Per celebrare l’undicesima Giornata Nazionale del Braille del 21 febbraio scorso, l’Associazione Io vedo con le mani di Vibo Marina (Vibo Valentia), che svolge attività in favore di persone con disabilità visiva, ha organizzato a Vibo Valentia un evento al quale mi aveva chiesto di partecipare con un intervento in tema di codice Braille, che accompagnasse anche la prestigiosa ospite, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, nella presentazione della sua ultima pubblicazione, Nessuno può volare [di questo libro si legga già ampiamente anche nel nostro giornale, N.d.R.].
Per l’occasione, Io vedo con le mani ha provveduto all’adattamento e alla trascrizione in Braille di quest’ultimo e di altri libri della Hornby, in collaborazione con l’Editore Feltrinelli.
In Nessuno può volare l’Autrice racconta tante storie che hanno come protagoniste persone con disabilità, che fanno parte del proprio vissuto familiare e non, con un messaggio al Lettore: quello di guardare alla disabilità in modo oggettivo ed obiettivo, ricercando allo stesso tempo soluzioni compensative ai limiti che essa impone.
Leggendo il libro, riflettevo su quanto le persone cieche non solo non vedano con gli occhi, ma spesso siano anche poco viste. Basti pensare a tutte le volte in cui vengono sollecitate a “superare” il Braille in funzione di una digitalizzazione della letto-scrittura, spacciata come funzionale ad una facilitazione del processo stesso, rispetto all’uso degli strumenti tradizionali. Tale sollecitazione mi pare identificabile, a volte, in un malcelato tentativo di decentrare il bisogno del cieco in favore del livello di competenza del contesto – o forse sarebbe meglio dire incompetenza – a fruire del codice Braille. Ma cos’è esattamente il Braille?
Il Braille è un codice di letto-scrittura, quindi non una lingua, né un linguaggio, ma un sistema di segni caratterizzato da specifiche combinazioni di punti a rilievo, attraverso cui anche persone cieche o ipovedenti possono leggere e scrivere.
La segnografia Braille è stata, dunque, ideata appositamente per la fruizione tattile, ovvero per rendere accessibile la lettura e la scrittura a chi è privato del senso della vista. Ai vedenti non è richiesto saperlo leggere con le mani, va bene anche usare gli occhi, anzi direi che sia essenziale essere abili ad una decodifica attraverso il canale visivo, soprattutto per chi esercita un ruolo specialistico in rapporto a persone cieche. Su un segno Braille, infatti, si può passare solo un dito per volta e una lettura “a quattro mani” non è praticabile.
Un segno in Braille è organizzato entro la cosiddetta “cella Braille”, un casellino rettangolare formato da sei punti, distribuiti in due colonne e tre righe. Ad ognuno di questi punti corrisponde una posizione che viene indicata convenzionalmente con un numero da 1 a 6.
Facciamo un esempio: la lettera “a” è formata da un solo punto, il punto 1, che si trova in alto a sinistra della cella. La lettera “b” è data dai punti 1 e 2, mentre la “c” dai punti 1 e 4 e così via. Ad un segno in nero corrispondono uno o più segni in Braille e non vi è alcuna corrispondenza quanto a forma o porzione di spazio. La dimensione del segno Braille è tale da essere discriminabile con il polpastrello del dito indice.
Quando parliamo di codice Braille, è importante tener presente che non ci riferiamo solo all’alfabeto, ma ad un insieme di segni che servono a trascrivere dal nero (così viene indicato il codice di letto-scrittura usato dai vedenti) al Braille i più svariati simboli che esistono, compresi quelli riferiti alla matematica, alla chimica, alla fisica e, nondimeno, alla notazione musicale.
Quindi, come si presenta la scrittura Braille? Come si produce e come si legge?
Una pagina scritta in Braille si presenta come una serie di puntini vicini fra loro, che occupano in maniera omogenea la facciata, o le facciate fronteretro, di un foglio, tanto da poter sembrare ai profani un’“accozzaglia di puntini”, fra cui è impossibile stabilire dove finisce un segno e dove comincia l’altro, se non fosse per la loro organizzazione chiaramente strutturata. Infatti, la scrittura in Braille è rappresentata da una segnografia profondamente regolare, caratterizzata, per dirla in rapporto al nero, da un unico tipo e un’unica dimensione del carattere.
In generale, il processo di scrittura in Braille funziona per mezzo di un meccanismo di impressione dei punti per renderli a rilievo. Gli strumenti utilizzabili sono la tavoletta Braille, nelle prime fasi di studio, e poi la dattiloBraille. Successivamente, dopo un apposito training, l’alunno cieco può servirsi di dispositivi digitali, che sempre di più userà in età adulta.
Sulla tavoletta, un segno Braille, ovvero la sua combinazione di punti, si produce punto per punto, agendo con un punteruolo che si posiziona all’interno della cella in base alle posizioni richieste. Questo genere di scrittura avviene in modalità speculare e procede da destra verso sinistra. Per dirla in modo pratico, “con la tavoletta si scrive al contrario”. Per esempio, per scrivere una parola bisogna partire dal lato destro del rigo e i punti che in lettura occupano la colonna di sinistra all’interno della cella, in scrittura passeranno ad occupare quella di destra e saranno i primi ad essere digitati. Per controllare ciò che si è scritto, occorre togliere il foglio dalla tavoletta e girarlo. Così si può leggere regolarmente, da sinistra verso destra, quei punti a rilievo impressi dalla facciata opposta.
La dattiloBraille è uno strumento che somiglia molto alle vecchie macchine da scrivere, con un’interfaccia molto più semplice, che comprende principalmente un totale di sei tasti destinati alla digitazione dei sei punti della cella Braille, attraverso l’impressione delle dite poste su di essi in posizione fissa.
A differenza della tavoletta, la dattiloBraille velocizza di molto il processo di scrittura, annulla il fattore di specularità, quindi i segni si riproducono direttamente in posizione di lettura, permettendo un accesso immediato a ciò che è stato scritto.
Il Braille si legge facendo scorrere delicatamente le dita delle mani sul rigo di lettura. In particolare: l’indice destro è il dito a cui è affidata maggiormente la decodifica del segno Braille, l’indice sinistro lo segue con funzione di supporto e di guida nel passaggio al rigo successivo. Le altre dita contribuiscono a mantenere il rispetto della direzionalità di lettura e dell’orientamento nella pagina.
Naturalmente i tempi di lettura e di scrittura per i ciechi si allungano rispetto a quelli normativi, ovvero quelli richiesti per il codice in nero. Le ragioni sono di doppia natura, strumentale (aspetti logistici) e neuropsicologica (carico cognitivo).
L’avanzamento degli studi tiflologici ha portato alla nascita dei software cosiddetti “assistivi”, fra cui lo screen reader, più comunemente conosciuto come sintesi vocale, e il display Braille (anche detto barra Braille), che rendono possibile l’accesso alla persona cieca o ipovedente alle normali funzionalità del computer.
In particolare, lo screen reader permette di leggere e interpretare il contenuto dello schermo di un computer che i vedenti vedono con gli occhi; quindi è molto più di una semplice voce di lettura del testo. Il display Braille è invece un dispositivo hardware che si collega al computer ed è dotato di una riga, mediamente di 40 celle, sulla quale, per mezzo dello screen reader, compare in Braille quello che c’è sullo schermo. Finita la riga si digita un tasto laterale per passare a quella successiva e così via.
Bene! Molti hanno pensato di aver così risolto più problemi di quanti ne siano effettivamente risolvibili, in particolare entro il contesto scolastico. Chi lavora a stretto contatto con alunni non vedenti si può ben accorgere di questo.
Incoraggiare le persone cieche e ipovedenti all’utilizzo della postazione digitale mi pare importante e credo che l’apprendimento dell’uso degli strumenti tifloinformatici sia un diritto per il disabile visivo e una responsabilità da parte delle figure educative (tiflologi, riabilitatori, insegnanti ed anche familiari) che ne devono favorire il processo. Le mie perplessità nascono di fronte alla vera e propria negazione delle trascrizioni dei testi in Braille e al vincolo di scrivere su supporto digitale. È come chiedere ad un alunno vedente di scordarsi del libro cartaceo e della propria penna. Mi pare cosa assai irragionevole!
Siamo sicuri che leggere e scrivere con strumenti informatizzati sia davvero sempre la soluzione vantaggiosa in rapporto agli alunni ciechi? Forse sì, ma vantaggiosa per chi?
La mia domanda si nutre, per altro, delle dichiarazioni di quanti sostengono, o forse ingenuamente ammettono, che l’uso del libro digitale consenta sia l’abbattimento degli esosi costi per l’adattamento e le stampe dei testi, sia la possibilità che un insegnante specializzato – quindi reclutato da un’apposita graduatoria – lavori “tranquillamente” con un alunno cieco pur non conoscendo il Braille.
Sollecitare un alunno con deficit visivo a scrivere al computer e a leggere sul libro digitale per motivi di questo genere è, a mio avviso, non solo intellettualmente poco onesto, ma anche assai illegittimo.
Credo piuttosto nell’opportunità di partire da un dato di fatto: una dattiloBraille può pesare anche 4 chili, un libro di testo può dover essere organizzato in sei volumi in Braille, ma “nessuno può volare…”, come ci invita a ricordare Simonetta Agnello Hornby! E se è vero com’è vero che un cieco è cieco, egli non può scrivere in nero e non può leggere in nero e non può neppure, nel farlo in Braille, essere veloce come un coetaneo vedente.
La mia riflessione va dunque su una questione di “provenienza dell’handicap”. A chi appartiene, a ragion veduta, il deficit più marcato? All’individuo con disabilità o al contesto? Da dove ha origine l’effetto maggiormente invalidante? Dalla patologia o dall’organizzazione sistemica?
Nella vita c’è di più del volare… e forse tutti potremmo imparare a cercarlo (Simonetta Agnello Hornby).