Ho letto con grandi aspettative l’editoriale di Susanna Tamaro sul «Corriere della Sera» dell’8 gennaio scorso, intitolato Educare, non solo istruire. Contro il buonismo di stato, e attendo anche con interesse gli effetti della nuova fase della riforma scolastica che, tra le altre cose, contiene i livelli essenziali e definisce i titoli necessari per svolgere la professione di educatore.
L’articolo della Tamaro è un’accorata denuncia del pessimo stato di salute del sistema italiano: per chiunque abbia figli inseriti nella scuola pubblica o lavori con e dentro questa disgregata istituzione, è impossibile non condividere le pesanti affermazioni della scrittrice. Ciò che però salta all’occhio a una seconda lettura è la constatazione di chi commenta un fenomeno – in questo caso la perdita del valore educativo della scuola – senza specifici titoli per criticare e senza proporre formule.
La scelta di denuncia di Susanna Tamaro, apparentemente sviluppata attraverso parole di intenso contenuto, è un ottimo esempio di comunicazione che sfrutta il cosiddetto “effetto Forer”, ovvero l’espressione di concetti capaci di generare comprensione e partecipazione emotiva in chiunque li riceva, ma talmente generali da essere, di fatto, privi di significato. Per intenderci, è così che vengono scritti gli oroscopi oppure i discorsi progettati per suggestionare una platea.
In quell’articolo, infatti, così come in molta della discussione accademica e politica sulla scuola, non trovo null’altro che teorie meravigliosamente circolari e, pertanto, sempre vere (la nostra mente tende a preferire le informazioni che confermano le teorie di cui siamo convinti). Insomma: chi dice l’ovvio parlando di malesseri condivisi genera consenso.
Come già suggerito da altri sempre sul «Corriere della Sera», la scuola non ha bisogno di teorie. Una causa fondamentale dei problemi della scuola italiana sta proprio nell’abuso di teorie: le teorie personali, inattaccabili, degli insegnanti e le teorie psicopedagogiche portate da “filoni” di corsi di aggiornamento definiti come multidisciplinari. La scuola ha bisogno di azioni e di persone con le competenze per proporle e il coraggio di nominarle. Meglio ancora se queste persone, invece che un diploma magistrale risalente agli Anni Settanta, seguito da ottime esperienze di scrittrice nel campo della letteratura (come Susanna Tamaro), avessero conoscenza diretta della vita scolastica nei diversi ordini e gradi e la comprendessero dal punto di vista dei dirigenti, degli insegnanti, degli educatori, dei genitori, degli studenti che falliscono, di quelli con bisogni speciali.
Susanna Tamaro mi perdonerà, spero, per utilizzare quel suo articolo come esempio della “manipolazione vuota” di Forer e dell’inutile appello alla “tuttologia” in educazione. Sugli insegnanti dice le stesse frasi che possiamo ascoltare al bar, dove si riscontra l’abitudine italiana di unire al sapore del caffè quello della lamentela: dopo averli “scusati”, poiché deprivati di un adeguato riconoscimento sociale e mal retribuiti, li accusa di aver rinunciato all’autorevolezza propria del loro ruolo, quello educativo.
Ma cosa si intende per educazione? A cosa si riferisce Susanna Tamaro, parlando dell’educazione che dà la famiglia, quella che dà – o dovrebbe dare – la scuola e quella che proviene dalla società? Non lo sappiamo. Nessuno lo sa.
Del resto la scrittrice rappresenta la generazione a partire dalla quale la qualità della scuola italiana ha iniziato un inesorabile declino. Le generazioni di insegnanti formatesi dagli Anni Settanta ad oggi sono state esposte a continue proposte di aggiornamento di tipo psicodinamico e psico-cognitivo, che ne hanno snaturato la definizione professionale.
Chiediamo a un qualunque professionista dell’educazione, oggi, in cosa consista il suo lavoro: vi parlerà di scopi sociali, di interventi sullo sviluppo dell’individuo, di valutazione globale dei bambini e delle bambine. La scuola, da quasi mezzo secolo, ha sostenuto il welfare nazionale con la delega implicita di fungere non solo da luogo di apprendimento, ma anche da ente sociale e sanitario; ne deriva che l’insegnante dovrebbe avere competenze di psicologia clinica e dello sviluppo, di comunicazione strategica, di mediazione socio-culturale, di abilitazione neuropsichiatrica. La grande assente, però, tra le competenze richieste oggi a quell’insegnante snaturato, forzatamente mediocre e classista descritto da Susanna Tamaro, è la capacità di insegnamento.
Come psicologa e ricercatrice di Pedagogia Scientifica – insomma, come precaria dell’Università Italiana – osservo la realtà surreale dei colleghi psicologi e dei tecnici sanitari che, sempre più, insegnano a leggere, scrivere e contare a bambini e ragazzi i cui insegnanti si occupano di «valutarli come persone nella loro interezza», «aiutarli a crescere come individui cognitivamente sani», «sostenerli emotivamente, considerate le criticità familiari». In altre parole, la scuola si comporta come un ente con competenze di psicologia, medicina e scienze sociali, mentre i professionisti di questi settori si preoccupano di insegnare a bambini e famiglie in difficoltà gli aspetti concreti delle prestazioni su cui la scuola “mette il voto”.
Nel Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia in cui – sostituendo questo o quel professore – ho l’opportunità di insegnare a futuri insegnanti le tecniche di gestione della classe, le modalità efficaci di presentazione dei materiali didattici e le evidenze scientifiche sui metodi per ottenere il massimo apprendimento da tutti gli studenti, ci chiediamo insieme come sia possibile che, nel percorso di formazione di un maestro, non ci sia un solo esame di tecniche d’insegnamento, una sola opportunità di imparare cosa fare in classe.
Susanna Tamaro suppone che tutti abbiamo un’ idea condivisa di “buona educazione”. Basta però una semplice analisi empirica per scoprire che le definizioni sull’educazione sono numerose quanto i teorici che ne scrivono, i genitori, i bambini e gli insegnanti.
Su cos’è un insegnante efficace, invece, è più facile convenire attraverso l’osservazione dei risultati. Un insegnante che sa insegnare, che non è costretto a rielaborare da sé teorie psico-pedagogiche somministrate attraverso corsi e letture, ma che ha ricevuto formazione pratica, potrebbe ridefinire la sua professionalità, eliminando l’ assurdo portato da una forzata multidisciplinarietà o, meglio, da un’intrinseca “tuttologia”.
Essendo in possesso di abilità pratiche basate sulla ricerca applicata, definite «tecniche d’insegnamento predittive di efficacia», questo insegnante non avrebbe problemi di autorità o autorevolezza, semplicemente perché saprebbe insegnare, ovvero esercitare con competenza l’aspetto centrale della sua professione. Certo, dovrebbe rinunciare a esprimere valutazioni nei settori esterni alla sua competenza, con i quali potrebbe però operare in sinergia.
La scuola è in crisi d’identità, ma non è una seduta di psicoterapia, un trattamento cognitivo-comportamentale o un ripensamento teorico a poterla aiutare. Aiuteremo la scuola solo aiutando gli insegnanti, è vero, ma per aiutarli dovremo invitarli a ripensare che lo scopo primario della loro attività è l’insegnamento.
L’Educazione è un concetto, un “tutto” vago, un caos nel quale l’eccellenza e il danno possono essere opinioni. L’Insegnamento, invece, è una professione. Quanto si educa non è misurabile, ma quanto si insegna lo è: che sia questa la grande ipocrisia della scuola e di chi ne parla? Quale insegnante, oggi, sarebbe disposto a mostrare ciò che fa e lasciarsi aiutare o correggere da un esperto in grado di mostrargli tecniche più efficaci o veloci? In Italia, persino chi denuncia i problemi consapevolmente, mostra spesso di avere più desiderio di discuterne che idee per risolverli.
Anche ai miei pazienti piace più essere ascoltati che iniziare a intervenire, in pratica, sui problemi che lamentano: è normale. Se volessi il loro consenso, userei il citato “effetto Forer”, se volessi contribuire al cambiamento, ci alzeremmo insieme dal divano e andremmo a provare nuove azioni, registrandone gli effetti (la memoria inganna almeno quanto le teorie).
Qualcuno dovrebbe chiedere agli opinionisti, ma soprattutto ai genitori e agli insegnanti italiani: cosa volete? In questo modo sarebbe possibile riportare alle professioni d’aiuto il compito di valutare e curare, e a quelle pedagogiche il compito di insegnare.
L’analisi del costante peggioramento delle prestazioni degli studenti italiani suggerisce di restituire ai professionisti della salute la responsabilità dello sviluppo fisico, neurologico e cognitivo di bambini e ragazzi, ai servizi sociali la responsabilità dell’integrazione e del sostegno familiare, agli psicologi la cura della persona in termini di comportamenti, emozioni e relazioni, ai pedagogisti le proposte educative (e agli scrittori la narrativa).
Abbinare nuovamente competenze e professioni, nel nostro Paese, non sarebbe un percorso riduzionista, bensì una necessaria azione di integrità che, finalmente, distinguerebbe le “vittime” dai “complici” del declino di un’istituzione fondamentale – la più importante per il futuro – della nostra società.