Diamo un segno. Per una storia della sordità di Donata Chiricò (Carocci Editore, 2014) è un libro da leggere attentamente, un libro che finalmente dice la verità sul perché della “riscoperta” del linguaggio mimico gestuale, al di là di sotterfugi linguistici e di forzature “ecumeniche”: il linguaggio mimico gestuale – ora LIS – è stato rivalutato non tanto dall’inesistente attuale necessità dei sordi, che possono imparare a parlare “naturalmente”, quanto a supporto delle teorie neuropsicologiche e psicolinguistiche che hanno, ovviamente, enormi ricadute sull’abilitazione/educazione, sulla linguistica, sull’antropologia e la sociologia. Oggi queste teorie sono dominanti nella “bibliografia scientifica impattata”, ma a mio avviso non trovano riscontro nella “vera” bibliografia impattata, quella cioè di tanti giovani che vivono serenamente insieme a tutti, utilizzando la lingua di tutti.
Per dimostrare una teoria non si può negare la realtà e ritengo che sia la scienza a doversi adattare alla natura, non viceversa!
Alcune considerazioni. Il paese dei sordi: «Eh sì, perché alla maggior parte dei sordi che sono nati e che nascono in questo mondo è stato imposto di riconoscere come unica la lingua del paese degli udenti mentre è stato loro impedito, fortemente sconsigliato, di imparare e utilizzare quella del paese in cui debbono e/o vogliono vivere: il paese dei sordi» (Chiricò, pagina 15).
Chiaro, chiarissimo! Un piccolo errore, però: c’è scritto sordi con la “s” minuscola! Ma dov’è questo paese? Dov’è questo popolo? Quanti sono i sordi? Quanti sordi sono figli di sordi? La sordità è ereditaria? È dominante o recessiva? Quanti sono i sordi segnanti nativi? Forse sarebbe utile rispondere a queste domande, per avvalorare l’esistenza o la possibile esistenza e sopravvivenza di un paese dei Sordi.
Gli abitanti del paese dei Sordi non parlano: «Chiedere ai sordi di non segnare, progettare percorsi pseudo pedagogici che prevedano esclusivamente l’apprendimento della pronuncia di suoni e singole parole, è come imporre a qualcuno di respirare a fasi alterne… Ma che c’è di male a imparare a parlare? , ovviamente nulla, se non fosse che i sordi non possono parlare in quanto privi di udito» (Chiricò, pagina 17).
Certo, con la «pronuncia di suoni e di singole parole» nessun sordo ha imparato e imparerà a parlare, ma oggi non è più questa la sequenza abilitativa e oggi i sordi profondi parlano! La nostra “bibliografia umana” è a disposizione ed è possibile consultarla e rendersi conto che anche il sordo profondo può imparare “naturalmente” la lingua orale in una situazione di benessere psicofisico. La lingua non può essere imparata, se non naturalmente. Con l’articolazione e la lettura labiale nessuno ha mai imparato a parlare. I sordi non apprendono la lingua “forzandoli” a vivere il mondo dei suoni, ma “vivendo” nel mondo dei suoni che, con la protesi e/o l’impianto cocleare, possono “sentire” e parzialmente udire.
Si sostiene che la lingua è innata e determinata geneticamente e quindi si acquisisce, ma i sordi non parlavano e allora? E allora la lingua dei segni è stata strumentalizzata per supportare la seguente teoria: i sordi non acquisiscono la lingua orale, ma quella dei segni, la lingua dei segni, dunque, non può non essere una lingua!
Invece i sordi anche profondi, senza turbe cognitive associate, raggiungono un’adeguata competenza linguistica. Certo, ci sono ancora tanti che non la raggiungono, ma non perché non ne abbiano la possibilità, bensì perché mancano servizi adeguati. Ce ne sono tantissimi in Italia che hanno dimostrato questa possibilità e che vivono serenamente insieme a tutti con la lingua di tutti. Non si può negare l’evidenza e sarebbe utile, doveroso, per gli scienziati, verificare, poiché se è vero, le certezze teoriche dovrebbero essere mese in discussione.
Forse il sordo profondo che raggiunge la competenza linguistica potrebbe fornire agli scienziati informazioni, certamente non definitive, ma utili, circa l’ossessionante ricerca dell’origine della lingua e della mente.
Automi parlanti: «Eppure, in nome di un mal riposto senso dell’integrazione, ancora oggi continuiamo a pretendere dai sordi che essi non siano muti, che essi siano come noi, che siano come noi vorremmo che fossero e come li abbiamo convinti che essi debbano essere: degli automi parlanti. Continuiamo, cioè, a pretendere che essi si sottopongano a una rieducazione solo orale, che essi passino anni in uno studio logopedico a produrre suoni che mai daranno vita ad una lingua» (Chiricò, pagina 18).
Sono stato per oltre dieci anni insegnante presso l’Istituto Gualandi di Bologna e li ricordo bene gli “automi parlanti”: i sordi profondi che senza protesi mai sono riusciti a raggiungere la competenza linguistica orale, nemmeno con l’aiuto della LIS, che tutti condannavamo, ma che tutti utilizzavamo per insegnare a parlare. Quelli sì, purtroppo, erano “automi parlanti”, perché con l’articolazione e con l’insegnamento di vocaboli non raggiungevano mai la competenza linguistica, ma solo un’adeguata e utilissima competenza verbale. Senza l’utilizzo della protesi, i sordi profondi – allora come adesso – non parlavano e non parlano; se lo facevano o lo fanno, o non sono sordi profondi o sono diventati tali dopo l’apprendimento della lingua.
Sono stato per oltre dieci anni con i sordi a tempo pieno nel gioco, a scuola, nel tempo libero, insomma, un udente “nel paese dei sordi”, e credo di conoscere le potenzialità della LIS! Perché sono state fatte tantissime ricerche su tutti gli aspetti della LIS, ma mai una ricerca seria sulle potenzialità della LIS?
Charles-Michel de l’Épée* faceva quello che facevano tutti senza dirlo. Nessun sordo profondo nato sordo prima dell’avvento delle protesi è riuscito ad avere competenza linguistica e tutti, tutti, utilizzavano (tutti utilizzavamo) il linguaggio mimico gestuale, che allora si chiamava così per insegnare fonemi, vocaboli e frasi orali.
Ma de l’Épée aveva capito perfettamente i limiti del linguaggio mimico gestuale e come tutti coloro che i sordi li hanno conosciuto nella vita e non sui libri, sosteneva che l’unico mezzo di restituire il sordo alla società fosse quello di «insegnargli a leggere con gli occhi e ad esprimersi con la viva parola», certo utilizzando il gesto e poi il segno, poiché allora non era possibile fare diversamente.
Oggi tutto è cambiato, anche se il professor Enrico Dolza, nella Postfazione del libro di Chiricò sembra non essersene accorto, quando scrive che «gli argomenti del dibattito settecentesco sono immutati. Fossilizzati» (Chiricò, pagina 101), mentre il compianto professor Renato Pigliacampo [docente all’Università di Macerata, oltreché saggista e poeta e “firma” spesso presente anche in «Superando.it», scomparso il 29 giugno scorso, N.d.R.], nella Prefazione aveva perfettamente capito che l’unico tentativo per la sopravvivenza della LIS sono le “classi speciali”. «Non c’è una scuola specializzata residenziale – aveva scritto infatti -, bensì la coercizione del bambino disabile a divenire “normale”, a imitare il coetaneo senza problemi fisici o sensoriali» (Chiricò, pagina 11).
Diamo un segno è un bel libro. L’Autrice, finalmente, ha detto la verità, non si è “nascosta” dietro frasi fatte e/o luoghi comuni, ha detto chiaramente che esiste la minoranza sorda, il popolo sordo con una propria identità, una propria cultura e una propria lingua madre che deve essere riconosciuta. Io sono assolutamente di parere opposto, ma possiamo confrontarci partendo da posizioni diverse, ma chiare. Da una parte Diamo un segno, ovvero “la sordità e uno status”, dall’altra sordo o Sordo? del sottoscritto (FrancoAngeli Editore, seconda edizione, 2013), ovvero “la sordità è un deficit”.
Ma chi sono i “carnefici” e chi sono i “pionieri”? Sembrano parole esagerate, ma rappresentano bene due situazioni assolutamente inconciliabili e che vanno oltre, molto oltre la sordità.
Sicuramente io sono un “carnefice”, ma credo di essere in buona compagnia. Don Lorenzo Milani scriveva che «è solo la lingua, la lingua di tutti, che ci fa eguali» e solo la conoscenza della lingua, la lingua di tutti che consente di partecipare e di rappresentare e far valere i propri diritti senza interpreti. O no?
*Charles-Michel de l’Épée (1712-1789) fu un presbitero ed educatore francese, precursore, al suo tempo, dell’istruzione dei sordomuti e fondatore di un metodo che utilizzava vari segni convenzionali.