Nel mese di agosto dello scorso anno ricevo la telefonata di Rita Barbuto, un volto molto noto dei movimenti italiani di persone con disabilità (Regional Development Officer di DPI-Disabled Peoples’ International e direttrice di DPI Italia), da decenni impegnata nella rivendicazione del diritto per le persone con disabilità di poter decidere autonomamente dove, come e con chi vivere.
Dalla sua voce e dalle sue parole emerge uno stato di preoccupazione allarmante. Sono mesi che attende notizie sui fondi – che, secondo logiche di precarizzazione profonda delle esistenze, vengono confermati (o revocati) di anno in anno – necessari a pagare gli assistenti personali e che le garantiscono la prosecuzione della propria vita indipendente, senza i quali si prospetta un futuro di segregazione domestica, nella migliore delle ipotesi.
In questa intervista abbiamo provato a ripercorrere le tappe di questa sua vicenda – solo in apparenza personale e individuale, perché, probabilmente, comune a diverse persone che vivono in condizioni simili – e quali scenari si delineano.
Qual è la tua storia di vita indipendente? Che tipo di situazione vivi in questo momento e che cosa ostacola l’erogazione dei fondi per l’assistenza personale?
«Dal 2002, in forme diverse, ricevo fondi per l’assistenza personale. Tutto è iniziato con il progetto Abitare in Autonomia, avviato nel 2001 grazie alla Legge 162/98. A seguito dell’interruzione dei finanziamenti da parte del Ministero competente, la Regione Calabria, con la propria Delibera di Giunta n. 360/2003, ha dato prosecuzione al progetto fino al mese di dicembre del 2017.
Nel 2018, non essendoci più i presupposti per il finanziamento diretto del progetto, a seguito del passaggio delle competenze agli Enti Locali, la Regione Calabria ha invitato i Comuni Capofila (Catanzaro e Soverato) degli Ambiti Territoriali nei quali risiedono gli utenti superstiti del progetto Abitare in Autonomia a proseguire con l’erogazione del servizio di assistenza personale, attingendo a tal fine ai fondi erogati per il “Dopo di Noi”, la Non Autosufficienza e a quelli relativi al programma sperimentale Vita Indipendente.
Nel 2018 il Comune di Soverato (Catanzaro), per garantirmi la continuità assistenziale, ha attinto dai fondi della Non Autosufficienza per erogarmi la somma necessaria per il pagamento della mia assistenza personale in forma indiretta.
Per quanto riguarda il 2019, la comunicazione del finanziamento del progetto per la vita indipendente è stata trasmessa al Comune capofila alla fine del 2018, per cui il bando per la presentazione dei progetti personalizzati doveva essere pubblicato a gennaio del 2019, anche se i fondi ancora non erano arrivati. In realtà, è stato pubblicato a maggio del 2019 e, nonostante il mio progetto sia stato ammesso al finanziamento, nonostante l’impegno verbale del sindaco di Soverato Ernesto Francesco Alecci, ancora non ho ricevuto nessun fondo né altra informazione (ad esempio i tempi di utilizzo dei fondi, la cifra a disposizione ecc.), se non la pubblicazione della Determina Comunale sull’Albo Pretorio, contenente i nomi delle persone idonee a ricevere il finanziamento con relativa disabilità, cosa che non mi sembra corretta, perché dettagli del genere non andrebbero pubblicizzati.
In questa situazione non ci sono solo io, ma tante altre persone, e intorno a noi c’è il deserto. Le Istituzioni competenti, infatti, sono impreparate e superficiali; è difficile far capire loro anche le procedure da mettere in atto, nonostante sia tutto esplicitato nelle Linee Guida per la presentazione di progetti sperimentali in materia di vita indipendente e inclusione nella società delle persone con disabilità per l’anno 2017 e le organizzazioni a loro volta sono latitanti.
A partire dal primo gennaio del 2019 ho pagato con i risparmi le mie due assistenti personali, ma solo per poche ore, mai sufficienti a coprire le esigenze del quotidiano.
Sono anni che combatto, cercando di orientare gli enti, le istituzioni e le organizzazioni nel prendere seriamente questo problema, ma ad oggi non ci sono riuscita.
Mi chiedi cosa ostacoli l’erogazione dei fondi: ignoranza, superficialità e soprattutto mancanza di una visione».
La Calabria non possiede una Legge Regionale sulla vita indipendente. Questo cosa comporta?
«Significa che non mette a disposizione fondi propri per la vita indipendente e nello stesso tempo, se escludiamo gli ultimi due anni, non ha fatto niente o quasi per sollecitare gli Ambiti Territoriali a presentare progetti per l’utilizzo dei fondi del Ministero.
Questa situazione non assicura la possibilità alle persone con disabilità di vedersi garantito questo diritto. E anche quando partono, i progetti, vengono ancora inquadrati nella “sperimentalità” (nelle domande per la richiesta di fondi, infatti, si parla di Sperimentazione del modello di intervento in materia di vita indipendente e inclusione delle persone con disabilità).
Tranne alcune Regioni, che oramai da decenni hanno messo in piedi un sistema di supporti alla vita indipendente, altre zone del Paese vivono questa situazione, dove i servizi vengono interrotti, come se una persona con una disabilità grave non fosse più disabile l’anno successivo.
Se si stabilisce che una persona ha una disabilità, i fondi necessari alla sua assistenza indiretta e autogestita non possono essere concessi un anno e negati quello successivo. Una persona con una grave disabilità non può vedersi interrotto il servizio ed essere costretta a licenziare coloro che lavorano con lei perché i fondi non arrivano tutti gli anni o non arrivano puntuali, oppure non si dà corretta comunicazione ai beneficiari di quando arriveranno e come dovranno essere spesi».
In quali Regioni i servizi funzionano meglio?
«Generalmente, in quelle regioni dove funziona bene ENIL (European Network on Independent Living), il network per la vita indipendente. Parliamo, per esempio, del Piemonte e in particolare di Torino, il cui percorso verso la vita indipendente è storico, della Toscana, che ha una rete di servizi eccellente, di Roma.
La vita indipendente, tra l’altro, può essere finanziata anche con fondi diversi da quelli del Ministero. È una questione culturale e di scelte politiche».
La mancanza di una legge regionale e di una visione culturale e politica determinano una situazione come quella che stai vivendo. I fondi non vengono trasmessi, manca qualsiasi tipo di informazione che metta la persona nelle condizioni di fare progetti anche a brevissima scadenza. Pensi che la tua lotta rischi di essere una lotta individuale?
«Voglio essere molto chiara: in Calabria, ancora una volta, vengono calpestati i diritti umani delle persone con disabilità, nell’assordante silenzio di tutti. Si stanno condannando le persone con disabilità, quelle più fortunate, alla segregazione nelle proprie abitazioni o, in casi peggiori, negli istituti.
In Calabria vivono meno di 2 milioni di persone, le persone con disabilità dovrebbero essere circa il 5,2% (secondo il Rapporto ISTAT Conoscere il mondo della disabilità: Persone, Relazioni e Istituzioni, 2019) e di queste solo un piccolo numero è interessato all’assistenza indiretta autogestita, perché purtroppo in pochi sono consapevoli di avere diritto alla vita indipendente, autonoma e autodeterminata.
Attualmente sono stati finanziati sette progetti relativi alle Linee Guida del 2017 e sette relativi alle Linee Guida del 2018, per un totale di circa un milione e 400.000 euro. Ma niente si muove, nulla si fa. Sicuramente la protesta di molte persone avrebbe sortito risultati diversi, rispetto alla mia sola azione personale».
In che modo l’associazionismo può intervenire?
«Io faccio parte di due organizzazioni importanti: una è DPI (Disabled Peoples’ International), l’altra è la FISH Calabria (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), della quale sono membro della Giunta. Secondo la mia esperienza, le due organizzazioni devono intervenire avendo come obiettivo la tutela dei diritti umani delle persone con disabilità, che si traduce concretamente nel creare le condizioni necessarie per garantire loro una vita di qualità, cioè di benessere, soddisfazione e felicità, l’inclusione e la partecipazione piena. In sostanza, combattere la segregazione. Per farlo, sempre secondo la mia opinione, non esiste modo migliore di quello di promuovere la vita indipendente quale risposta concreta alla segregazione. DPI, impegnata sia a livello internazionale che nazionale, può contribuire al raggiungimento di questo obiettivo attraverso la promozione dei processi di empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.] delle persone con disabilità e delle loro organizzazioni. La FISH Calabria, e con essa la FISH nazionale, può contribuire attraverso azioni e politiche di promozione dei diritti e la realizzazione dei servizi sul territorio.
Allo stato attuale, e in questo specifico àmbito, il loro intervento non penso sia particolarmente efficace. Ritengo che la FISH a livello nazionale non abbia affrontato la questione della vita indipendente in modo adeguato. Infatti, si parla ancora di progetti sperimentali, ogni Regione si muove autonomamente. Addirittura c’è differenza fra una città e un’altra, e fra città e zone rurali e decentrate della stessa Regione. Da un lato, la FISH Calabria non è riuscita a fare approvare una Legge Regionale sulla vita indipendente, anche quando il contesto politico era favorevole. Dall’altro, DPI Italia non ha presenza e presa sui territori dove concretamente vivono le persone con disabilità con tutte le difficoltà del quotidiano.
Lavoro con le persone con disabilità da molto tempo, mi sono occupata dei processi di empowerment all’Università della Calabria per diversi anni e oggi sono arrivata alla conclusione che forse quello che ho detto agli studenti – e cioè che la consapevolezza, la lotta personale e il lavoro di rete possono cambiare le nostre vite – sia stata una mistificazione. Se un’organizzazione non sostiene anche una singola persona – perché è possibile che non tutte le persone non autosufficienti siano interessate a fare l’esperienza della vita indipendente e hanno tutto il diritto di non farla -, che vuole vivere la propria vita nella libertà e dignitosamente, allora quell’organizzazione sta facendo fiasco».
Si è spezzato un legame di solidarietà, a livello sia della comunità, sia dell’istituzione e forse anche a livello dell’associazionismo? Oppure vi è una sfiducia di fondo rispetto all’importanza della vita indipendente per le persone con disabilità?
«Io penso che a livello associativo abbiamo fatto molta teoria, molte riflessioni, ma concretamente non vedo, specialmente negli ultimi anni, risultati concreti.
In generale, penso ci sia una regressione rispetto alla conquista di alcuni diritti, quali ad esempio il diritto di frequentare la scuola di tutti e di vivere all’interno della propria comunità. Penso vi sia disattenzione e disconoscimento da parte della società, che acuisce sofferenza e solitudine nelle persone con disabilità. E penso, infine, che ci sia una diminuzione della solidarietà tra tutte le persone: se sei una persona in carrozzina il problema è solo tuo, non è della società, né della comunità in cui vivi, e a volte neanche della famiglia.
Ci si nasconde dietro alla scarsezza delle risorse finanziarie, ma è solo una scusa. Perché le risorse ci sono, vanno solo bene impiegate. Ma ammettendo anche che le risorse siano veramente scarse, le prime persone che dovrebbero essere tutelate sono quelle che vivono in condizione di maggiore difficoltà e fragilità, ad esempio i bambini, le persone con disabilità e gli anziani, mentre invece si va nella direzione opposta. Sei un migrante? Torna a casa, o resta in mare, perché io non mi riconosco in te. Sei una persona con disabilità? Resta a casa, e anche se non hai l’assistenza personale ci sarà qualcuno che ti darà da mangiare o ti porterà in bagno. Manca una consapevolezza e un progetto collettivo di inclusione di tutte le persone».
Probabilmente c’è anche un problema di maggiore isolamento e di scarsità dei servizi che colpisce tutte quelle persone che vivono in realtà decentrate rispetto alle grandi città.
«Certo, nei piccoli centri e nelle aree rurali, soprattutto delle Regioni del Sud, l’isolamento e l’esclusione delle persone con disabilità sono ancora più gravi. Un amico una volta ha scritto che le persone con disabilità sono considerate “paria” o “eroi”: pochi eroi, che prendono l’aereo e girano il mondo, molti paria che sono costretti a vivere segregati in casa o in istituti. Paria che non hanno l’opportunità di accedere ai servizi riabilitativi e di cure, educativi, che non hanno opportunità lavorative ecc. Secondo me l’associazionismo negli ultimi anni ha perso il proprio significato e senso: la vita quotidiana delle persone non interessa a nessuno, non interessa come vivo io, o come vive un anziano, chiuso in casa perché non ha nessuno o perché ha una pensione misera che non gli consente di impiegare qualcuno per aiutarlo a uscire».
Negare, quindi, la vita indipendente significa sicuramente compiere un grave atto di discriminazione.
«Io posso raccontare la mia vita: il fatto di non avere la possibilità di impiegare assistenti personali – stiamo parlando di un investimento annuo di circa 20.000 euro, soldi che per molti anni ho potuto investire in questo servizio perché lavoravo e andavo, così, a incrementare i fondi che non erano mai sufficienti – significa che io non potrò più lavorare, uscire di casa e che dovrò limitare anche gli spostamenti per le cure. Significa che, con i soldi che ricevo dallo Stato (indennità di accompagnamento e pensione d’invalidità), potrò pagare soltanto qualche ora di assistenza al giorno, sufficienti esclusivamente a farmi alzare dal letto, rimettermi al letto la sera e andare in bagno non più di due volte al giorno. Queste saranno le conseguenze sulla mia vita, ma questo destino mi accomuna a quello di tante altre persone che vivono la mia stessa situazione, che devono affidarsi a familiari e amici e spesso, per non disturbarli, trattengono anche la pipì per ore.
Questa è discriminazione. A volte mi chiedo se ci si sofferma abbastanza a pensare come vive una persona che ha una grave disabilità e cosa significa non poter prendere neanche un bicchiere d’acqua da soli».
Immagino che il fatto che tu sia donna rappresenti un’ulteriore criticità.
«Sono donna e non sono sposata, e da questo punto di vista mi mancano anche le tutele che quel tipo di condizione mi garantirebbe. Sono completamente da sola e senza assistenza personale non posso fare assolutamente niente. Sarò costretta a rinunciare anche alla possibilità di accedere ai servizi riabilitativi e sanitari. Infatti, non solo non avrò qualcuno che mi accompagni, ma anche che mi trasferisca dalla carrozzina al lettino sul quale essere visitata con strumenti diagnostici.
Noi donne con disabilità sappiamo bene quanto il sistema delle cure sia inaccessibile e quanto scarsamente preparato sia il personale sanitario nel darci l’aiuto di cui abbiamo necessità.
Ho 58 anni e dopo vent’anni di vita indipendente devo ricominciare da zero, ma non ho più l’energia e l’entusiasmo dei primi anni. Non ho lasciato nulla di intentato: la mia situazione è conosciuta da tutti gli amministratori locali e regionali, dalla FISH Calabria e da DPI Italia, ho scritto a Lorenzo Fontana quando era Ministro della Famiglia e della Disabilità. Ma ancora sono in attesa di risposte concrete. Questa non è una battaglia che può fare una singola persona. Se non si fa un’azione di rete con le Associazioni del territorio, le persone con disabilità calabresi perderanno un’altra occasione di riscattarsi dalla condizione di discriminazione ed esclusione in cui sono condannate da politici e amministratori miopi.
Quello che sta succedendo sulla questione della vita indipendente in Calabria per me è inaccettabile dal punto di vista etico e umano. Io non ci sto ad avallare questa situazione. Farò tutto quello che mi è possibile. E le Associazioni cosa faranno?».