Se si dicesse che Don Antonio ’o Cecato era un celebre “posteggiatore” napoletano dell’Ottocento, qualcuno potrebbe comprensibilmente storcere il naso. L’obiezione appare ovvia: ma se non c’erano allora neppure le automobili… che razza di posteggiatore era? Occorre allora dare qualche rapida spiegazione.
In realtà l’arte dei “posteggiatori” affonda le sue radici a Napoli nella notte dei tempi. Costoro erano, come li definiremmo oggi, semplicemente dei musicisti di strada che, di solito, si esibivano in uno specifico “posto” fisso concordato con i concorrenti: strada, piazza o crocicchio a seconda delle esigenze.
Fra questi artisti, non solo a Napoli, abbondavano i non vedenti, anche se, purtroppo, solo di pochi ci sono rimaste memorie scritte. Ricordiamo soltanto, a titolo esemplificativo, il parmense Augusto Migliavacca (1838-1901), il torinese Eugenio Veritas (1847-1910) e il romano Pietro Capanna (1865-1921).
Don Antonio ‘o Cecato – il suo vero nome era però Antonio Silvio – nacque a Napoli, nel Vico Ecce Homo a Porto, nel maggio del 1816. Il padre era un militare, e precisamente primo sergente nei Cannonieri di Marina, mentre la madre faceva la cambiavalute all’angolo del Vico.
Il povero piccino era nato cieco. Quando divenne grandicello, il sergente dei Cannonieri gli comprò un violino e “Totonno” imparò a suonarlo da autodidatta. Così, quasi per gioco, si lanciò nell’arte musicale che poi gli doveva servire per mantenersi nella vita.
Un celebre cronista dell’epoca, il poeta Salvatore Di Giacomo (1860-1934), così lo descrisse: «Era allegro – come lo sono molti ciechi – era lungo lungo, gli mancavano l’esse, la g, la elle, mezzo alfabeto; faceva ridere; il popolo ne fece una conquista preziosa e lo volle ad ogni festicciola di sgravo, di promessa di matrimonio, di battesimo».
Il violinista trovò allora due compagni indivisibili: un suonatore di trombone e uno di ottavino. Il trombone gli attaccò il capo di una corda ad un buco del panciotto, si cinse dell’altro capo la vita e così sempre se lo trascinò dietro per i vicoli napoletani. L’ottavino faceva invece da battistrada.
Dal 1836 al 1893 Don Antonio suonò tutte le canzoni napoletane di metà Ottocento e, divenuto un’icona popolare, incarnò una sorta di antologia del pentagramma partenopeo plebeo. Tra le sue preferite vi era Cicerenella, motivo molto ritmato assai in voga in quegli anni.
Fu benvoluto nientemeno che da Giuseppe Garibaldi il quale, secondo alcuni testimoni, entrato vittorioso a Napoli nel 1860, volentieri gli fece da padrino di Cresima.
Questo aneddoto risulta tuttavia piuttosto strano: com’era possibile, infatti, che Don Antonio, all’età di 44 anni suonati, non avesse ancora ricevuto la Cresima? Garibaldi, inoltre, era noto per il suo acceso anticlericalismo.
Antonio Silvio conosceva a memoria e aveva in repertorio tutte le canzoni più eseguite in quei decenni. Per far contento allora l’Eroe dei due Mondi, sulla musica della canzone Lo zoccolaro adattò dei versi patriottici che divennero molto popolari in tutt’Italia. Il titolo della canzone fu La bandiera a nocca. Lasciamo ancora la parola a Di Giacomo, che ci racconta le giornate del “Cecato”: «Il trombone, prima del concerto, faceva al vicolo la presentazione e intesseva le lodi di Don Antonio: tra l’altro lo indicava “celibe per necessità” e questo faceva molto ridere, con le mani sul ventre, le comari del vicolo. Negli ultimi tempi suoi Don Antonio non fu più visto in compagnia del suo conduttore e dell’ottavino. Un bel giorno lo ritrovarono sui gradini della scala di San Giuseppe, stendeva la mano e chiedeva l’elemosina. Addio musica, addio violino, addio vecchie canzoni napoletane! Il cieco era stato abbandonato da’ suoi compagni girovaghi e aveva fame. Ad uno dei bottoni della sua giacchetta, costellata come un firmamento, pendeva ancora la cordicella che era servita all’ amico trombone per guidare Don Antonio, come un cane, attraverso le viuzze e i vicoletti napoletani: l’indizio della schiavitù era ancora attaccato a’ suoi panni».
Quando Don Antonio morì, nel 1893, il suo violino fu acquistato, quale cimelio prezioso, da Giovanni Capurro (1859-1920), l’autore delle parole di ’O sole mio. Scompariva così un personaggio davvero straordinario, una pennellata di colore senza vista, un emblema della cultura popolare partenopea.