Capita raramente di trovare anime preziose, capaci di trasmettere emozioni profonde con poche parole, di tratteggiare pensieri con un tocco lieve ma netto. Paola Tricomi è una di queste, una giovane donna e poetessa, dottoranda della Normale di Pisa nel corso di Letteratura, Arte e Storia dell’Europa Medioevale e Moderna, autrice di libri di poesie quali La voce a te donata (2017), Il nome del nulla (2013) e Nel cuore – En thumò (2009).
Durante i nostri pomeriggi di chiacchiere a distanza, divise dai chilometri, ma unite da una trama di pensieri, abbiamo deciso di interrogarci a vicenda su alcuni temi a noi cari, legati alla disabilità e al nostro modo di rapportarci ad essa.
Ne è venuto fuori il seguente dialogo a due voci.
Da Francesca a Paola
Cosa è per te la libertà? Fino a che punto la disabilità mina la tua libertà?
«Mi piace imparare dagli altri a trovare risposte. Una me l’ha suggerita la psicologa Marta Osti quando ha detto: “La mia libertà sta nella mia capacità di sapermi affidare agli altri”. È una grande lezione che purtroppo non ho imparato del tutto, per vari motivi legati al modo in cui sono cresciuta ed è difficile estirpare. Mi sforzo però di migliorare e lo sforzo non si immagina mai bene quanto sia grande.
Al momento la mia libertà è l’imposizione della mia volontà spesso a sfavore della libertà degli altri: i miei familiari che mi seguono e mi aiutano. Spesso la libertà mia coincide con un forte atto di egoismo a cui non posso rinunciare. In questo ha una grande responsabilità lo Stato, che non mi aiuta minimamente, che non mi fornisce alcuna assistenza. La mia disabilità mi rende assolutamente incapace di fare alcun movimento, ma questo non vuol dire che io non sia libera. La libertà è tutta nella mente e nella volontà: in questo davvero non ci sono limiti. La mia libertà infatti non è minata dalla mia condizione, ma dall’atteggiamento degli altri verso di me, gli altri che formano il mondo. La maggior parte delle cose che ho fatto, altri le credevano assurde e improbabili, ma io le ho fatte con grande naturalezza. La maggior parte delle cose che non sono riuscita a realizzare hanno trovato solo il limite dello sguardo del mondo di cui tutti abbiamo necessità».
Rispetto alla tua disabilità, quali ostacoli incontri nell’affermarti come studiosa e professionista nel tuo campo?
«Sono molti i muri. Ci sono le barriere reali, quelle mentali, la tempistica rallentata della mia vita, l’obbligo di fermarsi o di trovare strade alternative per giungere ad un obiettivo. La cosa più dura, però, è la credibilità: che nulla di ciò che fai sia condizionato dalla tua immagine nel giudizio dei colleghi o lettori. Perché se raggiungi degli obiettivi, c’è sempre qualcuno che li relaziona alla tua condizione. Se fallisci o sbagli, c’è sempre qualcuno che dice “anzi, però, nonostante”. Il giudizio neutro si ottiene solo anteponendo i tuoi lavori, la parola alle personalità e identità. Per questo amo la parola dietro cui mi nascondo per presentarmi davvero io. Però in sé lo studio è libertà, è bellezza, è il mondo in cui trovo la mia vera identità e in cui mi realizzo. Lo studio nobilita, aiuta a capire, a sentire ed essere cosciente. Essere cosciente in pieno: ovvero consapevole del lato positivo e negativo di ogni situazione. “Sapere è potere”, poter fare: aiuta a trovare lo strumento per raggiungere ciò che vuoi. Tanto ho dovuto combattere per poter continuare a fare questa cosa, che mi fa stare bene: studiare cioè amare».
Ti sembra che le persone non vedano qualcosa in te, di ciò che tu sei, a causa della disabilità?
«Gli uomini non vedono la persona, purtroppo. Vedono sempre la disabilità. A volte, dopo la conoscenza la dimenticano, ma quando il rapporto è davvero intimo, la disabilità è una presenza inestinguibile. In senso positivo e negativo. L’avvilente è questa necessità che avvertiamo noi disabili di fare sempre qualcosa che ci permetta di sfuggire a questa immagine monolitica del disabile di chi non ti conosce. Se riuscissimo a venirne fuori, forse di riflesso migliorerebbe anche lo sguardo altrui che ci colpisce per la prima volta. Forse il miglior modo per far vedere ciò che si è, è semplicemente essere se stessi».
Pensi che la tua vita, il tuo talento e le tue capacità creative sarebbero state le stesse se tu non fossi stata una persona con disabilità?
«Cosa sarei stata io senza l’atrofia muscolare spinale (SMA)? Ho fatto una poesia in cui io parlo con colei che sarei stata da sana e sono giunta alla conclusione che non sarei stata io. Non è un giudizio negativo, anzi. C’è dentro la consapevolezza che la mia è per me la migliore delle vite possibili, per il semplice fatto che io la amo insieme alle sofferenze che comporta. Tutto è conseguenza di conseguenza e non posso esserci io fuori dalla mia storia senza essere un’altra persona. Forse questo qualcuno avrebbe avuto qualche caratteristica a me somigliante, ma non sarebbe me e non avrebbe mai percorso le strade che ho percorso io, nel modo in cui ho fatto io, producendo ciò che ho prodotto».
Pensi invece di avere avuto la possibilità di avere delle “ricchezze” dal tuo vivere la disabilità?
«Io credo profondamente che qualunque esperienza della vita sia portatrice di ricchezze. La mia esperienza è straordinaria ad ogni attimo quasi come una favola. Ho imparato il dialogo col silenzio, il nutrirsi dell’essenziale, la felicità illogica, l’importanza dell’illogicità, la diversità come potenziale. La lista è davvero lunga e spero di poterla lungamente continuare a raccontare nelle mie poesie e in tutto ciò che faccio».
Da Paola a Francesca
Cos’è per te la disabilità e la diversità?
«La disabilità non è altro che un modo differente di vivere e fare le cose, certamente un modo spesso limitato, ma solo se riferito alla “norma”, cioè a parametri stabiliti su altri, su uno standard che non mi appartiene. Così come la diversità non è altro che una prospettiva differente, ma a stabilirlo è sempre una mera valutazione numerica e statistica. Chi stabilisce cosa sia “normale”? È davvero solo una questione di prospettive e di contesto. Di conseguenza, ho sempre pensato e vissuto la mia disabilità come un modo differente di fare le cose, perché è in questo modo che mia madre, da piccola, mi ha trasmesso quello che poi sarebbe stato il mio percorso di vita. Ed è una visione che certamente mi ha aperto molti orizzonti».
In che cosa, a tuo avviso, il mondo sbaglia di più nel dipingere una persona con disabilità e nel rapporto con lei?
«Credo che l’errore più grande stia proprio alla base, in quella definizione stigmatizzante di “un disabile” nella quale pensare di voler incasellare chiunque si trovi ad avere un deficit, ma che davvero non dice niente della persona, delle sue idee e aspirazioni, della sua personalità o carattere. L’errore sta nel pensare di poter interpretare gli altrui pensieri e desideri, le altrui caratteristiche solo attraverso una definizione e una etichetta. La disabilità non è altro che uno degli aspetti, ci si dovrebbe semplicemente mettere in posizione di ascolto e curiosità verso tutto ciò che sta intorno».
Come dovrebbe essere per te un mondo ideale in relazione alla disabilità?
«Ho sempre immaginato un mondo ideale rispetto alla disabilità come un universo progettato per essere flessibile, funzionale, non tarato sull’Uomo Vitruviano, ma capace di modularsi su diverse esigenze. Un ambiente progettato secondo i criteri dell’Universal Design, accogliente, tarato su chi ha una visione differente come i bambini e le persone con disabilità, così da renderlo più accogliente per tutti. E infine, sarebbe un mondo capace di abbandonare gli stereotipi, per interrogarsi, confrontarsi e considerare ogni aspetto differente come peculiare e non secondo una scala di normalità e normalità».
Se si dovesse fare un ipotetico manuale di istruzioni per chi vive la disabilità, quali priorità metteresti in evidenza?
«Bella domanda. Penso che la cosa più importante dalla quale partire sia la costruzione di una propria identità forte, più strutturata possibile. Quello che capita alle persone con disabilità, di solito, è di viversi come filtrati attraverso le altre persone, coloro che ci aiutano, coloro che ci stanno sempre intorno per ragioni di necessità. È difficile costruirsi un’identità salda, fatta di gusti, aspirazioni, carattere e capacità di autodeterminarsi, quando tutto viene filtrato attraverso la disponibilità altrui ad aiutarci, accompagnarci, rendere possibili le nostre azioni quotidiane. Per questo occorre restare saldi, avere una sana dose di egoismo e lottare per non farsi schiacciare dalle aspettative di chi vorrebbe sempre aderissimo a uno schema rassicurante legato alla disabilità».
Cosa vorresti raccontare sulla disabilità che a tuo avviso il mondo non sa?
«Non c’è un aspetto in particolare, vorrei solo che il mondo ascoltasse di giorno in giorno ciò che abbiamo da raccontare, in modo sempre meno clamoroso, pietistico o legato al bisogno di storie strazianti o piene di eroismo. Ecco, mi piacerebbe raccontare la quotidianità, la bellezza dei gesti comuni, il bisogno di vivere vite appagate fuori dai riflettori».