Viviamo, si dice, nell’era della conoscenza. La quarta grande dimensione nella storia dell’economia e, quindi, della società umana. Dopo la prima e più lunga fase economica esperita dall’Homo sapiens, quella della raccolta e della caccia, all’incirca dieci millenni fa, in più parti del mondo, in maniera quasi sincrona, l’umanità ha iniziato a sperimentare un’economia fondata sull’agricoltura e sull’allevamento. Poi, poco più di due secoli fa, ecco la rivoluzione industriale e un nuovo tipo di economia e di società, quelle industriali appunto. Ora viviamo nell’era della conoscenza che, come sosteneva il sociologo Luciano Gallino, si muove e anche velocemente su due gambe: la continua produzione di nuova conoscenza scientifica e la continua innovazione tecnologica fondata sulle nuove conoscenze scientifiche.
Cosa significa in pratica? Che il valore di una parte crescente e ormai maggioritaria dell’economia è definito non più dalla somma del valore della materia prima e del lavoro (degli umani o delle macchine), ma dal tasso di conoscenza che contiene.
Quando acquistiamo un telefono cellulare, per esempio, non paghiamo tanto la materia che contiene né il lavoro necessario per assemblarlo: fosse così, il cellulare ci costerebbe al massimo qualche euro. Poiché per averlo paghiamo alcune centinaia di euro, è evidente che il prezzo è definito dalla conoscenza informatica che contiene.
Bene, è possibile dimostrare che l’economia in questa fase storica si fonda sullo scambio di beni, materiali e immateriali, e su servizi ad alto contenuto di conoscenza.
Un’economia che ha ottenuto grandi successi. Mai il mondo è stato così ricco. Mai ogni singolo membro dell’umanità ha avuto, in media, tanta ricchezza. Detto in altro modo: il reddito pro-capite dei 7 miliardi e mezzo di esseri umani è oggi di gran lunga il più elevato nella storia dell’umanità.
E tuttavia, come rilevava già qualche anno fa il Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, molte sono le “promesse infrante” dell’economia della conoscenza e di quella globalizzazione che ne è una delle componenti più caratteristiche.
Nel mondo mai così ricco, mai c’è stata tanta differenza tra i più ricchi e i più poveri. Mai c’è stata tanta disuguaglianza.
Nell’era che porta il suo nome, la conoscenza è un fattore di esclusione e non di inclusione sociale.
Allo stesso tempo, mai l’impronta umana sull’ambiente – non solo quella assoluta, ma anche quella pro-capite – è stata così marcata come nell’era dell’immateriale conoscenza.
Si tratta di due paradossi. Il primo perché sfruttando l’immaterialità della conoscenza, questa economia dovrebbe naturaliter generare una maggiore sostenibilità ecologica. Nel medesimo tempo, il bene conoscenza ha caratteristiche uniche: più la usi e più aumenta. Un’economia che si basa sulla conoscenza dovrebbe naturaliter generare una maggiore sostenibilità sociale, ovvero una più equa distribuzione della ricchezza. Una maggiore inclusione.
A questi temi, tre docenti dell’Università di Padova – Laura Nota, Marco Mascia e Telmo Pievani, i primi due collaboratori e l’ultimo direttore della testata «Il Bo Live» – hanno dedicato il libro intitolato Diritti umani e inclusione (Bologna, il Mulino, 2019). I tre, per la verità, sono i curatori del volume che vede la partecipazione di numerosissimi autori.
L’indicazione è chiara: l’università deve farsi carico del tema dell’inclusione. Anzi, l’università è il luogo più attrezzato per promuovere l’inclusione, elemento indispensabile della sostenibilità sociale ed ecologica.
Nel suo saggio, Laura Nota indica cosa dobbiamo intendere per inclusione. Occorre partire da una premessa: ciascun membro dell’umanità è diverso dall’altro. I fattori che generano quella che chiama la “super-diversità umana” sono sia biologici (nessuno di noi ha un DNA uguale a un altro), sia ambientali (ogni relazione con l’ambiente di un sapiens è unica e irripetibile) ed infine culturali. È chiaro, dunque, che per inclusione non bisogna intendere l’omologazione tra tutti gli individui, ma, al contrario, consentire a tutti di esprimere al meglio la propria individualità.
Ma forse è meglio riproporre la citazione di Laura Nota che richiama Shafik Asante, un afroamericano che si batte per i diritti civili: «L’inclusione è riconoscere che siamo tutti una sola cosa, anche se non siamo tutti la stessa cosa».
Questa parola e questo concetto vengono declinati in sedici diversi modi nei sedici diversi capitoli del libro. In tutti emergono il ruolo e i compiti dell’università.
Gli atenei, infatti, non hanno un ruolo marginale nella costruzione di una società democratica e, dunque, inclusiva della conoscenza. Intanto perché l’università è il luogo dove si produce conoscenza. Anzi, nuova conoscenza. E poi perché, come dicono i tre curatori nella prefazione, «il progresso e la fioritura delle comunità nascono dalla cooperazione e dalla convivenza», mentre «pregiudizi, ignoranza, superficialità delle relazioni, sono ostacoli» al progresso e alla fioritura delle comunità.
L’università è il luogo dove si combattono con le armi della conoscenza i pregiudizi, l’ignoranza, la superficialità delle relazioni.
È questa proposta nel libro un’interpretazione ben più estesa sia della “prima missione” sia della “terza missione” dell’università. La prima missione è quella dell’insegnamento, che non è solo disciplinare, ma deve essere, appunto, inclusivo. Deve rispettare il diritto fondamentale di tutti noi, portatori di una specifica diversità, di avere pieno accesso alla conoscenza.
La “terza missione”, invece, riguarda il rapporto tra università e società nel suo complesso. E nell’interpretazione di Nota, Mascia e Pievani (e dei loro collaboratori), questo rapporto deve essere teso alla rimozione di tutti gli ostacoli – fisici, psicologici, culturali – che impediscono «il progresso e la fioritura delle comunità» all’insegna della sostenibilità sociale e ambientale.
È in questo quadro generale che si inserisce un’offerta didattica particolare e articolata dell’Università di Padova: il General Course Diritti umani e inclusione, «un corso “trasversale” per gli studenti e le studentesse di tutti i corsi di laurea triennali e magistrali, finalizzato a favorire una maggiore consapevolezza della diversità presenti nel nostro tessuto sociale, dei diritti umani, dell’importanza di costruire insieme, ora e nel prossimo futuro, una società inclusiva».
Allo stesso modo l’Università di Padova organizza il Master Inclusione e innovazione sociale «che punta a preparare operatori, lavoratori e lavoratrici di settori diversi, a “declinare” la propria professionalità in modo inclusivo e sostenibile» [di quest’ultimo si legga già ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Non c’è modo migliore per interpretare la “prima” e la “terza missione” dell’università. Non c’è modo migliore per interpretare il ruolo dell’università nella società fondata sul bene che essa produce e diffonde, la società della conoscenza.