Jason Becker è un nome che probabilmente non dirà nulla a tanti Lettori, a meno di non essere super appassionati di rock. Per quanto mi riguarda, l’ho “conosciuto” per caso, facendo zapping. Alla ricerca di qualcosa di interessante da guardare in TV, “inciampo” in un film-documentario intitolato Jason Becker, ancora vivo (titolo originale Jason Becker: Not Dead Yet, regia di Jesse Vile, 2012). Racconta la storia di un chitarrista dal talento straordinario, ma le prime immagini preannunciano qualcosa in più della solita biografia del musicista di successo. Due occhi birichini guardano lo spettatore, si muovono vivaci e “dettano” al computer un saluto ironico: «Signore e signori, sono l’uomo più sexy del mondo».
Jason ha quarantotto anni e la SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, nota anche come sindrome di Lou Gehrig. Comunque la si chiami, una cattiva compagna degenerativa che strappa forza ai muscoli, toglie il respiro e la possibilità di parlare, mentre “lucida” l’intelletto, che rimane ben sveglio ad assistere al decadimento inesorabile del corpo.
A Jason è capitata tra capo e collo all’inizio degli Anni Novanta, quando aveva circa vent’anni, aveva appena preso il posto di Steve Vai, uno dei chitarristi più famosi del globo, nella band di David Lee Roth, e la rivista «Guitar Magazine» l’aveva eletto come miglior chitarrista emergente del mondo.
Una consacrazione meritata per un virtuoso della sei corde, un extraterrestre dalla tecnica impeccabile, che a sedici anni aveva lasciato i critici a bocca aperta eseguendo un arrangiamento del Capriccio n. 5 di Paganini.
Originario di Richmond, in Virginia, cresciuto a pane e pentagramma in una famiglia con il vizio della musica, Jason ragazzino mangia suonando, dorme con la chitarra nel letto, non si separa mai dal suo strumento. Papà Gary lo incoraggia perché comprende le ottime potenzialità del figlio che con naturalezza, fin da bambino, ripete riff e accordi dopo un solo ascolto.
Adolescente, incontra Marty Friedman, diventano amici e fondano il duo Cacophony, “cacofonia”, una parola che evoca rumori stridenti per due giovanissimi fenomeni, amanti del rock duro, ma influenzati dalla musica classica. Pubblicano due album strumentali che gli esperti definiscono rivoluzionari, girano in tournée i cinque continenti.
È Jason quello con il suono più personale, un gusto particolare per la melodia e la capacità di produrre note in maniera unica, come ogni virtuoso che si rispetti. Le scuole di musica se lo contendono e durante un seminario in Giappone, all’interno di un auditorium, si domanda quale grande personaggio abbia attirato migliaia di persone, per scoprire poi che quelle persone sono lì per imparare da lui.
A cavallo tra gli Anni Ottanta e Novanta diventa uno dei chitarristi hard rock più noti, nel 1988 pubblica un disco solista e finalmente arriva la proposta che non si può rifiutare: sostituire Steve Vai. David Lee Roth, ex dei Van Halen, impiega mezz’ora per capire che il ragazzo di Richmond è l’uomo giusto per il suo nuovo progetto discografico.
Iniziano le registrazioni, la stella di Becker è in ascesa. Peccato per quel fastidio alla gamba sinistra che lo fa zoppicare e cadere, e nemmeno le dita sono poi così agili. Visite e analisi non lasciano dubbi: SLA. La prognosi è terribile, i medici gli danno al massimo cinque anni di vita.
Il cammino diventa lento, le mani sono di pietra, ogni giorno di più. C’è da finire il disco, però, quindi fa montare sulla chitarra corde più sottili, più facili da pizzicare.
A Little Ain’t Enough esce nel 1991, segue un tour che non vede Jason Becker esibirsi sul palco con i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle. Il miglior chitarrista emergente del mondo è cresciuto, ormai è una certezza, ma la malattia lo obbliga ad entrare in un cono d’ombra, sparisce dalle scene e quasi tutto il pubblico si dimentica di lui.
Si rintana nella sua camera, come quand’era bambino, e con la disperazione nel cuore suona soltanto per sé, finché ce la fa. Sopraggiungono la paralisi assoluta e la sedia a rotelle, si rendono indispensabili la tracheotomia e il supporto di macchinari per restare vivo. Il pronostico della medicina pare veritiero, i peggioramenti sono rapidi e palesi. Se almeno potesse ancora fare musica!
Un amico musicista e appassionato di informatica, Mike Bemesderfer, inventa un software che trasforma in notazione musicale la leggera mimica facciale e lo sguardo di Jason. L’estro creativo torna ad avere uno sbocco, ricomincia a comporre. Perspective viene pubblicato nel 1996 su un’etichetta minore in esclusiva per il Giappone, un’ora di musica con la M maiuscola.
Eddie Van Halen, leggenda vivente del rock, uno dei tanti colleghi che non hanno mai abbandonato Becker, lo fa ripubblicare dalla Warner Bros Record, il primo disco composto per intero da una persona affetta da SLA che, dettaglio non trascurabile, avrebbe già dovuto essere morta.
Sulla copertina, Jason scrive: «Ho la SLA che ha mutilato il mio corpo e la mia lingua, ma non la mia testa». Seguono altri tre album, nel ’99, nel 2003 e nel 2008. Le sue condizioni sono stabili dal 1997, in barba alle statistiche e alla faccia delle previsioni. C’è chi parla del potere di guarigione della musica. Forse è esagerato spingersi a tanto, certo è che avere una passione, poterla coltivare, aiuta la mente e anche il fisico sta meglio.
È circondato dall’affetto della famiglia, degli amici, dei musicisti, della ex fidanzata che continua ad essere una presenza importante, anche se la loro relazione è finita da tempo. L’abbigliamento e la capigliatura sono rimasti quelli tipici del metallaro. Grazie a un sistema di puntamento oculare, perfezionato sulle sue specifiche esigenze, gli occhi lo tengono in contatto con ciò che lo circonda, può comunicare bisogni ed emozioni, può scherzare e vantarsi d’essere «l’uomo più sexy del mondo».
È una lotta quotidiana, ci sono momenti di sconforto, disillusione, stanchezza. Ma dopo oltre vent’anni da quella diagnosi infausta, Jason Becker è ancora tra noi, a raccontarci una storia di musica che va al di là della musica. E tutto questo è molto rock!