Tra le varie proposte di Didamatica 2015 – evento organizzato recentemente a Genova dall’AICA (Associazione Italiana del Calcolo Automatico) e importante riferimento per tutti coloro che, nei vari contesti di apprendimento, dalla scuola all’università, fino alla formazione aziendale, si occupano di applicazioni didattiche realizzate con l’ausilio del computer – vi è stato spazio anche per alcune questioni riguardanti le persone con disabilità.
Dell’incontro seminariale intitolato Competenze digitali per l’accessibilità ci siamo già occupati in altra parte del giornale. Qui, come avevamo già anticipato, ci dedichiamo all’interessante intervento intitolato Abilitazione informatica di adolescenti con deficit visivo e autismo mediante training psicoeducativo tifloinformatico, presentato a Genova dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Luisa Gargiulo, insieme all’operatore tifloinformatico Maurizio Gabelli, che hanno raccontato un’esperienza “pionieristica” di abilitazione informatica rivolta a ragazzi non vedenti dalla nascita, con disturbi dello spettro autistico ad alto funzionamento, svolta nel triennio 2012-2014 e tuttora in corso. Ne abbiamo parlato con gli stessi Gargiulo e Gabelli.
Quali sono il quadro di riferimento e le caratteristiche di questa vostra esperienza?
Gargiulo: «Attualmente la maggioranza dei bambini con deficit visivo, nei Paesi sviluppati, presenta situazioni molto complesse, in quanto è sempre più frequente riscontrare tale deficit associato ad altri, quali disturbi dello sviluppo, ritardo mentale, limitazioni motorie e paralisi cerebrali infantili. Tra questi, l’associazione fra la cecità dalla nascita e l’autismo occupa un posto prevalente e tuttavia, nonostante ciò, nella tifloinformatica – la disciplina che si occupa dell’insegnamento ai non vedenti delle tecnologie assistive – si fa quasi sempre riferimento a un’utenza caratterizzata dal deficit visivo isolato (cecità o ipovisione), mentre pochissima attenzione metodologica, teorica e applicativa viene riservata alla didattica tifloinformatica rivolta a persone con diverse problematiche associate».
Gabelli: «Questo lavoro, che secondo noi risulta l’unica testimonianza in Italia in questo settore, concerne una metodologia modificata e specifica per l’insegnamento tifloinformatico a bambini e ragazzi con deficit visivo e con severi disturbi dello spettro autistico».
Ma come si manifestano i disturbi dello spettro autistico in bambini con deficit visivo?
Gargiulo: «È noto come la cecità primaria possa favorire un ritardo dello sviluppo psicomotorio, determinato dalla carenza di stimoli sociali e ambientali. Questa anomalia transitoria non conduce, però, a deficit permanenti del funzionamento o a disturbi stabili dello sviluppo, specie quando la deprivazione sensoriale viene adeguatamente compensata sotto il profilo percettivo, esperienziale ed educativo. Esiste invece una storia di sviluppo specifica determinata dall’associazione tra il deficit visivo primario e un disturbo dello spettro autistico, condizione nella quale la persona presenta deficit a carico dell’interazione sociale, della comunicazione e del repertorio delle attività, soddisfacendo a pieno i criteri definiti dal Manuale DSM-5 [con DSM-5 si intende la quinta edizione del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, ovvero la più recente versione del Manuale Diagnostico e Statistico dell’APA, l’Associazione Americana degli Psicologi e Psichiatri, N.d.R.]. Vi può essere o meno un deficit delle funzioni cognitive di base, oppure nessun ritardo mentale, vi possono essere comportamenti ossessivi, difficoltà nella comprensione degli aspetti pragmatici della comunicazione, stereotipie motorie (specie a carico delle mani) e deficit del pensiero immaginativo.
In letteratura, l’associazione tra questi due disturbi è detta ASVI, che è l’acronimo di Autism Spectrum and Visual Impairment (“Spettro autistico e disabilità visiva”)».
Quali vantaggi possono arrivare dall’uso di ausili tifloinformatici?
Gargiulo: «La tecnologia ha consentito ai disabili visiva di accedere e scambiare molte informazioni con le persone, affrancandosi dalla segregazione informativa e culturale dettata dalla necessità di trascrizione in Braille cartaceo o in registrazione audio dei contenuti, processi per loro natura altamente costosi e di difficile diffusione.
Per quanto poi riguarda il funzionamento della persona autistica in assenza di informazioni visive, esso comporta peculiari difficoltà che devono essere seriamente valutate prima dell’inizio dell’intervento, nonché considerate continuamente durante le sessioni di apprendimento. La metodologia operativa è stata pertanto radicalmente modificata, rispetto a quella utilizzata nell’insegnamento a persone con disabilità visiva senza disturbo autistico.
In sostanza, le persone con ASVI incontrano spesso serie difficoltà nell’acquisizione e nella gestione delle informazioni, a causa di noti fenomeni di dispercezione tattile che rallentano la lettura e la comprensione del Braille cartaceo. Inoltre, la lettura uditiva viene ostacolata dalla confusione e dall’affaticamento emotivo-relazionale nell’interagire con le persone che leggono. Ciò perché i lettori umani non possono essere sempre coerenti e proceduralmente uguali a se stessi, così come invece può fare un software dedicato.
In molti casi, dunque, l’utilizzo di queste tecnologie rappresenta un’opportunità preziosa, per consentire alla persona di scrivere, leggere in modo autonomo e interagire con il testo secondo le proprie possibilità e ciò è molto importante, specie quando il disturbo dello spettro autistico non è associato a un ritardo mentale che impedisca il perseguimento di interessi e apprendimenti. Infatti, alla severità del disturbo può non associarsi un deficit cognitivo grave, condizione, questa, che consente uno sviluppo di talenti e capacità altrimenti sprecati».
Più dettagliatamente, quali sono la metodologia e il campo di applicazione del vostro lavoro?
Gabelli: «La tecnologia sta radicalmente cambiando la vita delle persone, della società e delle dinamiche comunicative. Conseguentemente, stanno modificandosi anche gli approcci metodologici di quanti si occupano di educazione, riabilitazione e assistenza delle persone con disabilità. I moderni ausili utilizzati dalle persone autistiche, ad esempio, sono inutilizzabili da chi presenta un deficit visivo, in quanto prevedono come canale di interazione privilegiato quello della vista. D’altra parte, le tecnologie assistive per persone non vedenti e ipovedenti sono pensate per un’utenza di persone “neurotipiche”, dotate cioè di competenze come flessibilità cognitiva, capacità di generalizzazione e di selezione degli stimoli, difficilmente riscontrabili nel funzionamento delle persone autistiche. Ad oggi, in realtà, non esiste un ausilio specifico e l’intero setting operativo va costruito secondo rigorose premesse metodologiche, basate sulle peculiari caratteristiche delle persone cieche con disturbo dello spettro autistico.
Solitamente, le persone cieche e ipovedenti apprendono l’utilizzo del personal computer e dei dispositivi mobili attraverso un’alfabetizzazione tifloinformatica di base, tramite un software screen reader, che cioè elabora e sintetizza il contenuto dello schermo, inviandolo a un altro software, la sintesi vocale, che pronuncia il messaggio. Nei casi però di disabilità visiva correlata a un disturbo autistico, si aggiunge un ulteriore elemento di complessità, ovvero la comparsa di situazioni mutevoli e imprevedibili, come la gestione delle numerose finestre del sistema operativo e dell’alto grado di verbosità della sintesi vocale. Un aspetto di fondamentale importanza riguarda quindi la parametrizzazione del dizionario dello screen reader, del grado di prolissità della sintesi vocale e l’organizzazione logica degli ambienti di lavoro».
Quale competenze e quali modalità interdisciplinari di cooperazione sono state necessarie per questa esperienza “pionieristica”?
Gabelli e Gargiulo: «Dalla nostra esperienza è emersa l’importanza di un’interazione serrata e continua tra differenti professionalità specifiche, sia per la progettazione che per la conduzione di questo intervento. Innanzitutto competenze psicologiche nel settore del deficit visivo e dei disturbi dello spettro autistico associati, per definire obiettivi e metodologia in relazione alle caratteristiche funzionali degli utenti. Ulteriori competenze psicologiche settoriali sono state poi necessarie per valutare i contenuti e la forma delle sessioni didattiche, nonché per l’analisi funzionale dei comportamenti-problema. E ancora, competenze informatiche approfondite, relative al funzionamento, all’insegnamento e all’uso delle tecnologie assistive, ma anche alla loro modificazione e personalizzazione.
In questo àmbito è stato determinante saper valutare le diverse soluzioni possibili, in relazione a una rigorosa task analysis [letteralmente “analisi del compito”, N.d.R.]. Il valore di questa attività, infatti, risiede nella sua ricaduta sulla qualità della vita delle persone interessate ed è pertanto indispensabile una contiguità con gli operatori educativi coinvolti nel processo di inclusione: l’operatore di sostegno, da una parte, e, più ancora, l’assistente alla comunicazione tiflodidattica, che è necessario coinvolgere per generalizzare e stabilizzare le competenze apprese, inserendo tali abilità nella vita quotidiana».
Per ulteriori informazioni e approfondimenti: info@marialuisagargiulo.it.