Un tiepido sole tenta di asciugare questa umida e caldissima mattina tropicale. Il vento si sente appena, il mare è piatto, lontano echeggia il rumore delle onde che si frangono sulla barriera corallina.
Il motore della barca si ferma, l’istruttore annuncia ai subacquei presenti che possono iniziare a prepararsi. Lo fa in un inglese appena comprensibile. D’altra parte la sua lingua madre è il visayano, una delle due lingue che si parla qui a Panglao, nella parte sudoccidentale dell’Arcipelago delle Visayas, nelle Filippine.
Il mio compagno di immersione mi porge il braccio, mi aiuta a superare borse, ciabatte e attrezzature degli altri turisti, sparse sul fondo della barca, mi accompagna verso la fiancata di fronte e sulla panca trovo la muta, i calzari e il resto dell’attrezzatura che dovrò indossare, fino ai guanti con le dita tagliate, per poter toccare…
Quante volte ho compiuto queste procedure, oggi sono… quante sono?… esattamente mille! La memoria delle azioni si impossessa di me e mi guida i gesti ormai quasi automatici. Sono azioni familiari, ma nonostante questo c’è sempre un po’ di tensione: il mare fa sul serio e bisogna portargli rispetto! Infatti, nonostante io mi diverta sempre moltissimo, lì sotto non si scherza.
Vestita di tutto punto, cappuccio compreso, sfidando l’afa di quasi mezzogiorno, camminiamo lungo lo stretto corridoio della fiancata destra della barca, fino a raggiungere la zona della piattaforma dalla quale si scende. Dobbiamo aspettare il nostro turno; ci sono quattro subacquei australiani che si stanno per tuffare. Seduta con GAV [giubbotto ad assetto variabile, N.d.R.] e bombola addosso, la mente si perde in mille ricordi e associazioni libere, occupando lo spazio e il tempo che mi separa dalla mia discesa.
Penso alla prima volta in cui sul bordo di una piscina di Roma, con il cuore accelerato dalla paura, stavo per fare la mia prima lezione del primo corso di subacquea. Sono passati tanti anni, quasi venti…
Da allora tante immersioni tutte diverse, tante persone, ambienti, situazioni, aneddoti e avventure. Spesso le immersioni dalle grandi barche iniziano con un’entrata in acqua come questa, in verticale da una piattaforma. Altre volte ho iniziato con la semicapovolta, lasciandomi scivolare all’indietro, seduta sul bordo di un gommone, altre volte semplicemente arrancando da riva con le pinne in una mano e l’attrezzatura pesante trascinata con l’altra.
Una volta a Dahab, nel Sinai, l’entrata in acqua fu così lunga e faticosa per i grandi massi da superare, che durò senz’altro più dell’immersione stessa, un’entrata faticosa anche a causa di quella risacca fastidiosa che ci fece perdere spesso l’equilibrio.
Ricordo che Barbara, la mia guida sub di quel viaggio, nonostante la sua corporatura esile, riuscì ad aiutarmi, evitando più di una volta che io cadessi con tutta la mia pesante attrezzatura, su quei massi, con quelle onde.
Per un subacqueo con disabilità la guida è importante, fa parte dell’immersione in modo preponderante, perché contribuisce a determinarne senz’altro la qualità, la gradevolezza e anche la sicurezza
Credo di avere avuto più di quaranta guide nella mia carriera subacquea, di tutte le nazionalità e culture. Ho imparato molto da loro, negli incontri di poche ore, come nelle amicizie profonde.
Sento lo scroscio d’acqua del terzo subacqueo australiano che si sta tuffando, poi mi lascio andare nuovamente ai ricordi. Rido da sola, perché mi è venuta in mente l’entrata in acqua del primo giorno di immersioni a Santo Domingo, la più grottesca che mi sia capitata.
Eravamo tre subacquei, di cui una guida, in una barchetta di resina che non poteva essere più lunga di 3 metri, zeppa sino all’inverosimile. Fortunatamente eravamo già con l’attrezzatura completamente indossata. La guida ci avvertì che il punto di immersione era un po’ lontano, il mare mosso e che dovevamo ancora navigare, con quella specie di motore scoppiettante.
A un certo momento sentii il fondo della barca riempirsi pian piano d’acqua, prima i piedi, poi le gambe, poi fino al sedere. Con lo spirito che solo un uomo dei Caraibi può avere, la guida sentenziò: «Cambio de sitio! Vamos a bacho pronto!», che si potrebbe liberamente tradurre con “Si cambia punto d’immersione! Scendiamo adesso, visto che ci troviamo!”.
Ripensandoci, non potevamo far altro che quello. Sentii la barca distaccarsi dal mio sedere, iniziare lentamente a scendere sotto di me. Forse adesso è diventata un relitto moderno per turisti…
La mia immersione iniziò proprio così, passando direttamente dal sedile della barca al mare!
Il mio compagno mi riporta alla realtà, avvisandomi che tra poco tocca a noi. Uno dei ragazzi dell’equipaggio si avvicina prontamente e mi aiuta ad indossare le pinne, con le quali dovrò camminare, attrezzatura pesante addosso, per i pochi metri che mi separano dalla piattaforma.
È tutto molto spontaneo e naturale. Non c’è bisogno che io chieda aiuto. Di solito gli asiatici hanno una predisposizione innata all’accoglienza delle persone, considerando quasi sacro il turista, forse approssimandolo a un ospite. Quindi, secondo me, la relazione tra loro e le persone con disabilità è facilitata da una cultura che riserva molta attenzione al prendersi cura, alla gentilezza e al desiderio profondo di conoscenza e reciproco scambio.
Apprezzo molto la serenità con cui le persone del Sud-Est asiatico si relazionano a me, che quasi sempre sono l’unica persona non vedente che abbiano conosciuto. Eppure, sia nelle popolazioni di mare che in quelle delle città, ho notato una straordinaria capacità di accogliere e accettare la diversità, la limitazione fisica, anche quando comporta necessità speciali. Niente ansia, né iperprotezione da imbarazzo.
Penso che queste persone siano talmente abituate a considerare il corpo come imperfetto, la salute come temporanea, che per loro incontrare una persona con disabilità non sia nulla di diverso rispetto al contatto quotidiano con la precarietà delle loro vite, gli esiti delle malattie dei loro familiari, gli incidenti da lavoro così frequenti in questi luoghi dove la sicurezza è un’approssimazione.
Ricordo ancora una donna papuasa, all’aeroporto di Port Moresby, accostare il mio zaino alla mia gamba, mentre ero seduta in attesa del volo. Aveva notato che l’addetto all’assistenza dei passeggeri con disabilità si era allontanato da me per pagare la tassa d’imbarco, e che io, essendo rimasta in quel momento sola, stavo toccando lì attorno, per cercare la mia borsa.
Nessuna lingua avevamo in comune, tanto meno quella dei gesti e degli sguardi. Però l’empatia e la capacità di intuire le mie esigenze la guidò, facendole compiere un gesto pulito, essenziale, efficace. Le sorrisi per ringraziarla, mi sentii accarezzare lievemente una spalla come risposta.
Per questa naturale affinità, per la natura e per la cultura, vengo spesso nell’Indopacifico, conosco abbastanza l’Indonesia, la Malesia, le Filippine, le Isole Maldive, la Micronesia, la Nuova Guinea.
Come persona con disabilità, una sensazione del tutto diversa l’ho avuta battendo dolorosamente la faccia contro la cosiddetta “doppia discriminazione”, ad esempio avendo a che fare con dei funzionari e addetti all’assistenza all’aeroporto egiziano del Cairo: donna, e persino disabile!
Le procedure di assistenza bloccate a singhiozzo da distrazioni, inframmezzate da risolini e disattenzioni forse non del tutto casuali. Magari mi sbaglio, ma nella mia immaginazione quelle persone pensavano: «Una donna che viaggia da sola, vale talmente poco, visto che non ha neanche un uomo qui a proteggerla e custodirla! Una persona con disabilità che non sta nascosta a casa. Parla pure inglese, e protesta come se avesse pure dei diritti!»…
Nonostante certi inconvenienti, apprezzo molto la cultura araba, le immersioni nel Mar Rosso, le tende dei beduini, i tiepidi tramonti sorbendo il carcadè, gli abiti locali che, svolazzando al vento, accarezzano il corpo così sensualmente.
Quanto dev’essere dura la vita per le donne con disabilità in certe culture! Penso che sono fortunata ad essere nata in quest’epoca, in questa parte del mondo.
Ritorno alla realtà. Il mio compagno – in questo caso anche la mia guida subacquea – si prepara a scendere in acqua prima di me. È così che funziona.
Esistono specifici segni tattili per comunicare sott’acqua, attrezzature per la comunicazione vocale, computer parlanti, gesti e procedure di sicurezza specifiche e dettagliate. Se la subacquea è una cosa seria per tutti, lo è maggiormente per le persone con disabilità. Non siamo “pacchi da trasportare”, ma subacquei con le nostre responsabilità, nei riguardi dell’ambiente, degli scopi specifici dell’immersione, delle altre persone che scendono giù con noi.
Il filippino dell’equipaggio mi aiuta a raggiungere il bordo della piattaforma, metto la mano sulla maschera, l’altra sulla cintura, faccio un passo avanti nel vuoto, mi lascio cadere in acqua.
Ora siamo in mare. Il mio compagno si avvicina a me, mi fa il gesto per chiedermi se va tutto bene, gli rispondo di sì allo stesso modo. Ci apprestiamo a scendere.
Uno strano silenzio aveva accompagnato sin dall’inizio quella mattinata. Il responsabile delle immersioni del diving (il capogruppo) mi aveva rivolto solo poche parole. Così anche gli altri dive master (guide subacquee per turisti) e il mio compagno. Che succede? Scendiamo giù. Ecco che succede: inizia una fantastica festa a sorpresa subacquea!
Avevano preparato anche dei cartelloni di plastica, per fare le fotografie insieme. Molti turisti presenti nel gruppo hanno voluto festeggiare con me. Abbracci, un piccolo carosello, strette di mano e tante foto assieme.
Tutto attorno la barriera corallina è splendida come al solito. Un degno scenario per questa festa semplice, allegra e da me molto apprezzata.
Mille immersioni sono già moltissime per un turista subacqueo normodotato. Sono invece certamente poche per gli istruttori e per gli altri professionisti, ma sono un’enormità per un subacqueo con disabilità. Sicuramente in Italia sono la persona non vedente attualmente in attività con il maggior numero di immersioni certificate.
Non ho voluto fare di questa passione una specie di lavoro. Qualche volta mi è stato chiesto di svolgere dei corsi di formazione per insegnare agli istruttori e alle guide la subacquea per i non vedenti e per i disabili psichici. L’ho fatto volentieri, ma senza esagerare.
Ormai tantissimi anni fa, insieme a Giulio Nardone [presidente dell’ADV-Associazione Disabili Visivi, N.d.R.], abbiamo scritto un libro che, sebbene oramai molto datato, rimane pur sempre un manuale importante, tanto che è stato tradotto e pubblicato anche in altre lingue [Giulio Nardone, Maria Luisa Gargiulo, “Sott’acqua con un cieco”, Roma, CSSI-Cooperativa Sociale Servizi Integrati, 1999, N.d.R.].
Come psicologa, poi, mi sono voluta togliere lo sfizio di approfondire gli “aspetti psicologici e psicodinamici dell’immersione subacquea”, scrivendo un altro libro con altri tre colleghi (Gaetano Venza, Salvatore Capodieci e Girolamo Lo Verso) [“Psicologia e psicodinamica dell’immersione subacquea”, Milano, Franco Angeli, 2006, N.d.R.].
A un certo punto tutto questo stava per prendere una pericolosa deriva professionale. Ma nonostante le varie piacevoli eccezioni, ho sempre voluto riservare alla subacquea la parte ludica ed esperienziale della mia vita. Sarebbe stato tanto facile cedere ai tentativi di spettacolarizzare il tutto, specie negli anni in cui queste cose erano davvero una novità. Confesso, ad esempio, di avere rifiutato anche qualche intervista televisiva , malgrado si trattasse di trasmissioni importanti su reti nazionali, quando mi sono accorta che lo stile dell’intervistatore sarebbe stato improntato al sensazionalismo.
Non mi pento di queste scelte, perché conservo ancora il piacere genuino di fare questa attività semplicemente come una cosa bella per me.
Al giorno d’oggi, nell’epoca della “caccia alle streghe dei falsi ciechi”, mi sono risparmiata lo stigma della “falsa invalida”, del sospetto, perché faccio fotografie subacquee. Qualcuna è andata pure in giro per mostre e gare, dato che non era malaccio, ma ovviamente nel più completo incognito sullo stato di salute del fotografo. Sarebbe stato un gustosissimo boccone per stupire il mondo con effetti speciali, oppure per tirarsi addosso uno sciame di diffidenza o, peggio ancora, di pruriginose curiosità. Ho protetto la mia passione da tutto questo e ne sono felice.
Dunque questa è una giornata speciale, di una subacquea normale, molto contenta di ciò che il mare e le persone attorno ad esso le hanno regalato. Grazie vita!