Ho 33 anni, e sono affetta da una malattia genetica ad oggi non diagnosticata, una patologia simile a un’atrofia muscolare spinale. Pertanto, è da quando avevo 16 anni che uso una sedia a rotelle. La malattia ha carattere degenerativo, cosicché dal 2008 non sono più autosufficiente e ho bisogno di assistenza continua, per andare in bagno, lavarmi, vestirmi, cucinare i pasti, tenere pulita la casa ecc.
Dal 2011 vivo con una badante – regolarmente assunta – e sempre dal 2011 vivo da sola, in un appartamento distinto dalla casa dei miei genitori. Questa mia vita indipendente mi è stata resa possibile grazie al fatto che dal settembre del 2009 lavoro presso la Filiale di Brescia della Banca d’Italia, e anche e soprattutto grazie alle diverse persone che hanno scelto di farmi da assistente. Da due anni, ad esempio, lavora per me, e vive con me, Samantha Villaschi, ad oggi la badante che ha resistito di più, una persona eccezionale e colgo l’occasione per ringraziarla.
Vorrei condividere con quante più persone possibili alcune riflessioni successive a un recente viaggio in Israele e Palestina, che ho affrontato con mio padre e con una delle mie assistenti personali.
Papà, Nadia ed io siamo stati in Terrasanta dall’1 al 10 ottobre. Siamo partiti quando già si erano verificati i primi tafferugli sulla Spianata delle Moschee. Ciò nonostante siamo partiti ugualmente, forti da un lato del nostro entusiasmo – il viaggio in Israele e Palestina lo pianificavamo da diversi anni – dall’altro lato rincuorati dalle rassicurazioni di amici palestinesi e italiani, di stanza a Betlemme, che ci avevano detto di partire tranquilli.
Ebbene, proprio durante il nostro “soggiorno” in Terrasanta è scoppiata quella che è stata chiamata “Intifada dei coltelli”. Posso dire con certezza che siamo stati graziati: Allah, Jahve, Gesù Cristo o chi per loro ha guardato giù e ci ha protetto.
È stato come se fossimo in una tragica nuvoletta, “alla Fantozzi”, ma intesa al contrario: infatti, non appena lasciavamo un luogo, subito dopo vi si verificavano atti di violenza. Così ad esempio al Muro del Pianto prima, a Betlemme poi.
Nel primo caso, siamo riusciti a visitare indenni tutta Gerusalemme antica. Pochi giorni dopo, nello stesso luogo che avevamo visitato senza problemi, in un clima che oserei definire persino disteso, una donna musulmana ha accoltellato due israeliani.
Nel secondo caso, ci trovavamo proprio a Betlemme, quando è stato ucciso un dodicenne palestinese, nei pressi del campo profughi di Aida. Mio padre, la mia assistente ed io eravamo a Bethlehem – o Beit Laham in arabo – per il matrimonio di un mio amico palestinese con disabilità dalla nascita. Ebbene, non abbiamo potuto assistere alla cerimonia del matrimonio. Siamo riusciti solamente a presenziare al pranzo (che in Palestina viene prima della cerimonia, sic!). Nel pomeriggio il ragazzino è stato ucciso ed essendo la sala del ricevimento proprio a due passi dal campo profughi, alcuni miei amici italiani, cooperanti all’Università di Betlemme, ci hanno caldamente sconsigliato di andare al ricevimento. Viaggiavamo infatti su un veicolo con targa israeliana, un furgone attrezzato con rampa elettrica, necessario per muovermi con la mia sedia a motore. Un mezzo del genere non esiste in tutta la Cisgiordania. O meglio, avevo trovato un furgone con rampa e con autista, un mezzo autorizzato a circolare sia in Israele che in Palestina. Purtroppo, però, mi chiedevano 400-500 dollari al giorno di noleggio, cifra che non mi potevo permettere. Pertanto abbiamo ripiegato su un mezzo accessoriato in tutto e per tutto per la disabilità, ma, come detto, con targa israeliana e in teoria non autorizzato ad entrare nei Territori [i Territori Palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, N.d.R.]. In pratica, però, sul contratto di noleggio che avevamo firmato, non c’era nulla in merito alla Cisgiordania e quindi ci siamo presi il rischio di viaggiare nelle zone dell’Autorità Palestinese senza assicurazione.
Passato il giorno del matrimonio, era il 5 ottobre, l’indomani il programma prevedeva di visitare il campo profughi di Aida, ove avrei conosciuto un’organizzazione non governativa di sole donne con figli disabili. Avrei appreso come vivono, come si guadagnano da vivere. E ancora il mio desiderio era quello di visitare centri per persone con disabilità visiva, il Centro per la Pace di Betlemme, e altro ancora. Ovviamente tutto cancellato. Il 6 ottobre a mezzogiorno, infatti, si sono tenuti i funerali del piccolo palestinese ucciso il giorno prima.
Il proprietario del mezzo ci ha intimato di rientrare quanto prima sotto il controllo dell’autorità israeliana. Sapeva che eravamo nei Territori, per due motivi. Innanzitutto perché gliene avevo chiesto io il permesso, in via ufficiosa, sapendo benissimo che mi avrebbe detto di no, ma che io in Cisgiordania ci sarei andata comunque. Per la cronaca, il proprietario mi ha successivamente risposto, negandomi appunto il suo benestare, solo quando ormai eravamo a Betlemme da un pezzo. Avevo prenotato l’hotel lì, dato che lì era il matrimonio. E questo il proprietario del mezzo lo aveva sempre saputo. Inoltre, ogni volta che passavamo da un check-point, la nostra targa veniva registrata e le informazioni – presumo – mandate in tempo reale all’agenzia di noleggio di auto israeliana.
È stato uno strazio. Io ero un fascio di nervi. Da un lato per i modi del signore israeliano, proprietario del mezzo: ho avuto la netta impressione che la sua non fosse preoccupazione per la nostra incolumità, bensì genuino interesse a che il suo mezzo tornasse in Israele intonso, nuovo di zecca e senza un graffio. Dall’altro lato ero nervosissima, distrutta emotivamente e fisicamente perché eravamo completamente soli. Infatti, per problemi di connessione telefonica e internet poco funzionanti, probabilmente per la tensione di quei giorni, per tutta una serie di motivi non trovammo nessuno – né il mio amico palestinese, lo sposo, né i miei contatti italiani a Betlemme – che ci desse una mano ad andare verso il check-point più vicino.
Così, nella confusione generale e nella fretta di lasciare i Territori per motivi di sicurezza personale, anziché dirigerci verso il check-point ci siamo trovati, per errore, a costeggiare il “Muro”.
Che vergogna! Un muro alto e invalicabile che separa Betlemme da Gerusalemme Est. Lì, per un’unica volta durante tutti i dieci giorni di Terrasanta, ho avuto paura. Una “testa calda” avrebbe potuto benissimo prendere di mira il furgone, con noi dentro, a sassate o peggio.
Oltre o forse più che paura, ho provato però anche un’estrema pena. È stato come se – in un lasso di tempo brevissimo, eppure interminabile – sentissi tutto il dolore del mondo sulle mie spalle, la sofferenza dei Palestinesi e insieme quella degli Israeliani, e ancora di tutte le vittime del globo. Il dolore per la mia disabilità, come per quella di tutti i malati della terra.
Ho pianto sommessamente, mentre mio padre e la mia assistente pregavano che il segnale del GPS (col cellulare…) tornasse, in modo da dirigerci al check-point e poi via verso Gerusalemme Ovest, al sicuro.
Il resto dei giorni in Terrasanta sono filati via lisci. Una volta rientrati in Israele, una targa israeliana è un ottimo lasciapassare! Certo, abbiamo dovuto apportare delle modifiche al nostro itinerario, ma tutto sommato siamo riusciti a vedere tantissimo, sia della Città Vecchia a Gerusalemme, che di Tel Aviv, che di altre zone limitrofe. Ma se dovessi raccontare i dettagli di questo viaggio incredibile non finirei più…
Passo perciò subito alla tesi che vorrei sostenere: secondo me una soluzione al conflitto israelo-palestinese c’è. E non sono l’unica a pensarla così. La mia voce si unisce infatti a quella di molti filosofi, politici e pensatori illustri, da Salvatore Veca ad Alain Gresh, fino allo stesso Primo Levi.
Il primo lo ha scritto nel libro La priorità del male e l’offerta filosofica (Feltrinelli, 2005) mentre il secondo lo ha scritto in Israele, Palestina. La verità su un conflitto (Einaudi, 2004). Il terzo, infine, lo ha scritto nel celeberrimo Se questo è un uomo («[…] accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana»), così come lo cita lo stesso Gresh (p. 66).
Ma vengo al punto, cercando di tirare le fila di tutto quanto scritto finora. Secondo me, e in linea con i citati Autori (nonché in pieno accordo con Sergio Gallizioli, infermiere presso la Casa di Cura Domus Salutis a Brescia, che di fronte ai miei racconti di Terrasanta, mi ha detto: «Perché non crei un’associazione di disabili israeliani e palestinesi? La disabilità potrebbe essere un fattore che unisce…»), la ragione, nel conflitto israelo-palestinese, non sta completamente né da una parte né dall’altra. La violenza si esercita da ambo i lati, e di qualunque colore sia, essa è sempre perdente e foriera di ulteriore violenza.
Credo poi che il motivo per cui a mio padre, alla mia assistente e me non sia successo niente, nonostante il periodo caldo in cui ci siamo recati in Israele e Palestina, sia forse duplice: da un lato si è trattato indubbiamente di pura e semplice fortuna, bella e buona; dall’altro, siamo stati accolti spesso a braccia aperte, da entrambe le fazioni in lotta. Era ed è talmente evidente il mio stato di bisogno, la mia situazione di “emarginata”, di “perdente” nella vita – mi si conceda il termine – che nessuno si è sentito di ostacolarci. Così, a fatica, con mio padre e la mia assistente che mi trascinavano di peso con la sedia manuale (a causa dei gradini della Città Vecchia), giù dalla Via Dolorosa (la Via Crucis “originale”, per così dire, quella percorsa da Gesù duemila anni fa), o su per la rampa che conduce alla Spianata delle Moschee, tutti ci hanno visto come esseri umani, bisognosi di empatia, comprensione, rispetto. Nessuno si è frapposto tra noi e il nostro viaggio. Nessuno ci ha impedito di visitare questo o quel luogo sacro (fatta eccezione per le Moschee di Al Aqsa e della Roccia, naturale), né ebreo né musulmano né cattolico né ortodosso né copto o armeno o bahai o vattelapesca. In noi ognuno vedeva un po’ della propria sofferenza, solo declinata in modo diverso e di fronte alla sofferenza non ci sono stati conflitti. Noi tre siamo passati oltre linee di sbarramento. Siamo stati sul Monte degli Ulivi circondati dalla polizia israeliana, nel quartiere arabo, con l’odore di uova marce sprigionato dai gas lacrimogeni lanciati contro i musulmani. Non so quanti altri turisti-viaggiatori possano dire di aver fatto lo stesso.
Credo dunque che una possibile chiave, una possibile via d’uscita all’impasse di violenza continua in cui sono impantanati Israeliani e Palestinesi sia proprio questa: bisogna partire da ciò che ci unisce, non da ciò che ci divide. Non riusciamo a trovare terreno comune su un’etica di base, su delle convenzioni sociali, sulla fede religiosa, su come dobbiamo vivere o come dobbiamo morire? Poco male. Possiamo, e oserei dire dobbiamo!, trovare qualcosa che ci unisca tutti, per il solo fatto di essere umani. Ecco, questo “qualcosa” altri non è che la sofferenza, il male, il dolore, la morte, e l’ineludibilità di tutti questi aspetti.
Tutti, prima o poi, soffriamo. Tutti, prima o poi, moriamo. Tutti soffriamo da morire e moriamo dal tanto soffrire. Cosa potrebbe unire più di un simile collante? La sofferenza, il dolore, la morte livellano. Siamo tutti, dannatamente tutti uguali di fronte a questi mali, purtroppo inestricabilmente connaturati alla vita stessa di ogni essere umano. Che si sia bianchi, neri, belli, brutti, magri, grassi, credenti, atei, posh [“aristocratici”, N.d.R.] o punkabbestia ecc. ecc., siamo tutti fottutamente fragili, e mi si perdoni il linguaggio volutamente colorito. Il dolore e la morte prima o poi colpiscono tutti, e non guardano in faccia nessuno.
Perché allora non partire da qui? Nessun uomo, nessuna donna, nessun bambino – israeliano o palestinese che sia – desidera soffrire più di quanto la vita di per sé non faccia soffrire. Se le due parti fossero in grado di abbandonare rancori, rivalse, vendette ataviche e adottassero invece un’ottica condivisa di riconciliazione, di pace e solidarietà, allora e solo allora la Terrasanta sarebbe Santa di nome e di fatto. E non credo di esagerare nel dire che tutto il mondo ne beneficerebbe.
Secondo la religione islamica, così come per quella ebraica, l’origine del mondo fu a Gerusalemme e sempre a Gerusalemme è prevista la fine del mondo. Dante stesso lo scriveva, nella Divina Commedia, ricordate? Anche il cristianesimo, infatti, concorda nel vedere Gerusalemme come il centro di tutto, il cuore pulsante dell’umanità.
L’ISIS stesso, il sedicente e sanguinario Stato fondamentalista islamico, è connesso al conflitto israelo-palestinese. Così come è connesso l’Iran e tutto il mondo arabo, e a seguire gli Stati Uniti e la Russia e, volendo, anche i Tamil nello Sri Lanka, etnia di religione islamica, c’entrano con Gerusalemme e con il conflitto palestinese.
Se non si trova una soluzione, e se non la si trova in fretta, la “fine del mondo” sarà davvero lì, nella Città Santa. O quantomeno sarà un eccidio, Israeliani e Palestinesi si stermineranno a vicenda. È quello che vogliamo? O vogliamo invece muovere verso una pace duratura e una nuova realtà di convivenza pacifica?
Due Popoli, due Stati. Due Popoli, uno Stato. Due, tre, mille popoli, nessuno Stato. Non lo so. Non so quale sarà il futuro che ci attende. So però che time is ripe for action [“i tempi sono maturi per l’azione”, N.d.R.], che è ora che tutti ci diamo una mossa, e che facciamo qualcosa, per Israele e Palestina, come per l’umanità intera.
“Voi non potete capire”, dicono certi ebrei… Sì, appunto, possiamo capire» (Gresh, Israele, Palestina cit., p. 68). E anche: «Chacun de nous est responsable de tout devant tous», ovvero “Ognuno di noi è responsabile di tutto di fronte a tutti”, frase che troneggia all’ingresso del Museo della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa di Ginevra…
Maddalena Botta si soffermerà sulle sue riflessioni successive al viaggio in Terrasanta, anche durante un incontro in programma per giovedì 12 novembre al Liceo Scientifico Calini di Brescia (ore 17).