Sappiamo bene che l’autismo è caratterizzato da alcune specificità che lo rendono una tra le disabilità più complesse. Difficile, per chi non lo conosce, comprendere appieno i problemi di una persona autistica non verbale e a medio-basso funzionamento, tanto più quando impatta con contesti che non sono quelli frequentati abitualmente.
In questi casi, ai problemi di comunicazione e relazione possono aggiungersi complicazioni legate a componenti sensoriali e/o di altra natura, che spesso interagiscono tra loro, fino a diventare vere e proprie barriere, che spingono verso una condizione di completo isolamento. Diventano giocoforza inaccessibili molti servizi, crescono le difficoltà a occuparsi di semplici interessi, si complica la gestione dei tempi ecc.
Nelle situazioni suddette, e in altre ancora, può diventare essenziale – al fine di scongiurare il peggioramento di comportamenti all’inizio solo moderatamente disadattativi – il ricorso a forme di riconoscimento, all’esterno, di una disabilità, quella autistica, a torto o a ragione definita “invisibile”. Ma possono le famiglie contribuire al percorso di “identificazione” della patologia? E se sì, come?
La domanda non sembri retorica. Sulla mia pagina Facebook, ad esempio, ho potuto verificare come il semplice fatto che un genitore abbia ventilato la possibilità di rendere in qualche modo riconoscibile la condizione del figlio autistico, per sottrarlo a “difficoltà” e “sofferenze” di vario genere, ha fatto sì che gli si scaricassero addosso critiche e improperi, ai limiti dell’insulto.
Io credo che questa sgradevole reazione, mi sia consentito chiamarla così, sia figlia, innanzitutto, di un blocco psicologico, per non dire culturale, mai completamente rimosso. Si è dinanzi a una sorta di stigma di cui, paradossalmente, sono portatori in primis proprio le famiglie, o per lo meno molte di loro. Vince la paura di etichettare i figli, di rendere visibile il loro handicap, di mostrarlo a tutti. Scatta la vergogna per il disagio relativo al possibile giudizio degli altri, anzi il timore per quello che forse sarebbe più giusto chiamare il pregiudizio: «Questa persona è fuori norma, pone dei problemi che la maggioranza non pone».
In realtà non si comprende che con il termine maggioranza non si rappresenta tutta la popolazione, ma solo la fetta numericamente maggiore. Non tutti, in altre parole, hanno chiaro che se la maggioranza della popolazione cammina senza bastone, non vuol dire che sia “fuori norma” chi a seguito di una brutta caduta ha bisogno di stampelle; o se la maggioranza della popolazione riesce ad affrontare una rampa di scale senza alcun problema, non vuol dire che una mamma con passeggino sia “fuori norma” perché non ci riesce.
Essere parte di una minoranza non significa essere fuori norma, perché la “norma” comprende tutti: maggioranza e minoranze. La “norma” contiene tutta la popolazione, in quanto normalmente nella popolazione ci sono soggetti, come negli esempi proposti, deambulanti con e senza stampelle, mamme con passeggini e carrozzine ecc.
Il problema della vergogna non solo non sussiste, ma va semmai ribaltato: non sono i genitori a doversi vergognare di qualcosa che non è dipeso dalla loro volontà o dalla loro capacità; piuttosto sono le strutture, le amministrazioni, chi è investito di responsabilità, a doversi vergognare, se non rispondono ai bisogni dell’intera popolazione, proprio perché hanno il dovere di farlo e sono pagati per questo.
I genitori, per soddisfare le esigenze dei figli in ogni situazione, possono perciò – e probabilmente devono – avvalersi di tutte le opportunità e di tutta la casistica disponibile in commercio.
Può trattarsi di semplici magliette, come quelle largamente in voga negli Stati Uniti e nei Paesi del Nord Europa, recanti per esempio la scritta «Non mi sto comportando male. Ho l’autismo», o possono essere utilizzati piccoli riquadri plastificati, di riconoscimento, o ancora placchette metalliche su cui siano incisi gli elementi identificativi essenziali, con la sottolineatura che si tratta di una persona autistica. Eccetera…
Soluzioni come queste, e altre ancora, offrono – tra l’altro – la possibilità di avere la precedenza quando si tratta di affrontare lunghe file in ambienti affollati. Possono, dunque, rivelarsi estremamente utili, perché sappiamo bene che tempi di attesa e rispetto del turno sono generalmente vissuti in modo alquanto problematico dalle persone autistiche, soprattutto se con ridotte autonomie.
È appena il caso di sottolineare che le misure indicate, da sole, certamente non possono bastare. Devono essere accompagnate da una campagna di promozione e sensibilizzazione (di “pubblicità progresso”, come si dice), a cura dei Ministeri e degli Assessorati coinvolti sul territorio, in particolare Politiche Sociali e Sanità.
Vanno preventivamente fornite ai cittadini informazioni corrette e puntuali sulle caratteristiche principali dell’autismo e su come approcciarlo in caso di necessità, con l’illustrazione delle principali sintomatologie, delle difficoltà di comunicazione, dei possibili riscontri comportamentali dovuti alla sensazione di disagio (stereotipie, comportamenti problematici), degli aspetti sensoriali connessi, perché è tutt’altro che indifferente sapere che un autistico può essere più o meno sensibile, per esempio, al tatto come all’udito…
Intervenire, in determinate circostanze, prescindendo da queste conoscenze, può rivelarsi del tutto controproducente. Anche per tali ragioni è consigliabile, tra l’altro, che la persona autistica porti sempre con sé un libretto informativo, che riassuma le caratteristiche principali del “suo” autismo, proprio al fine di rendere meno rischioso l’intervento di un soggetto terzo.
È importante, inoltre, che le Associazioni rivendichino l’adozione, attraverso appositi protocolli, di provvedimenti ad hoc, predisposti da uffici, aziende pubbliche e soprattutto strutture sanitarie, tali da individuare una sorta di corsia preferenziale per i nostri figli (si pensi alle difficoltà che incontrano nei Pronto Soccorso e più in generale quando devono sottoporsi a visite mediche con estenuanti code…), mentre sul territorio, di pari passo, va progressivamente estesa la rete di locali e servizi cosiddetti On the part of the autistic [“dalla parte degli autistici”, N.d.R.], che garantiscono alle famiglie, alle persone autistiche, a tutti coloro che sono interessati, la sensibilità e la professionalità di chi vi opera.
L’esigenza di uscire fuori dall’equazione “autismo = disabilità invisibile” è tanto più comprensibile, se si tiene conto che l’autismo è spesso segnato da eventi dolorosi , che non si possono derubricare a meri fatti di cronaca.
È un “fatto di cronaca” quello di Daniele Potenzoni, trentasettenne di Pantigliate, nel Milanese, affetto da autismo, scomparso nel nulla in metro a Roma, mentre si stava recando all’udienza papale, accompagnato dai responsabili di una comunità che nella calca lo hanno perso d’occhio? O è la spia di quanto potrebbe succedere a tante persone autistiche, tutte più o meno a rischio?
Se quello di Daniele è stato sicuramente il caso più eclatante di cui i media si sono occupati, sappiamo bene, infatti, che è tutt’altro che infrequente venire a conoscenza di persone autistiche, di tutte le età, che si allontanano dai contesti in cui vivono abitualmente, creando con ciò apprensione e paura nei loro cari, e soprattutto rischiando sulla loro pelle.
L’ultimo, in ordine di tempo, è stato Emanuele Guerra, 23 anni, autistico, scomparso a fine luglio dalla sua casa di Passo Corese in provincia di Rieti e fortunatamente ritrovato, dopo cinque giorni, in Via Nomentana a Roma!
Un autistico che vaga senza meta e senza identità è uguale a un autistico che porta con sé un braccialetto che funge da sistema di geolocalizzazione (in grado di rilevare su mappa interattiva la posizione in cui la persona si trova e inviarla, con notifica istantanea, ai telefonini, tablet o PC registrati), e che in una sacca o sulla placchetta intorno al collo reca informazioni atte a facilitare il riconoscimento della sua condizione e dati che permettono di risalire facilmente ai suoi cari?
Non pensate anche voi che forse oggi Daniele sarebbe a casa, accanto a chi gli vuol bene, se fossero state adottate certe elementari precauzioni?
Non possiamo esserne certi, è vero. Ma perché non fare tesoro di questa drammatica esperienza?