Qualche giorno fa sono stata convocata in Commissione Invalidi. Visto l’aggravamento degli ultimi anni, avevo richiesto di essere esaminata per aggiornare la mia posizione di disabile della vista, soprattutto in base alla Legge Quadro 104/92.
Il mio residuo visivo è stimato su un centesimo, il campo visivo è uno stillicidio al centro, ma con la visione laterale e qualche peripezia nella messa a fuoco, me la cavicchio ancora, almeno in piccola parte. Ho bisogno per altro di ausili che non costano poco, mentre elettrodomestici, TV e apparecchi vari vanno scelti con cura perché siano almeno in parte fruibili. Inoltre, muoversi in città e fuori è possibile, ma niente è scontato, e spesso attività “banali” come sistemare i conti e le carte di casa, fare la spesa, comprare un vestito, recarsi dal medico, andare in posta, a teatro o al cinema, andare in piscina o al mare richiedono l’aiuto di una persona vedente.
Teniamo conto che stando alle leggi italiane, le misure di sostegno per le persone con disabilità andrebbero valutate non solo in base al deficit organico, ma dovrebbe essere considerato – in coerenza con il cosiddetto approccio bio-psico-sociale di cui si chiacchiera tanto – tutto il contesto in cui la disabilità interviene, le risorse personali del soggetto disabile, la sua rete familiare e sociale, le sue capacità di adattamento e gli strumenti che potrebbero aiutarlo a dare il meglio nella comunità di cui fa parte.
Così accade che con “ben” tre giorni di anticipo arrivi una telefonata in cui l’Ufficio Invalidi del Comune di Modena mi convoca alla visita. Un certo preavviso… D’altronde i disabili non fanno niente, e soprattutto vanno dove vogliono e quando vogliono, non devono mica chiedere aiuto… Però sono contenta, se non altro mi tolgo il dente.
Bene, fortunatamente ho tante persone meravigliose intorno e un caro amico mi accompagna ai Poliambulatori. Siamo là con 15 minuti di anticipo, per poi capire che l’attesa non sarà breve. Ma per analizzare accuratamente i bisogni di una persona e rispondervi al meglio servono tempi ben più lunghi di quelli dettati dalla burocrazia, per cui… con 90 minuti di ritardo entro, armata di bastone bianco, visti i neon proverbialmente forti di quelle stanze.
«Si sieda sulla sedia blu», esordisce una commissaria. Sono interdetta, esito, non vedo sedie. Ma c’è un tavolo, lì ci saranno delle sedie, mi avvicino, e infatti ci sono. «No, ho detto blu, quella è azzurra!». Resto di sasso e penso: «Giustamente devono scovare gli impostori, per questo si comporta così…». Resto immobile, smarrita, alla vana ricerca di una sedia blu intorno a me, mentre un’altra commissaria più anziana inveisce in modo non elegante contro una signora che aveva esaminato nel pomeriggio. Mi indicano la direzione della sedia blu. Mi siedo, stizzita, ma determinata a collaborare. Sono qui per i miei diritti, non pretenderei niente di più da queste situazioni.
La commissaria più giovane si allontana dalla mia sospirata sedia blu. È vestita di scuro, per cui la vedo muoversi davanti al muro chiaro. Si accende un monitor a muro. Mi abbaglia. Ho già tutte le “lune viola” che mi vengono, quando mi sparano il flash negli occhi. Ma resisto.
«Cosa vede?». Eccola lì la domanda fatidica. «Vedo un fascio di luce bianca e forte sul muro, niente di più». Una risposta chiara, sono maculopatica, fotofobica da sempre. E se mi spari una luce forte, non distinguo niente… Come in spiaggia, quando potrei salutare con la stessa intensità sdrai, ombrelloni, persone e cabine!
«Signora – incalza la donna – quante macchie vede?». E io: «Purtroppo da qui non vedo macchie. Solo un rettangolo di luce bianca sul muro». Ma forse oggi non parlo chiaramente. «No, signora, non ci siamo spiegati – precisa l’oculista dentro il suo camice bianco – dentro la luce ci sono delle macchie. Le vede?”».
Questa sorta di ping pong dialogico prosegue per una decina di minuti ancora, e lì la rivelazione: «Signora, non usi la visione centrale visto che l’ha persa, guardi da un’altra parte sennò la luce la abbaglia e non vede nulla…». Sarebbe anche un buon consiglio, se non fosse che questo “gioco” lo faccio da ventisei anni, cioè da quando la maculopatia si è manifestata… Ma mica può saperlo lui, per cui rispondo: «Sì sì, sto guardando in basso a sinistra, ho provato anche a sforzarmi, ma niente, solo luce, mi dispiace». Potrei raccontare migliaia di scene imbarazzanti in cui parlo con qualcuno e fisso un altro… Ma a loro le mie peripezie da “Venere strabica”, mica interessano…
Prosegue l’interrogatorio modello Centrale di Polizia. «Allora, signora, non vede proprio delle ombre?”». Non ce la faccio più. Sbotto. «No, la luce sì che la vedo, le ombre me lo dite voi che ci sono, e io vi credo, ma non le vedo! La luce mi abbaglia troppo». E in quel momento, in cui la mia voce non era più calma, lì, in quella stanza grigia, arriva la perla di saggezza della Commissione Invalidi. «Signora, non ci deve mica spiegare lei cosa vede, noi abbiamo studiato, e se vede la luce, allora deve vedere anche le ombre!»…
Ecco. È tutto chiaro. Non ho studiato abbastanza. Notti spese tra la Repubblica di Platone e la Poetica di Aristotele, gli scritti di Bacone, scomodando Spinoza, Leibniz, Schopenhauer e il suo “velo di Maya”, Nietzsche e tutti gli altri. Ho sempre fatto sviluppo personale, sono anni che lavoro su di me per riconoscere e amare le mie ombre interiori, mi sembrava di aver raggiunto un buon equilibrio, tanto da poter amare anche le ombre dell’altro senza farmi urtare, insomma, con le ombre e il buio ci so fare… Ma qui… Loro hanno studiato!
Comprendo. È inutile. Piango e ruggisco perché non posso fare altrimenti e attendo che mi ordinino di avvicinarmi allo schermo, mentre la commissaria un po’ più esperta si rivolge a me con falsa gentilezza: «Signora Nadia, vedo che le cose vanno meglio, dall’ultima volta in Commissione [era il 2009]. Lei ha trovato lavoro! Cosa fa di bello?». Respiro e chiudo gli occhi, perché ormai sono completamente abbagliata e mi gira la testa. Ringhio e poi con tono colpevolmente polemico rispondo: «Potrebbe sorprenderla… Faccio la centralinista… Come il 90% degli orbi!». Ma quella donna ci riprova ad essere carina e farfuglia che «insomma… sono le prime cose che si trovano… ma poi… i progetti… lei ha studiato…». Avrei voluto rispondere: «Sì, ma non ho studiato abbastanza per vedere le ombre che pensate voi…», ma evitiamo, vah…
Sbuffo e provo a dire qualcosa di sensato sul fatto che pian piano con gli ausili, il computer, l’ingranditore, i progetti me li faccio da sola e ce la metto tutta, ma non è semplice. Qualcosa però sembra non andare nel mio eloquio palesemente poco pacato, cosicché la commissaria si alza di scatto dalla sedia e scompare sbattendo la porta. Gli altri due provano a recuperare la situazione: «Non si alteri signora… Noi seguiamo il protocollo!».
Nel frattempo pare si siano fatti una ragione del fatto che le ombre non le vedo da tanto lontano e mi chiedono di camminare verso la luce. Prosegue l’esame visivo. Da vicino comincio finalmente a vedere queste benedette macchie, ma gli occhi lacrimano per lo sforzo. Chiedo di usare gli occhiali da sole e gli ultimi minuti li passiamo a esaminare il mio residuo visivo con questo metodo così accurato e infallibile, finché l’oculista dichiara solennemente: «Un centesimo!». Mi rimandano alla mia sospirata sedia blu e mi congedano: «Per noi va bene così. Auguri!».
Ancora stonata dai neon che per me son peggio dei funghetti allucinogeni, seguo le sagome e imbrocco la porta. Sono fuori. E c’è un abbraccio per me. Sono furiosa.
Non so con chi ho parlato, non so come possano immaginare la mia vita, non mi hanno chiesto alcunché rispetto a dove e come vivo, se faccio sport, se vivo coi miei, se sono sposata o no… Di solito il gossip piace… Niente. Dov’è finito l’approccio globale alla persona? L’attenzione al soggetto? L’handicap come svantaggio e non come semplice conseguenza del deficit? E l’idea che l’ipovisione è un mondo in cui ognuno sviluppa capacità visive e risposte uniche, che la disabilità non va categorizzata ma compresa… Che tabelle e griglie di valutazione sono strumenti che vanno adattati al contesto e non prigioni in cui fare rientrare la diversità?
Ma soprattutto vorrei dire ai Commissari: «Se mi aveste messa un po’ più a mio agio, avreste potuto “giocarvela” come avete fatto nel 2009, quando mi avete detto: “Signorina, lei è troppo in gamba per avere la 104!”».
Per fortuna che la mia vita è altro e la conosco abbastanza bene per esserci attaccata e per amarla anche quando mi dà delle lezioni difficili da digerire. Dopo la visita ho fatto per sei volte il giro del parco cantando a squarciagola, ho danzato come tarantolata in camera da sola, e sono stata meglio. Poi ho passato una serata con persone stupende, perché sarà che sono ottimista, ma di persone stupende ce ne sono proprio tante in giro, oppure io sono sfacciatamente fortunata ad averne tante vicino a me.
Rimproveratemi per non essermi controllata. Mi dichiaro consapevole oltre che colpevole. Non posso accettare che si svilisca una persona, in nessuna condizione e per nessun motivo. E ho imparato ad essere morbida e a non prendere le cose sul personale. Ma resto umana, le mie ferite bruciano e non ho intenzione di tacere. Va cambiato il paradigma con cui si pensa la disabilità, e anche qui, nonostante tutto, con amore continuerò a combattere.