Interpretare la corsa come la metafora della propria vita è quanto di più semplice io possa fare. E lo è ancora di più se si tratta di una corsa che mi sta particolarmente a cuore, tanto da spendermi di persona come media ambassador insieme a molti volti ben più noti del mio, come quello dell’ex pilota di Formula Uno David Coulthard, della campionessa di sci Lindsey Vonn, del campione mondiale di ultramaratona Giorgio Calcaterra e della modella e conduttrice televisiva Fiammetta Cicogna: la Wings for Life World Run (letteralmente “Corsa mondiale sulle ali della vita”), competizione podistica per professionisti e amatori che si svolgerà a Milano l’8 maggio prossimo.
Il meccanismo della competizione prevede che un’auto, a mezz’ora dal via, parta aumentando la velocità a intervalli regolari di tempo e raggiunga i partecipanti, eliminandoli. Un’auto bianca oggi come allora.
Fu un’auto bianca di cui si persero le tracce che il 25 aprile del 2000 mi falciò, rendendomi paraplegico. Oggi un’auto dello stesso colore mi dà la speranza di poter tornare a correre davvero. Con le mie gambe. I fondi raccolti dalle iscrizioni dei partecipanti finiscono interamente alla ricerca per trovare una “cura” alle lesioni midollari (avevo recentemente già scritto di uno dei più promettenti progetti finanziati): i costi dell’organizzazione dell’evento sono, infatti, coperti dagli sponsor.
Interesse personale, lo ammetto. O forse non solo. Tutti noi nella nostra vita abbiamo avuto un’“auto bianca” (una persona, un’avventura, una malattia), che ha rallentato o interrotto la nostra corsa verso il futuro. Pensateci bene. Ripercorrete la vostra esistenza e provate a ricordarvi di quella volta in cui… l’avete scampata. C’è chi è stato più fortunato e chi invece lungo il percorso, oltre alle gambe, ha perso pure i suoi sogni. C’è chi i desideri comuni a tutti noi, un amore, un lavoro o più semplicemente una vacanza, non li ha mai nemmeno potuti accarezzare.
Non si va in ferie dalla disabilità. La disabilità è un marchio, più o meno invisibile, che porti impresso. Pesa come fosse una colpa che non riesci a lavarti di dosso, come se in una società così votata al bello e al perfetto, tu rappresentassi la nota stonata di una partitura celestiale.
Un esempio di questo disagio? L’anno scorso ho partecipato alla stessa competizione che si svolgeva, però, a Verona e grazie allo spingitore ufficiale, il mio amico Walter Sandoni, ho superato il traguardo dei 10 chilometri. Ero tanto felice dell’obiettivo raggiunto, quanto imbarazzato di ricevere tanti applausi lungo il tragitto. Cosa stavo facendo per meritarmi tanta attenzione? Nulla, anzi, per una volta, stavo facendo qualcosa per me stesso, stavo cercando di liberarmi la coscienza dal peso di essere disabile.
Quanti «Ma se quella sera invece di percorrere quel tratto di strada…», «se solo avessi anticipato o ritardato il rientro…» ci sono stati in sedici anni? Inutili contro il destino. Sono fatalista, ma un fatalista razionale. Un fatalista fortunato, forse perché quei sogni da ragazzo di 26 anni (l’età che avevo quando subii l’incidente) in un modo o nell’altro li ho realizzati. Splendida moglie e il lavoro per cui avevo studiato e che mi consente di viaggiare. Sono mancate altre cose che forse, anche se la mia vita non fosse stata contrassegnata da un incontro ravvicinatissimo con l’asfalto, non ci sarebbero state.
A Milano correrò con alcuni amici – il team di InVisibili, nato all’interno dell’omonimo blog del «Corriere della Sera» – e lo farò per me stesso, ma anche per chi potrebbe avere bisogno di un piccolo incoraggiamento dopo avere incontrato la sua “auto bianca”, quella che rallenta, ma non deve mai fermare la corsa della vita.