«Sono nato a Rho, in provincia di Milano, e dal 1966 al 1993 ho abitato là. Avevo 27 anni quando ci siamo trasferiti a Falconara (Ancona), dopo che i miei genitori sono andati in pensione. Sono figlio unico, ho 50 anni e dal marzo del 2015 abito da solo. Ho una distrofia muscolare che si è manifestata nei primi anni di vita. Ho smesso di camminare all’età di 9 anni e da lì ho iniziato a stare in carrozzina»: si presenta così Roberto Frullini, presidente della Fondazione Dr. Dante Paladini di Ancona e di FederSolidarietà delle Marche, protagonista di questa lunga intervista.
Come è stato doversi sedere in carrozzina da bambino?
«Non è stato traumatico, è stato positivo, perché la malattia porta a un decadimento muscolare progressivo, per cui prima di arrivare lì era un continuo cadere, farsi male, una fatica incredibile per stare in piedi, spostarsi, e alla fine sognavo letteralmente quella sedia con le ruote perché non ne potevo più. È stata una liberazione!
Anche rispetto ai compagni non ricordo un grande cambiamento; fino alla quarta elementare ogni anno ho cambiato classe, perché si riducevano le sezioni, quindi, arrivato in quarta, i nuovi amici mi hanno visto già in carrozzina».
Come è stato il decorso della malattia?
«La prima diagnosi è stata verso i 6 anni e mi avevano detto che si trattava della distrofia muscolare di Duchenne, ma la diagnosi definitiva mi è arrivata solo recentemente, perché dal punto di vista sintomatico sono sempre stato un “borderline”. Col tempo la progressività si era ridotta, il quadro quasi stabilizzato e i medici si erano insospettiti. La mia, quindi, è una delle tante forme di distrofie dei cingoli, la cui possibilità diagnostica è venuta fuori negli ultimi anni. E del resto, ogni test genetico che avevo fatto rispetto alla Duchenne aveva sempre dato esito negativo, per cui quella non era, ma cosa effettivamente fosse non si capiva, certo, era una distrofia.
La prima diagnosi me la fecero all’Ospedale San Carlo di Milano, un fisiatra che si chiamava Boccardi, poi da lì l’impegno a fare riabilitazione. Tuttora faccio terapia due volte alla settimana, sono 43 anni, e ormai mi ritengo io stesso un esperto fisioterapista!
La situazione si è complicata in età adulta con la gestione respiratoria. Da piccolino facevo fisioterapia due volte alla settimana, prima in ospedale o nel centro di riabilitazione vicino, poi a domicilio. In quel periodo non ho mai usufruito di servizi, non abbiamo mai chiesto niente che non fosse sanitario. C’è stato un momento, verso gli 11 o 12 anni, in cui avevo difficoltà a costruire relazioni, non volevo uscire, ma poi sono intervenuti i ragazzi della parrocchia e si è risolta così, oltreché con due sberle di mia madre! Prima lei stessa si era accertata dell’esistenza di un gruppo giovani in oratorio e avevano stabilito di venirmi a prendere la domenica; il prete si era inventato che dovevo fare il bigliettaio del cinema e così sono stato coinvolto. Mamma è sempre stata una donna forte!
Attualmente passo gran parte della mia giornata in carrozzina con l’assistenza continua di almeno una persona, e per respirare correttamente devo utilizzare un ventilatore 24 ore al giorno, ma con modalità non invasiva. Riesco quindi a svolgere ancora una discreta quantità di attività, anche se indubbiamente inferiori ad alcuni anni fa».
Come nasce l’ esigenza di vivere da solo e come hai preparato il percorso che ti ha portato ad oggi?
Seguo il “Progetto Vita Indipendente” della mia Regione da molto tempo [come sottolineato su queste stesse pagine dal Comitato Marchigiano per la Vita Indipendente delle Persone con Disabilità, attualmente sono attivi nelle Marche 76 progetti stabili di Vita Indipendente, con altre 131 persone che hanno partecipato o stanno partecipando alla Sperimentazione Ministeriale, le quali però, in mancanza di una Legge Regionale, rischiano di dover regredire alla loro precedente situazione, N.d.R.]. Nelle Marche fu costituito un gruppo di lavoro ad hoc da Marcello Secchiaroli, allora assessore regionale ai Servizi Sociali, insieme a me, a Fabio Ragaini del Gruppo Solidarietà e a Giuseppe Forti, allora responsabile dei Servizi Disabilità del Comune di Fermo, oltre ai responsabili regionali. Non fu semplice creare le condizioni culturali per consentirne l’avvio, e in fondo ancora oggi è necessario ricordare in ogni sede che l’autodeterminazione è un diritto universale e che è molto più etico ed efficace destinare risorse per consentirci una vita attiva, piuttosto che spendere migliaia di euro per parcheggiarci nelle strutture residenziali.
Il progetto io lo sperimento stando a casa; all’inizio avevo due assistenti, uno mi serviva per uscire di casa, fondamentalmente per il pomeriggio, mentre alla mattina avevo un assistente domiciliare del Comune. Poi, con l’andare del tempo, ho chiesto un assistente anche per la mattina, che sostituisse l’impegno dei miei genitori, anche se continuavo a vivere con loro, ma tutto ciò che era l’ordinario (fare la spesa, fare cambi di stagione, cosa mangiare…) se lo gestiva mia madre, per cui io non ne ero preoccupato; l’assistenza mi serviva per i miei impegni fuori casa, ogni assistente guidava la mia macchina attrezzata. I miei genitori era tempo che avessero una vita loro, vedevo la loro stanchezza, così ho scelto di fare questo passo.
Non è stato un processo semplice per loro da accettare, perché voleva dire “non serviamo più”, “non siamo più capaci di prenderci cura di nostro figlio” e lasciarmi andare. Quindi, insieme agli assistenti abbiamo costruito un’organizzazione giornaliera in base alle disponibilità. Ho attrezzato l’appartamento sopra ai genitori, un piccolo monolocale in cui ho bagno, cucina, stanza da letto e un altro monolocale vicino che fa da magazzino e appoggio per gli assistenti.
Attualmente ho sei assistenti che si turnano, più i miei genitori il sabato o la domenica pomeriggio. Alcuni assistenti vengono poi sostituiti anche dal Servizio Civile della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Il costo del personale è sostenuto soltanto per un quarto dal “Progetto Vita Indipendente”, il resto tra me (le mie pensioni) e i miei genitori: il costo è sui 4.000 euro al mese. L’assistenza ovviamente è anche di notte.
Praticamente ora vivo qui e lavoro molto da casa. La spesa è tanta, ci vogliono almeno 3.000 euro per gli assistenti e 2.000 per me. È chiaro che questa non può essere una scelta per tutti. Se io non volessi spendere tutti questi soldi, mi dovrei far ricoverare in una struttura regionale, una residenza sanitaria per disabili, con un costo giornaliero oscillante tra i 200 e i 300 euro al giorno (6.000/9.000 euro al mese)».
Cosa fa un assistente con te, quali sono i tuoi bisogni?
«Anzitutto lo accompagno per fasi, perché un assistente nuovo deve imparare tante cose, io ho bisogno di tutto; la parte più pesante è la mattina, quando c’è da vestirmi, e ci vogliono almeno due persone. Di notte ho bisogno di movimentazione ogni tanto; chi fa la notte, poi, alle 8 va a casa, ed entrano in turno due assistenti di mattina. Mi alzano alle 7.45 circa, chi ha fatto il turno della notte prepara la colazione e mi mette seduto; dopo la colazione, mi posizionano in bagno per espletare i bisogni e la cura della mia persona, nel frattempo c’è chi prepara la camera, i vestiti, chi ripulisce casa, poi mi lavano, mi vestono, un giorno alla settimana faccio la doccia con tre assistenti, una volta vestito, il secondo assistente va via. Siamo arrivati quindi alle 10.30, quando per due volte alla settimana viene il fisioterapista. Poi c’è da pensare a cosa cucinare, se fare la spesa. Io faccio la lista delle cose da comprare, a volte vado anche a fare la spesa, dipende dagli impegni della giornata. Quindi c’è il pranzo e qui per mangiare ci impiego quasi due ore. Ora mangio tutto frullato per via della disfagia e questo mi richiede di stare concentrato senza distrazioni: ogni pasto è una grande fatica! Se in questo momento potessi alimentarmi con una pasticca, io lo farei, potrei anche rinunciare a mangiare, è talmente tanto il carico di ansia che ho quando affronto il pasto che lo preferirei.
Quindi la mattina, fino al pranzo, passa in questo modo e i miei tempi attivi oggi sono ridotti dalle 15 alle 19; se devo fare spostamenti, vuol dire che faccio un terzo delle cose che facevo prima quando abitavo con i miei. Devo dire pure che da due, tre anni la mia resistenza fisica si è ridotta, mi stanco prima, faccio più fatica a parlare. La sera, poi, entra in turno un solo assistente».
Torniamo all’infanzia. Le scuole le hai fatte tutte a Rho, come ti sei trovato?
«Sempre bene. Allora non c’era niente. La prima elementare l’ho fatta nel 1972, non c’era ancora il sostegno. Nell’81 le medie. Nel ’90 mi sono laureato. Ho scritto autonomamente fino all’università, quindi non ho avuto bisogno di assistenza scolastica, anche se avevo i miei tempi. Prendevo gli appunti degli altri quando avevo bisogno. Difficoltà l’ho avuta alle medie, sul disegno tecnico, artistico, il braccio io lo trascinavo sul banco e facevo un pasticcio. Arrivavo in classe e c’era sempre qualcuno che mi dava una mano, io chiedevo sfacciatamente aiuto, a volte ero anche scortese. Le ragazze mi dicevano sempre di sì… istinto materno, credo! Per il bagno mi aiutavano i bidelli e poi mio padre spesso interveniva per le esigenze diverse. Avevo anche questa fortuna, che per cinque ore mi trattenevo senza difficoltà!
Il pomeriggio stavo a casa, con gli amici del palazzo, casa mia era abbastanza un via vai. A quel tempo, di sport per le persone in carrozzina c’era qualcosa all’Unità Spinale vicino a Rho, chi faceva atletica, basket, ma io non ho fatto niente. Facevo l’allenatore ai miei amici, quando organizzavano tornei di calcio, così per gioco».
Anni Novanta, gli anni dell’Università…
«Finite le superiori di ragioneria, abbiamo provato in quattro amici a fare il test di ammissione ad Economia Aziendale, l’ho passato solo io e ho preso quella strada per quattro anni.
A scuola sono stato sempre abbastanza bravo, diciamo che riuscivo ad evitare le mie tentazioni, mi convincevo facilmente che prima dovevo studiare poi mi potevo divertire. Mi accompagnava sempre papà, la fortuna è stata che non era più dipendente in fabbrica, aveva rilevato un’attività commerciale e aveva una certa flessibilità oraria; inoltre i rapporti coi grossisti li aveva a Milano, per cui quando dovevo andare a lezione, lui ci abbinava i suoi giri di lavoro».
La vita a Milano com’era? Eri già dentro l’associazionismo?
«A Rho non c’era niente per le famiglie disabili, così (ancora minorenne) ho convinto mio padre a fondare un’Associazione, che avevamo chiamato “Coordinamento dei genitori per bambini handicappati”. Erano gli Anni Ottanta, Rho è una città grande, 50.000 abitanti, e non aveva nulla per la disabilità, ma non è che non ci fossero disabili o che non ci fosse il problema, solo non ci conoscevamo. Oggi questa Associazione è diventata una Cooperativa, si chiama L’Arcobaleno.
In quel periodo ho conosciuto un altro ragazzo paraplegico e quelli che incontravo in terapia, però anche lì erano incontri sporadici. L’Associazione nel tempo è diventata punto di riferimento per le famiglie con le più svariate disabilità, anche con disabilità intellettive, per cui abbiamo risposto anche all’esigenza di queste, realizzando un Centro Diurno che non esisteva, poi un secondo, una Comunità Residenziale, vacanze, un po’ di tutto. Siamo stati in questa Associazione finché non ci siamo trasferiti nelle Marche.
Sono stati anni di grande fermento, avevamo costruito una rete di rapporti con i Comuni, altre Associazioni, la Federazione LEDHA a Milano [la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che oggi costituisce la componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, N.d.R.]».
Questa esperienza poi nel tuo percorso a cosa è servita?
«Ho cominciato a fare il presidente dell’Associazione a vent’anni. Facevamo tante attività, tra cui il tempo libero, anche se io avevo la mia vita autonoma e non frequentavo molto l’Associazione per questo; poi riunioni, direttivo, festa annuale. Ecco perché sono stanco ora, sono trent’anni che faccio riunioni, è normale che mi porti dietro il mio vissuto, per cui non ho lo stesso entusiasmo dei giovani che iniziano adesso; a volte sono cinico, o disilluso, e vedo la differenza coi giovani.
Negli anni giovanili miei, in cui non c’era nulla, si viveva “di barricate”, c’era il “deserto” e noi eravamo consapevoli di star seminando e raccoglievamo i frutti del lavoro. Oggi è diverso, sembra quasi non ci sia interesse ad approfondire le questioni, i diritti, come funziona il sistema. Una volta, invece, davvero la gente non sapeva, non conosceva ciò che riguardava i propri diritti. Le strategie di un tempo non funzionano oggi per avere l’attenzione degli altri».
Parlaci del lavoro…
«A Milano ho lavorato come imprenditore insieme ad altri tre amici, in un’attività nel settore informatico. Ho fatto poi consulenza come commercialista, e avevo tutta la parte legata alla Cooperazione Sociale. Avevamo costituito una Cooperativa Sociale di tipo B che si chiamava GPII, ci occupavamo di assemblaggio, inserimento dati e imbustamento, prima ancora della Legge Nazionale 381/91 [“Disciplina delle Cooperative Sociali”, N.d.R.], perché in Lombardia era uscita già una Legge Regionale.
I miei genitori, poi, finito il lavoro in fabbrica, si misero a fare i commercianti e alla loro pensione decidemmo di trasferirci a Falconara. L’idea di trasferirmi non mi preoccupava, anche perché nelle Marche ci venivo in estate e avevo conosciuto molte persone. Nel frattempo la malattia proseguiva e quando mi sono trasferito, usavo già il ventilatore durante la notte. Dopo alcuni anni ho iniziato a usarlo anche di giorno e oggi sono quindici anni che lo uso tutto il giorno.
Per il lavoro provai a ricominciare come commercialista, ma non avendo conoscenze locali non trovai risposte: la categoria dei commercialisti è abbastanza difficile! Nel frattempo ho conosciuto Amilcare Romani, papà di un ragazzo con disabilità, punto di riferimento per le famiglie di questo territorio, che faceva parte dell’AIAS di Ancona (Associazione Italiana Assistenza Spastici). Quindi ho conosciuto i ragazzi della Cooperativa Sociale che avevano fatto nascere il Centro Diurno di Falconara. Sono entrato nell’AIAS, una parentesi di due anni, poi ho contattato la sede locale della UILDM di Colle Marino (Ancona) ed è iniziata la mia vita lì. Era il ’96 o giù di lì.
Entrato nel Direttivo dell’Associazione, ne sono stato il Presidente per uno po’ di anni, entrando poi nel Direttivo Nazionale della UILDM come Consigliere, occupandomi in particolare del “Progetto Vita Indipendente”».
Come Presidente della UILDM di Ancona cos’hai portato avanti negli anni?
«Quando sono entrato la UILDM, l’Associazione era all’essenziale: riunioni, aggiornamenti legislativi e poco altro. Allora abbiamo iniziato a dar vita alla rivista “Visione”, ad acquistare un pulmino, abbiamo organizzato degli eventi con la Consulta Regionale per la Disabilità delle Marche, abbiamo introdotto gli obiettori di coscienza e poi il servizio civile, abbiamo dato vita alla squadra di hockey in carrozzina, una realtà sportiva agonistica che vive ormai da una quindicina di anni.
Attualmente nella UILDM girano tante persone e sicuramente ad oggi c’è un bel movimento, che coinvolge famiglie da tutto il territorio regionale. Quello che noto nelle Marche, a differenza che in altri territori, è che la vita dentro le Associazioni è particolare, le persone si mettono insieme, ma in realtà fanno fatica a starci, c’è sempre una ragione inconfessata per cui vivono l’Associazione, una mancanza di fiducia che aleggia e devo dire che per questo respiro una grande fatica: c’è sempre chi deve trovare il difetto, la negatività, la paura del raggiro… C’è un clima in generale che è cambiato rispetto ad alcuni anni fa, ma questo lo vivo in tutti gli ambienti che frequento, dall’associazionismo, alla politica, alla cooperazione».
Tu sei stato sempre una persona molto impegnata…
Ho fatto il Consigliere Comunale di Opposizione per due anni qui a Falconara col partito dei Verdi e con questa esperienza ho toccato la miseria degli uomini che fanno politica. La filosofia di fondo che regna nel comportamento di tutti è che se un’idea buona viene dall’Opposizione va comunque bocciata, anche se è la migliore. Un’esperienza durata comunque poco.
Ho iniziato a frequentare la politica regionale prima della Consulta per la Disabilità [Consulta per la Disabilità della Regione Marche, Legge Regionale 18/96, “Promozione e coordinamento delle politiche di intervento in favore delle persone in situazione di handicap” articolo 6. Norma modificata dalla Legge Regionale 28/00, N.d.R.], appena uscita la Legge regionale 18 del 1996. Decisi di fare un articolo sulla rivista “Visione” e così andai in Consiglio Regionale a intervistare Marcello Secchiaroli, consigliere regionale. Di lui ho un buon ricordo, è stato un politico in cui ho trovato passione, la fatica dell’elaborazione teorica, la voglia di lavorare e di fare. Nel bene e nel male, i suoi cinque anni di Assessorato rimangono comunque un’“oasi” nella Regione Marche. Nonostante le mediazioni, che anche con lui necessariamente abbiamo dovuto fare, era un interlocutore di livello, trovavamo ascolto, avevamo lo stesso linguaggio, ci confrontavamo nel merito delle questioni.
Oggi la cosa più triste è che l’interlocuzione politica non c’è. Paradossalmente, più è aumentato il livello di advocacy [“tutela”, N.d.R.] esterna, più si è abbassato il livello della competenza tecnica di chi governa e gestisce i servizi, per cui ci si defila dal confronto.
Con la Consulta Regionale ho fatto due mandati come presidente, poi nel 2001 è nato il CAT (Comitato Associazioni Tutela), un Comitato Regionale di Associazioni di Volontariato a tutela delle persone più deboli. Abbiamo cercato, con Fabio Ragaini del Gruppo Solidarietà, di costituire a livello regionale un organo che potesse portare le istanze delle Associazioni, tutelare i diritti, seguire l’applicazione della normativa regionale.
Quello che manca è una politica regionale di intervento sulla disabilità, un welfare con una scala di valori che dà delle priorità. Queste esperienze regionali di fatto mi hanno fatto riflettere anche sull’associazionismo come dicevo prima, non ci sono esperienze forti di coesione, di partecipazione anche tra di noi».
Passiamo invece alla Fondazione Paladini. Ci spieghi che cos’è?
«La Fondazione è nata nel 2008 in onore del dottor Dante Paladini, per volontà della UILDM di Ancona e dietro l’esperienza di quello che è il Centro Clinico NEMO (NeuroMuscular Omnicentre) di Milano, che è costituito da Associazioni di malati, Associazione di ricerca e di sostegno economico.
L’idea è stata quella di fare un Centro Clinico dedicato alle malattie neuromuscolari anche ad Ancona. La famiglia Paladini è uno dei Soci Fondatori, l’altro è la Fondazione Serena e l’Ospedale di Torrette, che ci ha conferito il locale dove c’è la sede. Nel Consiglio di Amministrazione, inoltre, c’è anche un rappresentante della Regione.
La Fondazione Paladini si prende cura delle persone con malattie neuromuscolari (distrofie, atrofie muscolari, miotonie e anche la SLA-sclerosi laterale amiotrofica), affrontando principalmente il tema delle cure sanitarie per cui avere un centro di riferimento sul territorio a livello regionale che sia multidisciplinare, si propone di garantire sia l’assistenza al paziente affetto da patologia neuromuscolare, sia un percorso assistenziale caratterizzato da un insieme di attività correlate alle vari fasi evolutive della malattia, quanto più completo e integrato possibile tra le professionalità, le organizzazioni di volontariato e i servizi del territorio regionale.
Purtroppo ancora oggi accade che nei reparti ci siano solo medici specializzati in quella determinata disciplina, non c’è una visione di insieme. La Fondazione fa da sportello rispetto sia all’aspetto medico che all’esigenza della famiglia e anche da raccordo con i servizi territoriali.
La popolazione con malattia neuromuscolare in carico a Torrette si aggira attorno alle 400 persone, 150 con la SLA e un centinaio di distrofie; potenzialmente nella Regione contiamo 600-700 persone coinvolte con distrofia a vari stadi. La UILDM cura la parte sociale, il servizio civile, i volontari. Attualmente stiamo lavorando molto per la nascita del Centro NEMO, il che significherà avere nella nostra Regione una struttura specializzata da 14 posti letto, più 2 di intensiva, raccogliendo un bacino di utenza non solo marchigiano, diciamo del Centro Italia.
Per questo passaggio ci sono stati ostacoli in Regione, da parte dei Dirigenti della Sanità, perché forse è considerata una cosa in più, ma in realtà avere un Centro qua significa per molti non spostarsi più fuori Regione, portare l’opportunità di sperimentazione dei trial senza dovere andare a Roma, Milano, Messina, vuol dire occuparsi di infanzia ed età adulta contemporaneamente, vuol dire avere specialisti sotto un unico governo».
Facci capire meglio qual è la cosa più difficile nel rapporto coi servizi sanitari.
«Le difficoltà sono molteplici e di varia natura, a partire dall’assenza di strutture e attrezzature idonee: basti pensare alla difficoltà di reperire un letto elettrico con materasso antidecubito o alle carenze di personale per garantire una qualità adeguata dell’assistenza. In realtà esiste tuttora un modello organizzativo specialistico, un approccio diagnostico molto settoriale e poco permeabile. L’approccio multidisciplinare alle patologie complesse è una rarità ricercata e apprezzata, ma dovrebbe guidare l’azione dei clinici in ogni ambito. Esattamente come un pilota di Formula Uno deve poter contare su un team di meccanici, ingegneri, trainer ecc., ognuno di noi ha bisogno di un gruppo di specialisti guidati da un solo obiettivo, la cura e il benessere della persona. In tutto ciò è fondamentale uno stile di comunicazione bidirezionale e cooperativo, non abbiamo bisogno di qualcuno che scelga per noi se vivere attaccati alle macchine o scegliere un percorso di sedazione fino al decesso, ma di essere informati pienamente e sostenuti in maniera competente nelle nostre scelte terapeutiche».
Attualmente sei presidente della cooperativa Grafica & Infoservice, presidente Regionale di FederSolidarietà e coordinatore di Confcooperative Ancona. Spiegaci un attimo questa tua ampia parte di attività nella cooperazione, nata già a Milano – come hai raccontato – e che continua nelle Marche. A quale bisogno risponde questa esigenza? Che osservatorio hai da questa parte?
«Nella cooperazione ho trovato il terreno ideale per coltivare la mia voglia di autoimprenditorialità e di comunità. Avere un ruolo lavorativo, esprimere un valore aggiunto per la propria comunità, ci rende forti e determinati nel nostro agire quotidiano. Saper costruire relazioni e alleanze è un elemento fondativo della cooperazione, ma anche delle comunità inclusive e rispettose delle diversità.
L’impegno nell’organizzazione di Confcooperative nasce dalla disponibilità all’incontro e dalla condivisione valoriale con altri cooperatori, un’occasione continua di incontro, conoscenza, crescita e miglioramento personale e umano. La cronaca è sempre piena di spunti negativi e scandalistici sulla cooperazione, ma ci dimentichiamo che non sono le forme di aggregazione ad agire scorrettamente, ma gli uomini che le governano. Il nostro Paese è pieno di persone che vivono e lavorano cercando di costruire un luogo ricco di opportunità per tutti, spesso lo fanno riunendosi in aggregazioni libere e paritarie: le cooperative».
Nella tua quotidianità come fai a gestire tutte queste cose: cooperazione, UILDM, Fondazione…
«Ci sono dei momenti in cui faccio molta fatica, ma soprattutto, come ho detto prima, perché da un anno e mezzo per me sono cambiate tante cose: la logistica e i miei tempi di vita. Da quando vivo da solo, sono io che devo pensare a tutto, all’organizzazione “casalinga”, o meglio alla gestione della mia persona: chi mi lava, chi stira, chi cucina, fare i turni del personale che mi serve per vivere, le sostituzioni, far coincidere i tempi degli assistenti, dei loro cambi, turni, ferie, con le mie esigenze lavorative e di tempo libero».
Un’ultima domanda: cosa significa, alla luce della la tua esperienza di vita, la parola “inclusione” per le persone con disabilità?
«In due frasi: “Non dover chiedere per favore, se è un diritto» e “Niente su di Noi, senza di Noi”».