In principio erano loro, le Push Girls, che il 4 giugno 2012 fecero la propria comparsa sui teleschermi di «Sundance Channel». Quattro bellissime ragazze, quelle che attualmente definiremmo delle cougar (ossia “panterone”), con le loro acconciature rock’n’roll, il trucco esagerato e gli abiti sexy, che portavano a spasso per l’America l’orgoglio di essere donne vincenti. In sedia a rotelle, naturalmente.
Il fenomeno Push Girls infiammò la stampa nostrana e anche la sottoscritta che si aspettava una rivoluzione di pensiero in cui finalmente la donna disabile non fosse più vista come una “povera derelitta”, ma come una persona comune dalla vita appagante.
Purtroppo, dopo l’iniziale polverone, in Italia il programma non trovò terreno fertile e si spense come una meteora.
La “disabilità vincente” non sembrava interessare, finché su «Realtime» non sono iniziati a proliferare programmi come The Undateables: L’amore non ha barriere – ove The Undateables sta letteralmente per “Gli impresentabili”, in cui persone dalle disabilità fisiche evidenti venivano fatte conoscere allo scopo di far nascere l’amore tra i partecipanti.
Poi è stata la volta del Nostro piccolo grande amore, in cui Jenn e Bill, due affermati professionisti (lei medico, lui commerciante), affetti entrambi da nanismo, ci hanno mostrato la loro storia d’amore culminata con l’adozione di due bambini anch’essi nani.
Sono seguiti a ruota Piccole donne, format in cui un gruppo di grintosissime donne affette anch’esse da nanismo mostrano la loro amicizia e la loro vita decisamente sopra le righe e costellata di eccessi, e, sempre sulla medesima emittente, My shocking Love, in cui Hanna, una deliziosa diciottenne alta 45 centimetri, ci mostra la sua sfida di cercare il vero amore.
Chi scrive ha una disabilità fisica importante, che fa sì che non possa essere autosufficiente e muovermi se non con una carrozzina. Ho aspettato con ansia il momento in cui la disabilità avrebbe trovato spazio nei mass media, in modo assolutamente scevro da pietismi e da immagini negative. Un’immagine graffiante, accattivante e positiva dell’handicap è quello che ci vuole per scardinare i pregiudizi, mi dicevo. Ma evidentemente sbagliavo.
La TV, come un enorme tritacarne, ha fagocitato le vite “diverse” di queste persone e le ha trasformate in “fenomeni da baraccone”, orride caricature di se stesse. La società americana, per cui questi format sono stati pensati, pullula di freaks [“fenomeni da baraccone”, N.d.R.], ed è assolutamente normale per loro mostrare delle vite patinate, stravolte e assolutamente fasulle per fare ascolti.
Le persone con disabilità, specialmente giovani, superata la fase di lotta interiore contro se stessi, sentono spesso il bisogno di riscatto, di rivincita, come a dire: «Ehi, sono qui!», «Esisto anch’io, vivo e non mi sento un perdente». È così che si inizia a cercare visibilità e risalto anche grazie a questi programmi che, però, non hanno un intento divulgativo e sociale, ma semplicemente quello di sbancare gli ascolti con storie scioccanti.
Personalmente, da donna disabile fisica, che lavora, cura il suo aspetto, ma senza sembrare un clown, ha relazioni amicali e affettive senza alcun tipo di clamore e sensazionalismo, continuo a sognare il momento in cui i media, e in particolare la TV, porteranno sullo schermo questo tipo di vita che comprende anche il non essere autosufficienti, l’avere bisogno di altre persone per condurre una vita attiva, ma facendolo con orgoglio e in modo assolutamente normale.
A mio avviso, la società non ha bisogno necessariamente di estremismi (o sei la disabile “brutta e inutile” o sei la “bellona autonoma e rampante”), ma di verità che possano essere d’esempio, verità in cui i giovani e meno giovani possano identificarsi e trovare stimoli e conforto.