamente il problema, per ripensare un modello sociale capace di rispettare le persone, specialmente quando convivono con la malattia o quando hanno gravissime disabilita, come quelle legate a uno stato vegetativo o a malattie degenerative.
L’Italia ha ratificato sin dal 2009 [Legge 18/09, N.d.R.] la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, abbiamo organi consultivi come l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità – di cui anche chi scrive fa parte – c’è un Programma d’Azione già strutturato, ci sono tavoli di lavoro presso il Ministero della Salute, ci sarebbero insomma tutti gli strumenti per agire, per sostenere e tutelare i diritti dati dalla stessa Costituzione. Ma anche tutto questo dovrebbe essere prioritario. Perché riguarda migliaia di cittadini che chiedono disperatamente di essere aiutati, di essere ripagati del contributo che danno alla vita della comunità, anche se la loro condizione è fragile e a volte estremamente compromessa.
Dobbiamo ripensare. Ripensare un modello sociale, ripensare città a misura di persone nella loro diversità e formare cittadini che sappiano essere accoglienti in tutte le loro professioni.
Ripensare senza ricorrere all’“eutanasia della mente” ed essere di nuovo capaci di un “pensiero attivo”, anche politico, di ampio respiro. Una politica che aiuti veramente le persone, che sia democratica, senza essere tacciata di strabismo, per guardare alla vita nella sua completezza. Che vuol dire anche morte. Ed è giusto che chi vuol “morire bene” si faccia avanti. Ne ha pienamente diritto. Ma in un mondo di pari, con eguali diritti.