Nello scorso mese di luglio l’INPS ha reso pubblico il proprio XV Rapporto Annuale, che in questa edizione ha dedicato uno specifico capitolo alle politiche di sostegno rivolte alla popolazione non autosufficiente. Il capitolo prende le mosse dalle sfide cui sarà sottoposto negli anni futuri il nostro sistema di welfare, per passare poi a un ripensamento dell’attuale modello di Long Term Care (d’ora in poi LCT, che in italiano significa letteralmente “cure a lungo termine”), fornendo linee di indirizzo per una futura riforma di esso.
Le stime suggeriscono che nei prossimi cinque decenni (2010-2060) la popolazione anziana raddoppierà, passando da 13,2 a 20 milioni di persone, delle quali 6 milioni avranno più di 85 anni, un valore tre volte superiore a quello registrato nel 2010 (quando gli over 84 erano 1,7 milioni). Non si hanno elementi per affermare che l’aumento della longevità possa andare di pari passo con un aumento della speranza di vita in buona salute, e pertanto – poiché la disabilità risulta prevalente tra le persone anziane – avremo una crescente incidenza delle fasce di popolazione a maggior rischio di non autosufficienza, che passeranno da meno di un quinto a un terzo della popolazione complessiva.
Secondo le previsioni della Ragioneria Generale dello Stato, la spesa per la non autosufficienza dovrebbe quindi aumentare dall’1,9% al 3,2% del Prodotto Interno Lordo (PIL), valore che, in base all’andamento epidemiologico, potrebbe comunque risultare sottostimato.
In aggiunta, la riduzione dei tassi di fecondità e del numero di componenti dei nuclei familiari rappresenteranno un ulteriore elemento di crisi del nostro sistema di welfare che poggia largamente sulle famiglie, sia in termini di cure prestate ai propri componenti che di copertura dei costi diretti di natura sociale e sanitaria (inclusa l’assunzione di assistenti familiari). Tale modello non potrà infatti fronteggiare il crescente invecchiamento della popolazione, sia perché dipendente da un incremento irrealistico del numero dei caregiver familiari (si stima che nel 2060 dovrebbero aumentare di quattro volte, per garantire un supporto pari a quello odierno alle persone non autosufficienti), sia perché vulnerabile al ciclo economico e all’andamento dei flussi migratori e dell’occupazione.
La spesa italiana per l’LTC (che comprende la spesa sanitaria per l’LTC, le indennità di accompagnamento e gli interventi socio-assistenziali, erogati a livello locale, rivolti alle persone con disabilità e agli anziani non autosufficienti) risulta di poco superiore alla media europea in rapporto al PIL (l’1,8% rispetto all’1,6% della media dell’Unione Europea), ma più bassa di quella sostenuta dai principali Paesi europei in rapporto alla popolazione con disabilità. Inoltre, ciò che contraddistingue la spesa italiana in LCT è il suo essere sbilanciata in favore dei trasferimenti monetari rispetto alle prestazioni in natura, e segnatamente alla rete territoriale dei servizi, che offre un grado di copertura a livello medio nazionale piuttosto basso e con significative differenze territoriali.
L’INPS ricostruisce quindi il quadro italiano delle prestazioni per la disabilità, e della relativa spesa pubblica, evidenziando come l’indennità di accompagnamento, della quale fruiscono circa 2 milioni di persone, rappresenti la principale forma di supporto pubblico per la non autosufficienza in Italia, raggiungendo 6 persone con disabilità su 10 (l’ISTAT stima infatti che le persone con limitazioni funzionali gravi siano 3,1 milioni).
Complessivamente la spesa per disabilità e LCT viene stimata in 35,4 miliardi di euro, calcolo in cui l’INPS considera anche il costo connesso ai permessi lavorativi (Legge 104/92) e ai congedi straordinari (articolo 42, comma 5 del Decreto Legislativo 151/01), che non viene incluso dalla Ragioneria Generale dello Stato nell’aggregato di spesa pubblica per LTC, ma che ha assunto negli anni una consistenza significativa, attestandosi a 3,1 miliardi di euro. Un valore, questo, non molto distante da quello della rete territoriale degli interventi e servizi sociali offerti dai Comuni, pari a 3,9 miliardi di euro.
È interessante notare inoltre come il numero totale delle prestazioni erogate dall’INPS – tra indennità di accompagnamento e permessi lavorativi – risulti superiore al numero dei beneficiari, poiché una stessa persona può usufruire di entrambe le prestazioni. Ad esempio, nel solo settore privato il 56,3% dei permessi lavorativi è fruito in relazione a persone che beneficiano di indennità di accompagnamento. Segno che, in un sistema di welfare come il nostro, ancorato a una forte delega alle famiglie, i permessi lavorativi possono svolgere una funzione complementare nel contrastare le carenze del sistema di cura formale. Considerazione, questa, cui si deve associare anche una riflessione sull’adeguatezza dei trasferimenti monetari. L’importo dell’indennità di accompagnamento per il 2016 è infatti di 512,34 euro mensili, mediamente inferiore ai costi connessi all’assistenza di una persona non autosufficiente.
Nel 2015 si rileva che 6 beneficiari di indennità di accompagnamento su 10 hanno un’età superiore ai 75 anni. La durata media delle prestazioni è calcolata in 4,9 anni. Segno che un beneficiario, nella maggior parte dei casi anziano, cui vengono riconosciute le condizioni sanitarie per l’accesso all’indennità di accompagnamento, riceve in media 30.000 euro di trasferimenti monetari nel corso della sua vita.
L’INPS passa poi ad analizzare due tesi che ricorrono, in questi anni, nel dibattito sull’indennità di accompagnamento. La prima relativa ai suoi eccessivi costi, da cui le varie proposte di introdurre la prova dei mezzi come vincolo di erogazione o di rendere il beneficio soggetto all’imposta sul reddito. La seconda concernente gli evidenti squilibri territoriali nel riconoscimento della provvidenza, che lascerebbero supporre l’esistenza di abusi.
Riguardo la prima tesi, nella sua analisi l’INPS stima le condizioni economiche dei percettori di indennità di accompagnamento, rilevando che più di due terzi della spesa totale in indennità di accompagnamento è erogata a favore di persone con reddito da pensione inferiore a 15.000 euro. Pertanto, conclude l’INPS, si evidenzia uno stretto legame tra povertà e disabilità, tale da far ritenere che le proposte di riforma da più parti avanzate possano produrre un paradosso: «Se da un lato aumentano i costi amministrativi e l’eventuale effetto “stigma” dei richiedenti, dall’altro potrebbero avere un impatto limitato sulla sostenibilità finanziaria del sistema».
In relazione invece alla seconda tesi, occorre premettere che già da tempo «Condicio.it», portale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), ha affrontato il tema delle differenze territoriali nella distribuzione dei beneficiari di indennità di accompagnamento, contestando la cosiddetta “teoria degli abusi” e avanzando delle riflessioni, supportate da dati, sulle possibili interpretazioni del fenomeno (se ne legga ad esempio qui e qui) [riflessioni analoghe sono state riprese più volte, in questi anni, anche da «Superando.it», N.d.R.]. Per l’occasione era stata evidenziata anche la necessità di ulteriori livelli di indagini, capaci di cogliere l’esistenza di correlazioni statisticamente significative tra variabili che possano spiegare gli squilibri territoriali.
In questo quadro l’INPS fornisce quel necessario e richiesto supplemento di indagine, dimostrando che la variabilità territoriale nel numero dei beneficiari di indennità di accompagnamento può essere spiegata dalla struttura demografica, dagli andamenti epidemiologici e dal contesto socio-economico, nonché dalle difformità nell’offerta di prestazioni socio-assistenziali a livello locale che influenzano la decisione di presentare la domanda di accertamento.
In sostanza, l’INPS rileva che il numero di beneficiari di indennità di accompagnamento in rapporto all’intera popolazione residente sul territorio nazionale è di circa il 3,6%, con valori di circa il 20% più alti della media nazionale nel Centro-Sud. Tuttavia l’analisi realizzata dimostra l’esistenza di una correlazione tra il numero di percettori di indennità di accompagnamento e l’andamento di alcune variabili di contesto. L’entità dei beneficiari cresce in relazione al numero di anziani residenti per Provincia e al numero di dimissioni ospedaliere per tumori e malattie del sistema nervoso, che sono i principali fattori invalidanti alla base delle concessioni di indennità di accompagnamento. Al contrario, il numero dei beneficiari si riduce nelle Province con più alto valore aggiunto pro capite e con un importo medio dei redditi da pensione più elevato. Inoltre, si rileva che maggiore è la disuguaglianza nei redditi da pensione individuali, maggiore è il numero di beneficiari a livello provinciale. Esiste infine una quota di variabilità territoriale che non può essere spiegata dai fattori considerati nell’analisi e che l’INPS suggerisce possa dipendere da altre caratteristiche di contesto, come ad esempio il differente grado di copertura e di spesa dei Comuni per il sostegno ad anziani e disabili o le disomogeneità connesse all’accertamento sanitario.
Riguardo quest’ultimo aspetto, in particolare, il Rapporto fornisce i dati delle sperimentazioni relative all’affidamento in convenzione all’INPS, da parte delle Regioni, delle funzioni relative all’accertamento dei requisiti sanitari, in modo da unificare in capo all’Istituto l’intero procedimento. Molteplici risultano i vantaggi individuati, che concernono: la contrazione delle risorse umane e quindi economiche impegnate nel procedimento; la riduzione dei tempi di fornitura del servizio, con benefìci sia per la persona con disabilità, sia in termini di riduzione del pagamento degli interessi di mora per il ritardo nell’erogazione delle prestazioni; l’omogeneizzazione delle modalità di accertamento, con ricadute in termini di contenziosi e quindi di contrazione dei costi per il sistema giudiziario e per l’INPS nei casi di soccombenza; la riduzione di eventuali visite ripetute a carico dei cittadini; l’immediata disponibilità di dati sulla disabilità.
Passiamo infine alle linee di indirizzo fornite dall’INPS per la riforma dell’LCT in Italia.
Il primo elemento di riflessione riguarda il sistema dei permessi lavorativi, che di fatto ratifica un modello di welfare ancorato al lavoro di cura familiare. L’Istituto evidenzia come tale modello non solo risulti insostenibile a lungo termine, a causa degli andamenti demografici, ma denuncia anche un livello significativo di spesa per i permessi lavorativi che potrebbe essere diversamente orientato.
Tali costi vengono stimati in circa 3 miliardi di euro, sottolineando però come non vi siano certezze sulla loro effettiva destinazione ed efficacia, mentre le differenze rilevate tra settori e comparti lascerebbero ipotizzare un uso improprio dello strumento. L’INPS suggerisce pertanto un impiego alternativo di queste risorse, che possa essere destinato a «rafforzare i servizi territoriali magari facendoli confluire in un Fondo perequativo a garanzia di livelli minimi del servizio per quelle Regioni che su questo terreno risultano più indietro».
Un secondo elemento su cui si concentrano le proposte dell’Istituto è quello dell’indennità di accompagnamento. L’INPS sostiene che «se da un lato l’indennità di accompagnamento ha un importante effetto nel ridurre il rischio di povertà tra le fasce più vulnerabili della popolazione, la sua attuale architettura non è in grado di discriminare tra diversi livelli di gravità della condizione di non autosufficienza e i costi che ne derivano». Per cui propone di «introdurre la prova dei mezzi, uscendo dal principio risarcitorio della disabilità, nella concessione dell’indennità di accompagnamento in modo da graduarla in proporzione inversa rispetto al bisogno economico e rafforzandola direttamente rispetto al grado di disabilità [grassetti nostri nelle due ultime citazioni, N.d.R.]».
Sebbene si possa concordare nel ritenere che le prestazioni fornite debbano essere commisurate all’intensità del supporto necessario alla persona non autosufficiente, la proposta lascia tuttavia intendere una concezione dell’indennità di accompagnamento come misura di integrazione al reddito, laddove invece essa è – attualmente – sganciata dalla prova dei mezzi, proprio perché si tratta di una misura compensativa rispetto alla carenza di servizi e interventi sul territorio, ovvero alla mancanza di una progettazione (e realizzazione) di spazi, beni e servizi che siano realmente per tutti. In questa direzione, un cambiamento nella ragion d’essere della provvidenza dovrebbe andare di pari passo con la revisione anche degli importi, considerando che la disabilità rappresenta uno dei maggiori fattori di impoverimento delle famiglie.
Ancora, le linee di indirizzo suggeriscono di introdurre «incentivi all’utilizzo di strutture residenziali sanitarie per contenere i costi sanitari, rafforzando il valore della prestazione economica alternativa rispetto a quella garantita dall’indennità di accompagnamento (voucher come nel caso della Germania)». In questo caso, i benefìci ventilati dall’INPS in termini di risparmi sanitari si accompagnano però a una serie di interrogativi, legati al rischio di ricoveri impropri, ossia di sanitarizzazione del bisogno e dell’abitare. In altre parole ci chiediamo se non sia parimenti auspicabile che tali incentivi possano essere pensati anche per rafforzare la possibilità della persona non autosufficiente di rimanere nel proprio contesto abitativo. Nonché di avviare, laddove necessari, percorsi di ospedalizzazione a domicilio.
Infine, l’INPS suggerisce «una ridefinizione del concetto di disabilità che lasci spazi ridottissimi alla discrezionalità delle Commissioni locali». Una parte delle differenze territoriali nella concessione dell’indennità di accompagnamento, tanto rimarcate nel dibattito pubblico, vengono infatti spiegate dall’assenza di criteri di accertamento univoci e uniformi. E in effetti la normativa vigente è quanto mai vaga nell’indicare la criteriologia da applicare per definire la cosiddetta «impossibilità allo svolgimento degli atti quotidiani della vita». Né sono mai stati recepiti e adottati formalmente strumenti e scale, pur largamente presenti in letteratura scientifica e nella pratica clinica, che sarebbero utili in tal senso restituendo trasparenza e uniformità alle valutazioni.