Pasqua 2017, ore 12 circa. Esco di casa per andare a pranzo con parenti e amici. E con i miei immancabili angeli custodi, i miei genitori. Uscire dal portone comporta meccanismi semplici, ma sincroni: mettere una rampa mobile davanti al gradino dell’entrata, abbassare lo schienale della mia poltrona, percorrere lo scivolo, accostare, dare tempo di togliere lo scivolo, salire sul sollevatore posteriore del furgone per entrarci…
Mentre si compie il rituale, arriva un taxi, ferma nell’adiacente parcheggio riservato per un altro condòmino con disabilità e succede l’imprevedibile.
C’è intorno a me un viavai di familiari. Pochi, ma buoni. Nel vorticare mi cade lo sguardo sul tassista che si ferma nel posto riservato e nominativo. Scende dall’auto per tirare fuori i bagagli dei clienti dal cofano posteriore, frattanto che i passeggeri, un gruppo di giovani presumibilmente stranieri, escono e mi si avvicinano. Credo entreranno nel portone del mio condominio, ma non mi soffermo perché avvolto dal meccanicismo delle operazioni di imbarco. Scorgo il tassista che sale in macchina e parte.
Sono lì che traffico per passare dalla pedana del sollevatore del furgone al suo interno e il tassista, a piedi, arriva da noi. Da come lo avevo intravisto trattare i clienti, mi sembrava una persona simpatica e dalla premura con cui aveva tolto la macchina dal parcheggio riservato, dove era suo diritto fermarsi il tempo per far scendere gli occupanti l’automobile, mi era parsa una persona oculata. Oppure di fretta. Ma l’istinto mi induceva a propendere per la persona avveduta più che frettolosa.
Beh, sono lì che armeggio con il joystick davanti al mento per fare avanzare la carrozzina e questo tale ricompare con un discreto sforzo da contorsionista per mostrarsi in volto, stringere la mano a mio padre e dire gioiosamente: «Buona Pasqua anche a chi è più sfortunato di noi!». E ha il volto della bontà. Dell’onestà dell’adulto da cui tracima la spontaneità del fanciulletto. Niente ipocrisia, insomma. Men che meno formalità.
Se ne va, appena il tempo per noi di ricambiare velocemente l’augurio. E io sono contento. Proprio io, severo censore del concetto del “più sfortunato”. Perché se nasci con il mondo, anche quello imperscrutabile, che ti rema contro, non è sfiga ma concatenazione di eventi, società infausta o divinità distratta.
Mi piace che in un giorno di festa, ma anche in uno qualsiasi, una persona si impadronisca di un momento di tempo per prendersi cura di un altro. Per un saluto a uno sconosciuto. Mi piace che uno si tolga di mezzo da una zona di intralcio, per ricomparire in una zona aliena ove rivelare i suoi sentimenti migliori.
E se l’impulso all’umanità fosse stato più forte del qualunquismo dell’affare della prossima corsa, forse sarebbe stata un’azione ancora migliore. Ma importa? Apprezzo che questa persona abbia avuto voglia di fare gli auguri a qualcuno che riteneva avesse bisogno di sentire il conforto della società. Non è pietismo. Semmai è pietà. E fra i due atteggiamenti c’è di mezzo un fiume. E si chiama amore.
Non saprò mai se quel signore abbia capito che mio padre era mio padre oppure un accompagnatore qualunque. Non saprò nemmeno se si è rivolto più a me o a mio padre. E neppure saprò se tornato a casa abbia parlato con qualcuno della sua buona azione e in che termini. Fatto sta che mi accompagnerà nella mia esperienza di vita e nei racconti che ne farò. Perché l’umanità può usare le parole sbagliate, ma non è morta. Grazie, signor tassista sconosciuto.