Nascere con una disabilità o imbattersi in essa nel corso della vita è sempre un momento tragico, un punto di non ritorno: per una famiglia è la fine dei progetti che si erano sognati per il proprio bambino, mentre nel caso di un adulto può rappresentare la morte dei propri progetti di vita. In pratica uno sconvolgimento dell’esistenza sia della persona con disabilità sia della sua famiglia.
La disabilità, infatti, a differenza di una malattia è per sempre. La malattia la curi, la disabilità ti costringe a fermarti, a rivedere la tua vita, ad interrogarti sulla validità dei progetti che avevi sul tuo futuro, a imparare a camminare con un arto artificiale o a deambulare con una carrozzina o a sentire con un dispositivo acustico o a usare un sintetizzatore per comunicare o a utilizzare il Braille per leggere. In pratica a ricominciare una nuova vita.
La persona con disabilità, per questi motivi, ha bisogno di una comunità inclusiva che si impegni a rimuovere le barriere fisiche e sociali e impari ad abbattere le barriere mentali.
Accogliere una persona nella sua diversità significa non volere a tutti i costi che sia “normale” come gli altri, ma accettare che potrebbe essere quanto più possibile – e sarebbe sempre possibile anche nei casi più gravi – soggetto e attore della propria vita a partire dalle sue potenzialità e non dalla sua disabilità.
Quando ci si scontra con la disabilità, ci si lascia accecare al punto da non riuscire a vedere la persona e quindi il suo prezioso modo di essere che in nessun’altra persona potrà trovarsi. In quel momento, quando la disabilità annulla del tutto la persona fino ad emarginarla, si entra nel triste dinamismo della profezia autoavverante: La persona con disabilità e la sua famiglia, condizionati dall’isolamento, dall’indifferenza, alterano il loro comportamento, fino a diventare o a rendersi invisibili.
Francesco e Rosalia sono due ragazzi con tetraparesi spastica, impossibilitati ad utilizzare l’automobile acquistata dalla famiglia perché il Comune di residenza e i vicini di casa, per mancanza di fondi, non sono in grado di affrontare le spese necessarie per allargare di pochi centimetri la strada dove si trova la loro abitazione.
A volte mi chiedo, a fronte di episodi come questo, quanto sia ancora lungo il percorso che il nostro Paese deve compiere per dirsi civile.
Nelle nostre comunità, è ancora raro trovare persone con disabilità che partecipino attivamente alla vita della società, e questo è molto triste.
In un contesto così poco inclusivo la cronaca riporta ancora e troppo spesso storie di discriminazione, situazioni di esclusione, episodi di odio, bullismo, violenza, sacche di segregazione. Ma oltre a questo mosaico negativo che appare in tutta la sua evidenza, vi sono anche drammi umani e familiari che si consumano nel silenzio dell’isolamento e della rassegnazione, quasi fossero l’esito ineluttabile di tragiche fatalità per le quali non esistono responsabili e responsabilità: nella scuola, nel lavoro, nelle nostre città, nelle politiche inclusive.
Le cronache ci raccontano che sempre più genitori scelgono di abbandonare il figlio che presenta una disabilità grave. La mentalità comune, ancora oggi, vuole le persone con disabilità relegate in gruppi a parte o parcheggiate in strutture apparentemente inclusive. Quale famiglia, quale genitore, con questi presupposti, può desiderare una vita di questo tipo per il proprio figlio?
Integrare e includere le persone con disabilità deve diventare una grande sfida, che può essere vinta solo puntando sulla competenza e sulla collaborazione di tutte le componenti della comunità, senza esclusione, dalle Istituzioni alla Società Civile.
Credo che ci siano tre modi fondamentali di vivere una condizione di disabilità, che non si escludono a vicenda, ma possono coesistere o ripresentarsi a turno nel corso della vita.
Nel primo caso può essere vissuta come una difficoltà, un ostacolo, un’oppressione da cui cercare di liberarsi. È la dimensione tragica della rabbia, della lotta sull’orlo della disperazione.
Nel secondo, la disabilità è avvertita come limite di fatto, che definisce la propria identità personale, così come i tre angoli uguali definiscono il triangolo equilatero. Questa è la dimensione dei periodi sereni, quando è più facile accettare la realtà così com’è.
Il terzo modo consiste nel riconoscere un punto di forza proprio nella debolezza della disabilità: la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo. Parafrasando il Salmo 118:22 della Bibbia, i diritti delle persone con disabilità violati e calpestati diventano la pietra angolare della comunità.