Non capita spesso di avere vicino a casa un luogo visitato da decine di migliaia di persone, e salutato fin dall’inaugurazione come un unicum nel panorama internazionale delle attrazioni culturali. È il Labirinto della Masone, dove Masone sta ad indicare il nome dello stradone sul quale si affaccia questo spazio singolare.
Siamo nei pressi di Fontanellato, in provincia di Parma, su un lembo sconosciuto della Bassa Parmense, terra piatta e si direbbe immutabile, ma dove nulla è ciò che sembra. Dal niente, infatti, è sorto il labirinto più grande del mondo, nonché la piantagione di bambù più vasta d’Europa. Duecentomila piante di venticinque specie differenti, alte fino a cinque metri, che a guardarle dal basso fan venire la vertigine, disposte lungo tre chilometri di camminamenti ombrosi, un intreccio verde tutto biforcazioni e vicoli ciechi, che obbliga a un continuo dietrofront per trovare la via d’uscita.
Ma la bellezza non si ferma qui, perché il complesso, grande sette ettari, comprende un museo-biblioteca permanente con cinquemila metri quadri di struttura espositiva, che ospita anche mostre temporanee; ci sono un elegante bistrot, una bottega di prodotti tipici e una caffetteria, immersi in un’accogliente atmosfera rallegrata da ciuffi di bambù. Non manca un bookshop che vende i libri d’arte più belli del globo, e non potrebbe essere altrimenti, visto che il Labirinto della Masone è la realizzazione del sogno di Franco Maria Ricci, bibliofilo, collezionista, designer ed editore noto ovunque per la raffinatezza delle sue pubblicazioni.
Un po’ la passione per l’arte, un po’ la curiosità bambina di passeggiare nel dedalo, mi hanno convinta ad andare e con me ho portato la suggestione di quanto letto sulla genesi del Labirinto che, in un certo qual modo, ha a che fare con la disabilità.
L’idea, infatti, è nata da una collaborazione professionale sfociata in un’amicizia autentica, quella tra Franco Maria Ricci e il letterato argentino Jorge Luis Borges. Borges era non vedente, rimase completamente cieco alla fine degli Anni Cinquanta e “utilizzò” la malattia in senso creativo, volgendola a favore di una potenza visionaria che ne fece uno dei maggiori autori di sempre, un maestro nel creare trame fantastiche ed evocative. Un uomo spiritoso, anche, che nel 1955, dopo la nomina a direttore della Biblioteca Centrale di Buenos Aires, quand’era ormai cieco, commentò: «È una sublime ironia divina ad avermi dotato di ottocentomila libri e, al tempo stesso, delle tenebre».
Una trentina d’anni fa, lo scrittore era sovente ospite nella casa di campagna di Ricci. Parlando con lui degli strani percorsi della vita, osservando le traiettorie esitanti dei suoi passi di non vedente, nella mente dell’editore prese forma un progetto destinato a diventare realtà molto tempo dopo.
Eccomi, dunque, davanti a quel progetto. Sono arrivata senza problemi, la segnaletica nella zona è ben disposta, ma penso che l’aperta campagna, tutta stradine secondarie e poche abitazioni, potrebbe confondere un forestiero. Poco male, siamo diretti in un labirinto o sbaglio? Perdersi è un buon segno.
Nel parcheggio vi sono numerose automobili, nonostante sia un giorno feriale. Visto da fuori, il complesso è una fortezza di mattoncini a metà strada tra il Far West, l’antico Egitto e il Nordafrica. La sensazione che emana è onirica. Varcata la soglia, accedo al cortile interno. Nel bistrot e ai tavoli della caffetteria i clienti sorseggiano aperitivi mangiucchiando stuzzichini golosi, il loro chiacchiericcio è rilassato e sommesso; qualcuno sbircia salumi e formaggi nella bottega. Avrei voglia di riempire lo stomaco, ma troppa è la frenesia di entrare nel labirinto e misurarmi con il mio senso dell’orientamento. Entro nella biglietteria-bookshop, finora non ho incontrato neppure un minimo gradino, la pavimentazione è perfetta per le sedie a rotelle, nessuno scossone su selciati “artistici” ma scomodi, le porte sono spaziose.
Compro il biglietto, la persona con disabilità paga il prezzo intero, l’accompagnatore ha diritto all’ingresso gratuito. Mi appiccicano un numero adesivo sulla maglia e mi consegnano la mappa del labirinto con il numero di telefono da chiamare in caso di irrimediabile smarrimento. Mi dirigo verso il dedalo. Volendo potrei ammirare prima la mostra al piano di sopra (la ragazza del bookshop mi indica l’ascensore); il biglietto, infatti, è valido per l’intera giornata e dà libero accesso a tutti gli spazi, interni ed esterni, visitabili in assoluta libertà, senza una successione prestabilita.
Scelgo però il labirinto e mi inoltro nel verde. Visto dalle foto aeree su Internet, appare come una stella pulsante di vegetazione. Gli architetti che hanno curato il progetto, Pier Carlo Bontempi e Davide Dutto, si sono ispirati al Filarete, un loro illustre predecessore rinascimentale, e hanno scelto uno schema di tipo romano, con angoli retti e spiazzi chiusi. Mi precedono un nonno con i nipoti, un bimbo e una bimba che pare sappiano dove andare, al contrario di me. L’ha detto la ragazza della biglietteria, i giovanissimi sono i primi a guadagnare l’uscita.
Dopo pochi metri non so più dove sono, ho ceduto alla tentazione di girare senza guardare la mappa e mi sono già persa. È una piacevole sensazione disorientante, le canne di bambù disegnano geometrie aggrovigliate, verso il cielo si toccano e in alcuni tratti non lasciano filtrare la luce del sole. Scoprirò più tardi che è una pianta straordinaria che purifica l’aria dall’anidride carbonica, è praticamente immune da malattie, lussureggiante anche in inverno, resistente alle trombe d’aria.
In lontananza sento delle voci. Non sono sola nella penombra, quindi, qualche altro moderno Teseo si aggira tra le pareti verdi che mi circondano senza apparente soluzione di continuità. I camminamenti sono spaziosi, le carrozzine e i passeggini possono procedere agevolmente. Quando si sbaglia strada si finisce in un’area quadrata priva di sbocchi e si torna indietro, volendo si può fare una sosta sulle panchine disseminate lungo le viuzze. Colonnotti numerati punteggiano i sentieri, appena se ne incontra uno ci si ferma e, mappa alla mano, si cerca di capire in che punto si è arrivati. L’uscita sembra a portata di mano, ma sbatto contro un cancello chiuso, devo ripartire quasi daccapo, ho sbagliato tutto. È così che comprendo come il labirinto sia una metafora dell’umana esistenza, contorta e imprevedibile. Quante volte nella vita si prende una via che pare quella giusta, ma talora si rivela errata, oppure un passo falso obbliga a invertire la rotta! Nel labirinto, come nella vita, si procede un passo alla volta, si è costretti a rischiare, a faticare, la paura di non farcela tende agguati dietro l’angolo, occorrono coraggio e speranza, bisogna essere pronti a ripartire. Se incontrassi qualche altro visitatore e ci alleassimo per uscire, ecco ricreata la solidarietà nelle difficoltà.
E infine esco, dopo quasi tre quarti d’ora, alle spalle lascio una vaga sensazione da finale di Shining, che negli ultimi metri mi ha fatto pensare a un Jack Nicholson armato d’ascia nascosto nel bambù.
Mi ritrovo davanti alla cappella a forma di piramide che domina il secondo cortile interno, al centro della stella. Nonno e nipoti sono già arrivati, siedono comodi su un muretto e sorridono. Se li avessi seguìti avrei raggiunto presto la meta, però avrei perso buona parte del divertimento, non avrei goduto del turbamento di sentirmi trascinata lontano nel dedalo. Salgo sulla rampa dalla pendenza dolce che porta all’ingresso della piramide e alla terrazza da cui si domina il secondo cortile circondato da portici. Non è un percorso per le persone con disabilità, è la strada che tutti fanno per entrare. Così dev’essere, un posto di tutti progettato per tutti, senza distinzioni né percorsi ad hoc. Esplorato l’interno della piramide, scendo dalla rampa e prendo il vialetto che immette direttamente nella prima corte. Da qui, l’ascensore mi conduce nell’esposizione, al piano di sopra.
La mostra permanente è costituita da cinquecento opere d’arte della collezione privata di Franco Maria Ricci, dipinti, sculture e oggetti che abbracciano cinque secoli, dal Cinquecento al Novecento. L’allestimento sfugge il cliché del museo, è piuttosto un luogo di cultura da vivere, somiglia un po’ a una dimora nobiliare, ma è al contempo un ufficio con scrivanie e moderni computer, perché ora è lì che nascono i preziosi libri d’arte della casa editrice, tra le tele di Carracci e Hayez e i busti scolpiti da Canova.
In un corridoio sono esposti e aperti alla libera consultazione i volumi pubblicati da Ricci in decenni di lavoro. Si può prendere un libro, sedersi a uno dei tavoli e sfogliarlo, per leggerlo oppure soltanto per guardare le immagini. Dai libri più vecchi a quelli più recenti, passando per tutti i numeri della storica rivista «FMR», è una vertigine di bellezza, la bellezza di ciò che l’uomo è riuscito a creare nei secoli. C’è anche una biblioteca dedicata alla grafica e alla tipografia. I pezzi forti sono millecento volumi del tipografo Giambattista Bodoni, inventore di caratteri esempio di eleganza. È praticamente tutto quanto Bodoni ha stampato; accanto ai suoi libri rilegati in marocchino, l’intera produzione dell’editore e tipografo Alberto Tallone.
Sono riuscita a visitare l’esposizione, quand’era ancora allestita la mostra temporanea Arte e Follia: Antonio Ligabue e Pietro Ghizzardi. Con questi due artisti padani, il tema della “diversità” ha trovato risonanza nel Labirinto della Masone. Entrambi umanamente fragili, etichettati come “matti”, Ligabue e Ghizzardi hanno attraversato questo mondo al limite della sopravvivenza materiale e spirituale, infischiandosene del giudizio altrui e producendo opere uniche, inconsuete, difficili da collocare in una corrente pittorica, come loro, del resto, non si facevano collocare in schemi precostituiti.
Proprio la “diversità” è stata il filo d’Arianna della mia esperienza nel Labirinto della Masone. Il posto è diverso, esteticamente e nel modo di presentare i suoi contenuti culturali. Il bambù stesso non è autoctono, quindi appare bizzarro, eppure nella nebbia della Bassa s’è ambientato benissimo. “Diverso” era Borges che ha ispirato questo luogo, e a due pittori “inusuali” per stile e carattere la Direzione ha dedicato la mostra inaugurale.