Credo che il quesito posto nei giorni scorsi su queste stesse pagine da Salvatore Nocera («È utile per i nostri ragazzi con disabilità intellettiva la frequenza dell’Università per una loro crescita umana, intellettuale e sociale?»), attiverà un vivace dibattito, che mi auguro non si limiti semplicemente a esprimere un consenso o un dissenso.
Affrontata dal punto di vista del diritto, la questione si dirimerebbe senza ulteriori commenti. La Costituzione Italiana, infatti, afferma che la scuola è aperta a tutti e non pone distinguo: “tutti” sottende nessuno escluso. E tale principio è ripreso dalla Legge Quadro 104/92, che all’articolo 12 garantisce per gli alunni con disabilità «il diritto all’educazione e all’istruzione nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie».
Se dovessimo poi analizzare la frequenza universitaria in base all’utilità, probabilmente si dovrebbero mettere in discussione altre situazioni, e forse più di una risulterebbe “poco o scarsamente o per niente efficace”.
E ancora, se dovessimo analizzare il diritto all’istruzione, genericamente, in base alla presenza di una disabilità, allora forse dovremmo rimettere in discussione tutto il sistema formativo.
Prima dunque di qualsiasi altra valutazione e considerazione, dovrebbero prevalere il diritto soggettivo e la significatività, per quella persona, del percorso intrapreso. Non si può generalizzare, perché si rischia di omologare persone fra loro differenti.
Partirei da qui per un confronto e una riflessione.
Università e disabilità intellettiva: ognuno fa storia a sé
«Rispetto al quesito posto nei giorni scorsi su queste stesse pagine da Salvatore Nocera – scrive Evelina Chiocca – ovvero se sia utile per i ragazzi con disabilità intellettiva la frequenza dell’Università, ai fini di una loro crescita umana, intellettuale e sociale, credo che prima di qualsiasi altra valutazione e considerazione, dovrebbero prevalere il diritto soggettivo e la significatività, per ogni singola persona, del percorso intrapreso. Non si può generalizzare, perché si rischia di omologare persone fra loro differenti»