Simonetta Chiandetti, autrice del libro L’autistico di Schrödinger. Il racconto di una “madre frigorifero” (prefazione di Carlo Hanau, postfazione di Eleonora Daniele, Correggio, Aliberti, 2019) è una scrittrice che, pur essendo all’esordio, riesce a tenerci col fiato sospeso e, se cominciamo a leggere la sua storia – fatta di tante ombre e di una grandissima luce – non possiamo sospendere la lettura, ma siamo costretti ad arrivare fino in fondo.
All’inizio la storia assomiglia a tante altre. Il bambino, bello e robusto, presenta caratteristiche di autismo da manuale sin dai primissimi anni di vita. La mamma teme da subito che si tratti di autismo, ma soltanto dopo l’età di cinque anni trova dei professionisti che fanno la diagnosi, permettendole così di dare un nome al nemico, di studiare, di perfezionare alcune strategie educative che pure già metteva in atto, come quella che il neuropsichiatra chiama col nome inglese di Play Therapy, che significa banalmente “terapia del gioco” e che lei istintivamente aveva sempre praticato.
Qui Chiandetti evidenzia l’impreparazione degli specialisti e l’inadeguatezza delle Istituzioni e della loro offerta di terapie, molte delle quali obsolete e inutili. Denuncia il “mercato della disperazione” da parte di professionisti senza scrupoli, che approfittano della fragilità dei genitori per propinare a caro prezzo sedicenti terapie fantasiose, spesso dannose.
«Ora – scrive – già al mio affermare che sono figlia di divorziati, le due psicologhe si guardarono sobbalzando dalla sedia, ma con un certo compiacimento, tipo “Ecco, visto! Abbiamo trovato!”… Io, cercando di spiegare che la mia vita familiare, quella con i miei genitori intendo, era tutto fuorché propedeutica al narrare le gesta dei nonni scomparsi, feci ancor più danno. Non riuscivamo io e mio marito a capire cosa c’entrasse questo con la malattia di mio figlio… Da me pretendevano che io avessi saputo del matrimonio dei miei nonni dai miei genitori divorziati. Sarebbe stato comico se non fosse stato drammatico… Comunque rimanevamo soli con un bambino problematico a cui avevano già affibbiato un futuro infausto. Non avevamo una diagnosi, quindi nemmeno una terapia. Non sapevamo da chi andare o dove andare. Non sapevamo nemmeno quale potesse essere il problema. Io continuavo a pensare che fosse autismo, per quel poco che ne sapevo, perché quelle che poi ho imparato a chiamare stereotipie gestuali erano eclatanti. Io e mio marito un giorno arrivammo a guardarci e dirci all’unisono: “Lo portiamo da un prete?!”. Le urla, i morsi, le stereotipie, l’aggressività facevano di lui il protagonista di un film dell’orrore».
La scena raccontata si riferisce naturalmente all’incontro tra i genitori di un bambino che presenta dei sintomi di autismo da manuale e due psicologhe che, anziché esaminare il bambino, cercano dei fattori patogeni nella famiglia e, non riuscendo a trovarli nei genitori, li trovano nei nonni in quanto divorziati. Qualsiasi coincidenza viene presa come causa delle anomalie comportamentali di un bambino.
Questa testimonianza si riferisce non al secolo scorso, ma a quello presente, essendo il bambino in questione nato nel 2000. E quanto narrato non è eccezionale. Ancora oggi, infatti, si sentono genitori che riferiscono che al primo incontro con i professionisti, questi non hanno esaminato il bambino, ma hanno cercato cosa non andasse in loro, lasciando poi i genitori nell’angoscia dell’incertezza della diagnosi e nell’impossibilità di iniziare il trattamento abilitativo nell’età di massima plasticità del cervello.
Tra i tanti incontri, quello con l’ANGSA, l’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici, è fondamentale per sottrarre Simonetta alle proposte lusinghiere dei ciarlatani e guidarla sulla via che, nel suo caso, ha avuto risultati eccezionali: un impegno dei genitori a dare al figlio un’educazione compensativa dei deficit, a non mollare mai sulla socializzazione e sulla correzione dei comportamenti indesiderabili, a coinvolgere sempre insegnanti ed educatori.
La scuola ha una parte importante nel racconto e anche qui vi sono luci e ombre. Insegnanti disponibili, pazienti e disposti/disposte all’ascolto e altri/altre non disposti/disposte a modificare minimamente il loro stile d’insegnamento, per andare incontro alle esigenze dell’alunno speciale.
«Quando gli comunicai le mie intenzioni – si legge ancora nel libro -, mi parve di intravedere nei suoi occhi un’espressione di sconcerto, sorpresa, sgomento misto a indignazione per poi lasciare il passo alla severa preoccupazione, seguita a ruota da un lampo di cattiveria misto a sadismo. Ne seguì una serie di scambi di battute tra me e lui degni di uno dei migliori match di tennis tra i mitici Connors e McEnroe, dove io ero pronta a fare quella che spacca la racchetta a terra. Dopo avermi sciorinato la sua cultura in quanto egli stesso ex studente di liceo classico, prima di laurearsi in… boh, già mi ronzavano le orecchie e cominciavo a fare fatica a seguirlo, e bla bla, dopo aver insegnato qui e là, tutte scuole prestigiose e bla bla, arrivò il colpo da maestro: “Il Liceo Classico è una scuola che è stata creata per forgiare le élite dirigenziali di domani. Non c’è spazio per una persona che parte da uno svantaggio, tanto più un caso con una patologia così grave. Gli insegnanti che lavorano qui sono vecchi come le materie che insegnano e non sono né capaci né disposti ad adattare il loro metodo di insegnamento a un alunno con bisogni didattici diversi. È l’alunno che si deve adeguare. Lo iscriva ad una scuola professionale, dove sicuramente si sentirà più a suo agio”».
E tuttavia, la grande luce che si contrappone alle tante ombre è l’evoluzione sorprendentemente favorevole che il ragazzo ha a partire dalla scuola media, tanto che al liceo la madre si impone per togliere il sostegno, senza il quale il giovane prosegue la scuola con un profitto più che soddisfacente.
Un’evoluzione così favorevole è dovuta in gran parte alla natura del disturbo, che evidentemente aveva in sé gli elementi per una prognosi buona. Ma alla natura hanno dato un grande aiuto i genitori, prima di tutto, e le tante altre figure che hanno accompagnato il ragazzo, gli insegnanti e i compagni.
L’autistico di Schrödinger, dunque, è importante da una parte per le criticità che mette a nudo, ma anche e soprattutto dall’altra, per l’evoluzione di questo bimbo, che da “protagonista di un film dell’orrore”, diventa un giovane autosufficiente e garbato, capace di frequentare con profitto e senza sostegno il liceo calssico.
Attualmente la storia è in divenire, perché il protagonista ha solo 18 anni e ha una lunga vita davanti. Ci auguriamo, perciò, che ci sia una prossima puntata nella quale ci si racconti che anche nella vita adulta il giovane ha proseguito per la strada dell’autonomia, raggiungendo una qualità di vita piena e soddisfacente per lui e per chi gli sarà vicino.
Nel frattempo, però, si può consigliare a tutti questo libro, e in particolare ai professionisti della Scuola e della Sanità, nonché ai decisori politici, in quanto se dalle criticità si impara, quelle narrate da Simonetta Chiandetti sono una vera e propria “miniera di insegnamenti”.
Dalla postfazione del libro L’autistico di Schrödinger (acquistabile a questo link), scritta dalla conduttrice televisiva Eleonora Daniele, madrina di #sfidAutismo 19, campagna in corso a cura della FIA (Fondazione Italiana Autismo):
«Le cose accadono. A volte ci chiediamo perché, ma non sappiamo darne risposta. La vita mi è accaduta. Nella provincia padovana nasco 42 anni fa, a Saonara. Nasco figlia di Iva e Tony, sorella di Elisa, Cosetta e Luigi. Luigi è un bambino autistico e noi una famiglia premurosa. Cresciamo insieme. La vita passa con tante emozioni forti vissute insieme e poi, ad un certo punto, le nostre strade si dividono. Per sempre. Luigi viene a mancare. Il tempo si ferma senza avvisare. Non so spiegare come ci si sente. Non so se sono più in grado di respirare. Rimango senza fiato, in sospeso. Per sempre. Unica ragione di esistenza non è la comprensione, né la rabbia, ma tutto ciò che non potrà mai morire: l’amore per Luigi. Ed è per amore che oggi decido di parlare di autismo. Non c’è spiegazione alcuna se non la speranza che la ricerca possa trovare l’origine di questa sindrome e la cura. La mia storia è quella di tante altre famiglie che combattono tutti i giorni per i loro ragazzi e si trovano a lottare contro la burocrazia, la malasanità, la mancanza dello Stato, il pregiudizio e la solitudine».