Caro Lone [il “compagno a quattro ruote” di Rosa Mauro, ovvero lo scooter elettrico che l’Autrice ha fatto talora parlare “in prima persona” anche su queste pagine, N.d.R.], da un po’ di tempo non stai bene e non possiamo più scorrazzare insieme: non hai idea di quanto mi dispiaccia vederti lì fermo, con la tua aria afflitta, a guardare la primavera esplodere all’esterno… Spero davvero che tu ti rimetta in forma, e nell’attesa ti racconto la storia della mia scesa in campo nel teatro.
Devi sapere che a ottobre dello scorso anno ho maturato l’idea di fare parte di un gruppo teatrale, un’esperienza che mi mancava da quando ero bambina e facevo – ma con molta diligenza – l’albero o il tecnico delle luci negli spettacoli degli scout. Mi sono detta che magari da adulta potevo avere più fortuna e addirittura arrivare a dire qualche battuta, per cui ho cominciato il mio peregrinare.
Immagina che ti stia raccontando una commedia, e questo sarebbe il prologo: io, una “diversamente giovane” di circa 50 anni (ok 51, diciamo 51 e mezzo, sei pignolo, sai?), decido di cercarmi una scuola di teatro. Naturalmente chiedo se è accessibile, visto il mio problema motorio…
E allora cominciano i distinguo: alcuni riferiscono che ti faranno lavorare, ma non potrai fare tutto, perché loro usano un metodo che lavora con il corpo (inutile dire, caro Lone, che anch’io ho un corpo, non sono ancora un ectoplasma).
Altri, di fronte al mio secondo “problemino”, la cecità parziale, riferiscono che non possono permettermi di portare un’improvvisazione invece di un monologo. Come tu sai, un monologo in due giorni rischi di non apprenderlo alla perfezione e siccome non puoi sbirciare come gli altri… Insomma, un po’ come mettersi una palla al piede e poi voler correre i cento metri.
Domandi loro che differenza reale c’è, tra improvvisazione e monologo, visto che sei una principiante e quindi, in ogni caso, non stai facendo un provino per una parte. Non ti sanno rispondere, ma ti dicono comunque di no.
Il più fantasioso dei no l’ho avuto da un gruppo teatrale che aveva già fatto teatro integrato: mi hanno risposto che quando si deve lavorare con un disabile bisogna avere una sorta di interprete e mi hanno portato ad esempio il teatro integrato che hanno fatto loro… con delle persone sorde e mute. Al mio candido rilievo che io non ho bisogno della LIS [Lingua Italiana dei Segni, N.d.R.], hanno risposto che comunque il teatro è un’arte che ha bisogno di usare espressioni corporee. Di nuovo ribadisco che non sono un ectoplasma, che espressioni corporee ne ho sicuramente anch’io (mi viene anche in mente di dire che mio marito non se ne è mai lamentato, ma penso che sarebbe come sparare sulla Croce Rossa…), ma non c’è niente da fare, irremovibili.
Quasi per caso, provo con l’ultima scuola, quella tra l’altro più vicina, il Teatro Aurelio [a Roma, N.d.R.]. Chiedo dell’accessibilità, e mi viene detto che al teatro c’è, anche se è una parziale verità, e poi ti spiegherò il perché.
Parlo dei miei problemi e mi vien solo detto di venire a provare. Che bello, quasi non ci posso credere, così ci vado, la prima volta con mia madre.
Primo atto: la scena si svolge in una scuola che presenta una bella rampa di scalini per salire. Ci mettiamo un po’ di tempo per chiamare qualcuno che mi apra la porta secondaria, accessibile, e costringo un operatore scolastico a portarmi su in ascensore, tra grandi rimbrotti.
Mi trovo, in compenso, con persone molto simpatiche, assolutamente principianti come me e mi sento parecchio a mio agio. Alla fine della lezione di prova, mezz’ora di manfrine con gli operatori scolastici mi convincono però che è meglio la lezione del lunedì, che si svolge nel teatro: non reggerei mesi e mesi di un operatore convinto che io sia lì a rovinargli la vita!
Seconda scena: il teatro, in effetti, una volta entrati ha un atrio e la platea completamente accessibili. La platea è come una sala da ballo, le sedie sono impilate agli angoli e al centro c’è questo meraviglioso pavimento lucido e leggermente in discesa. Fantastico. Scivolo quindi verso il palcoscenico, quasi senza notare che non c’è che una scala per salirvi sopra. Il vantaggio/svantaggio di essere “talpati”.
Mi ritrovo con un gruppo di persone che si conosce da un minimo di un anno a un massimo di quattro e cerco di capire dalle voci che tipi sono. Mi sento abbastanza soddisfatta dal fatto che le età sono varie, cerco di chiacchierare un po’ con tutti, finendo – è questa la prima impressione – con il sembrare invadente. È sempre così quando sono intimidita. Odio essere quella nuova. Ma il maestro mi mette subito a mio agio, mi dà gli stessi esercizi degli altri, li devo solo adattare alla mia fisicità.
Cerco intanto di imparare i nomi fissandoli alle voci: Andrea, Paola, Federica, Maria Felicia. Le voci non mentono, ognuno ha la sua, e in brevissimo tempo non sono già più estranei. Ma prima o poi, dopo gli altri, arriva il mio turno di salire sul palco.
Ci è già salita Rosella, che ha anche lei una disabilità visiva, ma sebbene accompagnata, può salire dalle scale di accesso della platea. E qui inizia una magnifica seconda scena, che potrebbe agevolmente chiamarsi «ma come diamine ci salgo io su quel palco?».
Vedi Lone, l’unico accesso possibile al palco lo è per modo di dire; c’è infatti una rampa con una pendenza che sarà, non esagero, tra il 15 e il 30%. Ci si arriva da una porta stretta in cui la carrozzina può a malapena girarsi e perfino un atleta paralimpico con i muscoli di un sollevatore di pesi professionista avrebbe problemi a farla. Dunque, dalla prima volta, a qualcuno è toccato spingermi su per il palcoscenico.
Le prime volte lo facevano un po’ tutti quelli del mio corso, il che a dire il vero mi piaceva, permettendomi di interagire con loro e di considerare quell’entrata particolare come parte della conoscenza reciproca. Lo so, Lone, cosa vuoi dirmi. Lo so che è umano che a un certo punto si siano stancati e che ora a spingermi sia sempre il regista, che deve subire questa specie di inferno ogni volta. Ma a me è spiaciuto un po’ lo stesso, con alcuni di loro ho recitato poco nelle improvvisazioni, ma mentre mi portavano su si riusciva a creare un legame. O, per meglio dire, loro lo creavano, io ho la maledizione di creare legami immediatamente, che mi piaccia oppure no.
Ma la parte più bella è stata cominciare ad imparare a incarnare un personaggio. Per anni li ho creati, ma non ne avevo mai realmente incarnato uno… Questo mi ridà fiducia nel mio corpo, non serve sia perfetto per funzionare come veicolo.
Sai, Lone, tu sei stato il primo ad insegnarmi che avere delle gambe malfunzionanti non vuol dire rinunciare a vivere. Ma il teatro mi sta insegnando che ognuno ha il proprio corpo e che non ne esiste uno idealmente bello o brutto, conta quanto quel corpo può esprimere e i confini sono vasti quanto l’essere umano.
Non credo che il teatro – e non solo eventi occasionali di associazioni o terapie, con tutto il rispetto per questo tipo di attività – debba essere precluso a una categoria o a un’altra. E, sai, sono convinta che serva davvero rappresentare questo, anche in una piccola compagnia teatrale, visto che di tanto in tanto si ha l’impressione che un muro invisibile divida chi ha un problema di funzionalità (ultimo di una lunga serie di sinonimi: “handicappato”, “disabile”, “diversamente abile”) da tutti gli altri.
Obiettivo ambizioso? Mmh, mica ho detto che devo diventare un’attrice famosa e, soprattutto, mica voglio rimanere sola, altrimenti che lo sto dicendo a fare? Cominciamo ad entrare nella rappresentazione della vita, e questo pian piano cambierà la percezione di una diversità legata solo a una pigrizia visiva, quella di dover vedere per forza due gambe invece di una carrozzina per empatizzare. Oppure, si scoprirà finalmente che una persona con autismo, con psicosi, con disabilità, può esprimere infinite gamme di emozioni, e mondi altrettanto intensi, uguali e diversi da quelli altrui.
Ah sì, anche costruire un mondo senza barriere aiuterebbe, ma quello verrà naturale quando non saremo più visti come “altro da loro”. Sarà una grande vittoria quando chi è intorno a te – e non tu – dirà, di un locale che si deve scegliere per una rappresentazione, «che bello, è accessibile in carrozzina!».
In attesa della terza scena, quella in cui cercherò di descrivere l’ansia dell’attesa, la gioia del debutto e la soddisfazione (si spera) per un buon lavoro svolto, cos’altro potrei dirti Lone, cosa dire a chi ci ascolta?
Fate teatro, ma senza cercare mediazioni e mediatori: è come la vita, ognuno deve poterci entrare, con una parte piccola o grande, perché il mondo e la sua rappresentazione devono essere davvero di tutti. E sbrigatevi: non vedo l’ora di vedere una bella storia d’amore con una Giulietta o un Romeo a quattro ruote, chissà che finalmente qualcuno non smetta di chiedersi e di chiederci come facciamo a vivere!