L’unica buona notizia a conclusione dell’anno scolastico 2020-2021 è che è andata leggermente meglio rispetto al primo lockdown. Ogni scuola, in condizioni di notevole stress, ha garantito l’organizzazione delle attività, adattandole tempestivamente ai provvedimenti governativi, spesso non solo complicati, ma anche privi di adeguato preavviso (e anche con caratteristiche di illegittimità, secondo recenti Sentenze). Non vanno altresì dimenticate le variegate imposizioni: dall’utilizzo dei dispositivi di prevenzione, al distanziamento interpersonale, che stanno a testimoniare quanto di più deleterio possa esserci nell’ostacolare il processo di socializzazione fra adolescenti.
Inutile negarlo: in questa fascia di età (teenager) si transita dall’“amore verticale” (tipico del bambino che ama i suoi genitori e le sue maestre), all’“amore orizzontale” (l’amore viene spostato in pre-adolescenza e a maggior ragione in adolescenza verso il gruppo dei pari, da cui si impara ciò che serve, grazie alla costante interazione con i propri compagni di classe e amici) e ciò è stato semplicemente negato-impedito, per motivi sanitari e di tutela della sanità pubblica. Mi chiedo, però: come, in questo periodo, i nostri alunni e alunne hanno imparato a stare e a vivere in questo mondo? Quindi: che opportunità hanno avuto i nostri studenti con certificazione di disabilità di interagire con la propria classe? Ridottissime. La diffusione della didattica a distanza durante la pandemia ha acuito diseguaglianze preesistenti e aumentato il rischio di povertà educativa e dispersione scolastica. Altresì la vita, da tridimensionale, è diventata bidimensionale ovvero vissuta attraverso uno schermo… ma questa non è la realtà tangibile, è virtuale, quindi non spendibile.
Cosa abbiamo appreso, dunque, a scuola nell’anno scolastico 2020-2021? Dopo un mese di novembre di inevitabile (?) chiusura, dal 9 dicembre 2020 e nonostante tante variabili esterne che non intendo qui approfondire, i lavoratori della scuola hanno cercato di garantire, almeno in parte, la ripresa della didattica in presenza, e in presenza la maggioranza dei docenti e del personale ATA (Ausiliario Tecnico Amministrativo) ha operato coraggiosamente. Parecchie scuole hanno però deciso di rimanere totalmente “distanti” e ciò non solo ha fatto venir meno la nostra mission, ma non ha fatto bene né ai nostri studenti – ragazzi e ragazze -, né a noi adulti…
Personalmente ho appreso un paio di cose: vi è una minima incidenza di ammalati Covid all’interno della comunità scolastica e del concetto di cluster (significa che allorquando si registra un caso Covid positivo a scuola, si associano scrupolosi controlli sanitari obbligatori, ivi incluse le fastidiose quarantene fiduciarie delle classi, tese a rilevare eventuali altre positività che, in genere -anche se rilevate-, non erano riconducibili al contesto scolastico).
Alla prova dei fatti gli studenti hanno seguito le indicazioni e rispettato i protocolli di sicurezza. Gli sforzi profusi sono stati immensi e siamo letteralmente esausti, ma non posso non rilevare palesi contraddizioni e ipocrisie tecnico-operative emerse durante gli Esami di Stato. Quindi, sia nella secondaria di primo grado che in quella di secondo grado, “sotto esame” sono scattate stringenti norme anti.Covid: nelle stesse aule in cui erano presenti più di venti studenti sino all’ultimo giorno di scuola è stato deciso che, per effettuare il colloquio finale, non potevano essere presenti più di dieci persone (commissione e studente che doveva affrontare l’Esame di Stato del primo o del secondo ciclo). Ed ecco la perspicace osservazione di una “mia” alunna: «Come mai prof. mio padre non può assistere al colloquio?». E io laconicamente: «Siamo in troppi». Lei di rimando: «Ma come, a lezione, in un’aula più piccola, eravamo presenti in 20 persone e adesso che siamo in 9 non si può?».
Avere ritrovato in aula gli studenti, sebbene a spot, è sembrato quasi un miracolo, una concessione, in quanto la predisposizione di nuovi orari delle lezioni, la turnazione delle classi in presenza è stata pesantemente subordinata dalla “spada di Damocle” della limitata capienza dei mezzi pubblici. Assurdo. La scuola non è veicolo di diffusione e contagio, ma paga il prezzo; i nostri giovani ancor di più. Osservando il rientro a scuola e come è stata vissuta la didattica a distanza-didattica a digitale integrata, sono sempre più convinto che vi sia stata un’aberrazione sociale e civile della realtà. Ai nostri ragazzi-studenti e a noi adulti va semplicemente garantita la presenza a scuola, la socialità, in quanto al servizio della crescita umana. Quando potrò registrare sul campo, in vivo, la tanto decantata e rinnovata attenzione alle nuove generazioni, alla loro rinascenza culturale e formativa, umana e sociale?
A mio avviso il processo di socializzazione è semplicemente a supporto di un percorso di umanizzazione da contrapporre alla deumanizzazione in atto, complice lo sviluppo smoderato della tecnica. Inutile nasconderlo: è in atto una povertà intergenerazionale e si pensa di poterla compensare con le competenze digitali, trasferibili, nonché con le competenze imprenditoriali e specifiche per il lavoro. E per coloro che non riescono a tenere testa a questa sfida, come gli studenti con disabilità? Io penso invece che docenti, genitori, educatori, famiglie e territori locali debbano sperimentare neo-forme di organizzazione ricorrendo sì ai neo-mezzi, ma in ambiente low-tech [“a tecnologia semplice”, N.d.R.].
Ne ho visti molti di studenti, iscritti al diurno, amareggiati, chiusi a riccio e francamente ho osservato una sorta di spaesamento in ogni componente della comunità scolastica, chiusa anch’essa a riccio nel proprio piccolo orticello, accontentandosi dell’espressione «sa prof, l’importante è non ammalarci».
Sono incredulo, ancora oggi non mi capacito di come l’uomo facilmente possa essere ridotto alla mera sopravvivenza. No, non è da me: occorre vivere appieno l’esistenza, avendo l’anelito del “pieno sviluppo della persona umana”. Non voglio negare che a scuola, sul campo, si sia fatto parecchio, ma non si è osato andare oltre (ma se come insegnante specializzato non osassi, non cercassi di andare oltre il limite, come potrei stimolare il processo di apprendimento nello studente con disabilità che ho in carico?).
Cosa ho registrato nei giorni di rientro? La paura degli adulti la si registrava costantemente, la si palpava in modo evidente. I rituali propiziatori si sono affermati in modo ossessivo-compulsivo e contemporaneamente le italiche contraddizioni: la mascherina va cambiata due volte nell’arco della mattinata (ma a me ne forniscono solo venti in un mese e per lo più puzzolenti… ed ecco che i docenti si acquistano le loro personali mascherine…). Vanno disinfettate le superfici comuni ad ogni cambio dell’ora: ed ecco che il singolo docente curricolare interviene sulla cattedra e sul computer allocato in aula, con le finestre che, bloccate, non si possono aprire per intero e quindi il vero bisogno di ricambio d’aria – necessario per abbassare la concentrazione/carica microbica – non si può soddisfare, ma l’importante è disinfettare! Mentre l’aerosol-disinfettante fuoriesce dallo “spruzzino”, si liberano molecole maleodoranti che rendono l’aria asfittica e qualcuno inizia a tossire e l’adulto, docente disciplinarista, inorridisce: «Sarà il Covid-19?». Io che sono presente osservo gli occhi sbarrati del collega e resto sbigottito: la sospettosità e il timore per la propria salute è l’unica cosa che si sta affermando.
Altra scuola, altra situazione kafkiana: in pieno inverno in prima media si sta con le finestre spalancate per tutto l’orario scolastico e i ragazzini della classe, nonostante indossino cappotti o giacconi si ammalano di… influenza. Ed ecco che il protocollo impone il tampone e il cluster.
Ebbene, nonostante queste palesi contraddizioni, che si tende ipocritamente a non narrare, la scuola ha rappresentato un faro di speranza in un panorama diffuso di solitudine e desolazione.
Dopo questa doverosa introduzione generale desidero entrare nello specifico degli alunni e delle alunne con disabilità per i quali le varie difficoltà indotte dalla didattica a distanza sono state marcate. Nella scuola dell’infanzia e in quella primaria forse si sono registrati meno problemi, poiché è stata garantita una frequenza in presenza più assidua, ma nella secondaria di primo e secondo grado, nonostante le indicazioni ministeriali, non tutte le scuole hanno attivato la didattica in presenza per piccoli gruppi, sebbene per alcuni studenti con disabilità la didattica a distanza fosse semplicemente irrealizzabile.
È necessario che i buoni propositi si tramutino in azioni concrete, che si affermi un neo-approccio agli insegnamenti, strutturando ambienti di apprendimento per tutti in termini di UDL (Universal Design for Learning [“progettazione universale per l’apprendimento”, N.d.R.]). Infatti è risaputo che ciò che risulta necessario per qualcuno può divenire utile per tutti, secondo una prospettiva inclusiva mediante la quale si possa tener conto dei variegati stili di apprendimento presenti in una classe.
Ma come adattare i contenuti alle esigenze di ciascuno? Andando oltre la rigidità della proposta didattica unica, uguale per tutti, in quanto non risponde assolutamente al criterio di equità e al contempo, nel ventunesimo secolo, non funziona più. Creare una didattica flessibile significa prevedere varie forme di fruizione dei contenuti-conoscenze, conferendo allo studente – con o senza bisogni educativi speciali – la possibilità di scegliere, incontrare e scoprire quella più efficace e funzionale per lui.
Se l’inclusione è uno degli obiettivi previsti dall’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, come ciò è stato tradotto pragmaticamente? A mio avviso occorre estendere e applicare, lungo tutto lo Stivale, neo-approcci inclusivi, che vadano oltre la capacità di Problem Solving [“soluzione dei problemi”, N.d.R.], che sostengano sia il pensiero critico sia la creatività. Al contempo va stimolato l’impegno attivo nella propria comunità-territorio, ciò che permetterebbe ai nostri studenti – inclusi coloro che si trovano in condizioni di maggiore vulnerabilità – di accedere al proprio potenziale di sviluppo e di superare i gap che limitano la «piena realizzazione della persona umana» (articolo 3, comma 2 della Costituzione Italiana).
L’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, inserito con il Decreto Interministeriale 182/20, nei nuovi modelli di Piani Educativi Individualizzati (PEI), ci aiuta potenzialmente a guardare la persona e la sua performance all’interno dei contesti in cui si trova, superando lo stigma della diagnosi-certificazione. Si sostiene che abbiamo un’occasione di cambiamento che è utile cogliere, ma è indispensabile ragionare in termini di corresponsabilità educativa di tutto il personale docente e non. Tale prospettiva, però, la vedo dura sul fatto che possa affermarsi in un periodo medio-breve.
Il vero scoglio nella scuola secondaria, e in modo particolare alle superiori, è la concreta applicazione di didattiche flessibili e ambienti di apprendimento congrui che, immancabilmente, richiedono una riduzione del numero di studenti per classe e ciò con il fine di far sì che la classe stessa diventi un luogo ove i discenti, da individui attivi, realizzino la possibilità di divenire protagonisti del loro percorso formativo e partecipi dei processi educativi che li riguardano.
Leggo molto favorevolmente il concetto di autodeterminazione che è stato ribadito nelle Linee Guida allegate al citato Decreto 182/20 (personalmente ho sempre invitato l’alunno della secondaria di secondo grado a raccontarmi e raccontarci, in sede di GLO ex GLHO [il GLO è il Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione, N.d.R.], come vedeva se stesso nel futuro e cosa desiderava ottenere nel presente in termini di supporto, affinché il suo percorso formativo potesse essere sostenuto al meglio, con adeguate e personali “facilitazioni-adattamenti”).
Mettere al centro la persona e salvaguardare la sua unicità di individuo è compito precipuo della pedagogia. Tenuto conto che sono in aumento gli alunni con disturbi del neurosviluppo, disturbi dell’umore, ansia e depressione (complice la pandemia), senza dimenticare l’aumento delle cosiddette nuove dipendenze, dall’uso dei device ai telefoni cellulari, credo sia urgente porre rimedio ovvero intervenire.
Convivere con lo stress è diventata una consuetudine, ma ciò nuoce sia al processo educativo che a quello formativo. Certo non è facile garantire una buona qualità all’offerta formativa e sostenere un alto livello di apprendimento per ogni studente, ma occorre partire dal fornire certezze a chi è chiamato a sostenere questo impegno, docenti in primis.
Come pensare di far sì che ogni insegnante sia messo nella condizione di gestire didatticamente tutti gli alunni della classe? Occorrerebbe innanzitutto superare la prassi valutativa che fa riferimento a obiettivi di apprendimento standardizzati, a partire dal primo anno della scuola secondaria di primo grado. La personalizzazione dei ritmi e dei tempi di apprendimento individuali potrebbe essere anche sostenuta dalle innovazioni tecnologiche, ma necessiterebbe un’adeguata formazione iniziale e in servizio per tutto il personale docente (altro che le mere 25 ore di formazione…).
La base giuridica per attuare ciò è presente nella Legge 107/15 (comma 1, Personalizzazione e comma 124, Formazione obbligatoria, permanente e strutturale), ma non può attuarsi per l’ennesima volta a titolo gratuito (per quindici mesi noi docenti ci siamo letteralmente formati gratis et amore dei, pur di continuare a garantire il nostro servizio didattico). A me pare che a tutt’oggi i docenti risultino essere gli unici dipendenti statali che, con i propri mezzi, permettono l’erogazione di un servizio pubblico (incongruenza e ipocrisia docet).
I miei genitori e i miei nonni, allorquando rispettivamente erano adulti e giovani, sapevano – siamo nel dopoguerra e nella seconda metà del Novecento – di avere due compiti importantissimi: la ricostruzione dell’Italia e la riconquista della libertà. Noi adulti abbiamo sentito parlare e registrato dalla viva voce dei nostri padri la storia della ricostruzione di questo Paese – il “miracolo italiano”- e ci siamo fatti delle mappe mentali oltre che delle raffigurazioni precise della realtà passata. Ai nostri giovani del ventunesimo secolo cosa concorriamo a costruire nelle loro menti? Come contribuiamo a dare continuità intergenerazionale? Francamente osservo un depauperamento della vita reale a favore di quella virtuale, un mondo socio-relazionale che ha perso la dimensione della presenza de visu e i nostri studenti fragili sono quelli che pagano il prezzo più alto. In altre parole, il tributo più alto viene pagato in modo salato da coloro che hanno un numero minore di strumenti cognitivi (barriera) che permettano loro di elaborare la realtà circostante e di immergersi in essa, vivendola appieno.
Come fare, quindi? Rilanciando l’umano che è in noi. In presenza, allorquando interagivo con gli studenti-adolescenti, i loro occhi si illuminavano, accendevo in loro il desiderio di relazionarsi e, pur dalla mia posizione debole di insegnante specializzato (eh sì, non insegno alcuna materia), mi rendevo conto che volevano esserci, testimoniare una presenza viva.
La scuola, in quanto intreccio tra sviluppo di personalità ed esperienze culturali, è comparabile a un concatenamento tra conoscenze-competenze acquisite e, conoscenze-competenze maturate in relazione, in presenza. Ovviamente compito del docente è fare in modo che ciò che si studia si ponga in sintonia con ciò che è e si è vissuto: è allora che l’apprendimento diventa significativo.
La scuola, pertanto, per essere considerata un luogo educativo, è necessario si riappropri in modo più dinamico di questo ruolo. Con la dichiarata pandemia abbiamo perso per strada alcuni alunni fragili e altri lo sono diventati; di fatto non hanno saputo-potuto fronteggiare senza adeguati supporti e sostegni il grave peso del distanziamento. Il “Piano Estate” alle superiori ha riscosso poco successo fra gli adolescenti che non vedevano l’ora di liberarsi dello schermo del loro copmputer: il surrogato dell’esistenza reale. Difatti parecchi discenti, prostrati e frustrati, nonostante le proposte offerte loro – connesse con il “Piano Estate” -, hanno preferito riappropriarsi del loro quotidiano. «Sa prof. non ne possiamo più di vivere in questo modo. A casa, davanti al monitor, non è più vita». E ancora: «La scuola ha fatto anche buone proposte per l’estate, ma sa, vogliamo finalmente essere liberi, trovarci dove vogliamo noi». Come dar loro torto?
Esimio Ministro della Pubblica Istruzione, se si vorrà agganciare i giovani occorrerà programmare e pianificare con largo anticipo… Va da sé che, in base a questo panorama, gli alunni fragili resteranno ancor più soli e lo studente con disabilità dirà ai docenti-adulti: «Sappiate che desidero io rimanere sulle mie, da solo»… Il meccanismo di difesa è scattato e lo studente isolato fa diventare proprio uno stato di fatto, facendosene una ragione. Sigh!
La normalità, a mio modesto parere, è solo in presenza; ivi possiamo apprezzare condivisione e socialità. Credo che la scuola possa essere uno strumento affinché ogni alunno diventi se stesso incontrando il mondo circostante. La scuola, facendo scoprire ad ognuno i propri talenti, dovrebbe sostenere la scoperta della propria strada. Valorizzare ad esempio il PCTO (alternanza scuola-lavoro) ci si può aprire al mondo, così come valorizzando folclore, cultura, colori e sapori di ogni Paese di origine, si può far meglio comprendere la poliedricità del nostro globo terrestre, apprezzandone la bellezza, frutto di complementarietà.
Il Covid ha contribuito a scoperchiare il vaso di Pandora della pratica scolastica, già in bilico prima della pandemia. I ragazzi non colgono più il senso della scuola? Ma i docenti lo testimoniano? Gli studenti si chiedono «perché studiamo?», «in vista di quale prospettiva?». Noi docenti riferiamo loro perché insegnamo? Come adulti abbiamo abdicato a dare un senso al tutto in quanto non lo narriamo più, non lo raccontiamo perché non ci crediamo. «Le cose – dice la mia più che ottuagenaria madre – oggi si fanno tanto per farle», intendendo con ciò che non ci si mette più passione, gioia, desiderio e piacere nell’agire. Spesso tra i corridoi della scuola, ma anche tra le strade cittadine, vedo “zombie”, persone che… tirano a campare.
Precisando che la scuola non può somigliare ad un’azienda piegata alle logiche del profitto, va pur ribadito che sebbene le competenze siano importanti, esse non possono essere i soli obiettivi da conquistare. Il successo formativo che ho registrato nella studentessa con disabilità del quinto anno è stato quello di assistere alla sua performance, osservarla interagire in modo dinamico con la Commissione, recitare una parte attiva nel corso del maxi-colloquio. Il suo sorriso, il sentirsi attrice della trasmissione del proprio sapere, mi ha fatto comprendere che l’obiettivo è stato pienamente conquistato e che il voto di 76 centesimi lo testimonia solo in parte. Le nuove direttive sull’inclusione e il nuovo Piano Educativo Individualizzato hanno evidenziato quanto sia importante valorizzare l’allievo attraverso le sue conoscenze, competenze, attitudini e interessi. Importante è creare il giusto ambiente di apprendimento, sostenendo al contempo le potenzialità degli studenti tutti, ma in particolare quelli con disabilità.
Oggi non è facile fare l’insegnante e men che meno testimoniarlo con la propria disponibilità e vicinanza. A mio avviso si diventa testimoni e maestri allorquando si insegna per passione, diversamente non si potrebbe essere un docente disponibile a subire gli attacchi che gratuitamente arrivano: dalla didattica a distanza/didattica digitale integrata – durante la quale, gli insegnanti «non hanno fatto nulla», ai due mesi di vacanza estivi.
Va da sé che i malumori dei docenti dilaghino a maggior ragione quando, come si è fatto con l’introduzione dei nuovi PEI in chiave ICF, si tende a scaricare costantemente sulle spalle dei docenti neo-incombenze procedurali (così viene vissuto lo strumento PEI, al pari dei PDP-Piani Didattici Personalizzati).
Il processo di insegnamento-apprendimento è caratterizzato da innumerevoli tappe, che vanno dalle innovazioni didattiche e informatiche, ai dettami delle norme che intervengono a modificare il precedente: da qui l’esigenza che i docenti si formino, ma sono sempre atti dovuti. A tal proposito i Dirigenti Scolastici tendono oggi a sollecitare i docenti alla costante autoformazione mediante seminari in rete (webinar), negando così la possibilità che gli insegnanti possano formarsi durante i cinque giorni di permesso di cui avrebbero diritto a usufruire. E questo è l’ennesimo segnale non solo di una svolta dirigistica, di cui avevo già parlato su queste stesse pagine, ma un leit-motiv sempre più volte reiterato: tutto è dovuto. Alla formazione, infatti, vanno aggiunte tutte le attività funzionali all’insegnamento che i docenti sono chiamati a svolgere, per cui la vasta mole di impegni a volte genera insofferenza verso questo incessante, a tratti esasperante, richiamo del docente al suo senso del dovere: nelle scuole si è addirittura giunti a produrre ben due Circolari al giorno pur di regolamentare il tutto. Di fatto vuol dire dedicare un’immane quantità di tempo solo per leggere le Circolari e le centinaia di pagine a cui si fa rimando per tematiche che poco e niente hanno a che fare con l’insegnamento, ma molto hanno a che fare con l’organizzazione di un apparato che, a mio avviso, si sta irreggimentando.
Nei fatti molte energie mentali dei docenti, insegnanti specializzati in primis – da cui ci si aspetta sempre un intervento “esperto”, in realtà alibi dei docenti curricolari per delegare -, vengono assorbite da innumerevoli incombenze che hanno a che fare con il processo di insegnamento-apprendimento solo in modo marginale e si giunge a fare lezione sfiniti. Ovviamente, quando funziona la relazione, tutto il resto viene di conseguenza, in quanto si fonda sulla fiducia reciproca e quando vi è fiducia si è disponibilo ad affidarcisi alle attenzioni dell’altro. Per fare ciò, ovvero per creare un clima di classe aperto, dinamico, partecipe, necessita essere molto concentrati, costantemente sul pezzo, fare da mediatore e regista in presa diretta, ma, troppo spesso, vedo giungere in classe colleghi esausti, che anche se hanno ancora un po’ di buona volontà, sono logorati da incombenze e pensieri che la scuola, in quanto Istituzione burocratico-amministrativa, scarica sulle spalle dei docenti. Tali impegni indiretti, connessi con la funzione docente, sottraggono tempo e lucidità all’azione didattica-educativa da porre in essere in aula.
Il modo di fare scuola oggi fa la differenza a maggior ragione allorquando si ha a che fare con studenti con bisogni educativi speciali. In altri termini le “metodologie” possono concorrere a sostenere l’inclusione (quindi, ad esempio, se si tratta di effettuare una produzione scritta, vuol dire avere il controllo della parola), ma accanto a ciò, è necessario avere coscienza che è possibile usare neo-strumenti in modo duttile, quali video, immagini, suoni. La produzione scritta, quindi, si può arricchire, può essere implementata, integrata.
E prendiamo la vituperata lezione frontale. Le modalità comunicative esplicitate sul “campo” dall’insegnante possono renderla avvincente, emotivamente coinvolgente, espressa in modo comprensibile. Raccontare storie significative, utilizzare aneddoti, effettuare esempi con enfasi, può affascinare qualunque alunno, ivi incluso lo studente con disabilità intellettiva e/o con disturbo del neurosviluppo: ciò che passa, infatti, sono “vibrazioni emotive”. L’intensità-pathos, agganciata al messaggio che trametto, fa sì che il contenuto implicito ed esplicito transiti nella reciprocità dinamica della relazione, anche se si tratta di “lezione frontale”. Per fare ciò occorre spendersi, ma se il docente giunge in aula un po’ spento, come potrà operare per fascinazione?
Anche la lettura di un semplice brano può affascinare ed essere utile. Si possono far vivere fantasie, lasciando spazio alle varie interpretazioni del testo. La lettura di un’opera può offrire un esempio, può fare interpretare e superare momenti di timidezza, ovvero far comprendere talune emozioni (felicità, tristezza, rabbia); può trasmettere il sapere attraverso il coinvolgimento. Ecco perché, potenzialmente, anche la lezione frontale può configurarsi come occasione di scambio, di confronto e di crescita.
Ora vorrei fare un affondo sulla cosiddetta metodologia del cosiddetto Project Work che viene considerata un metodo attivo, dinamico per sostenere che, qualsivoglia metodo utilizzato con spinta intrinseca, risulta essere pro-attivo ovvero coinvolgente e stimolante.
La metodologia del Project Work basato sui bisogni e curiosità degli studenti dovrebbe cercare di creare una “sfida cognitiva”, richiedendo la ricerca e la fruizione di nuovi contenuti. Il tutto parte da un’idea progettuale e si può articolare in quattro sequenze operative che possono coinvolgere tutti gli alunni della classe, persone con grave disabilità comprese.
Partendo dall’1) esperienza di vita, che ha lo scopo di creare un humus favorevole alla motivazione (ogni studente preadolescente e adolescente ha esperienze vissute e problemi che ha trovato nel suo cammino esistenziale e che può narrare e condividere con i pari), si può 2) osservare il problema, attraverso la sua descrizione mediata da scrittura, oralità o iconografia indi creare un primo livello di consapevolezza (conoscenza iniziale); successivamente 3) il problema va osservato da diversi punti di vista e creando un secondo livello di consapevolezza, si cercherà di costruire un significato simbolico in un contesto di socialità; da ultimo 4) la soluzione del problema dovrebbe essere mediata da un’intensa fase di comunicazione a livello di gruppo, al fine di poter permettere, a tutti gli studenti di quella classe, l’appropriazione sia di conoscenze sia di un più elevato grado di consapevolezza del mondo.
Con questa modalità di lavoro, che dovrebbe essere diffusa a partire dalla scuola primaria, si stimolerebbe la capacità parlare e ascoltare, indi di discernere. Si indurrebbe la voglia di apprendere per scoperta, si sosterrebbe l’utilità di approfondire, di aiutare e sviluppare le competenze essenziali per la formazione a trecentosessanta gradi della persona in formazione. Inoltre il Project Work, che si propone un coinvolgimento diretto scenti e insegnanti, dovrebbe essere affiancato da un percorso di autoriflessione.
Quindi il lavoro in classe, mediato da un progetto, può potenzialmente sviluppare socialità, affettività ed estetica, ma richiede al formatore-educatore una capacità di negoziare azioni, regolare il processo di insegnamento-apprendimento e cercare di valorizzare il contributo di ciascuno nel gruppo.
Concludendo questo affondo metodologico, posso affermare che le esigenze della formazione e dell’educazione della nostra società post-industriale richiedono il dover offrire ai nostri discenti una visione globale del mondo in cui si vive e per far ciò è indispensabile collegare l’apprendimento a situazioni e problemi reali, facendo sì che ciascuno interagisca con l’altro unendo le forze, ovvero agire in modo cooperativo, così da affrontare e cercare di risolvere i problemi.
Educare e formare alla vita oggi, nella società della comunicazione, richiede lo sviluppo di competenze utili a raccogliere informazioni da più fonti, è utile quindi sviluppare capacità di argomentare suffragando i contenuti con tesi che abbiano uno spessore conoscitivo. E risulta opportuno essere in grado di agire, nella società della complessità, per poter affrontare nuovi problemi, cooperare per poter presentare proposte costruttive.
A questo punto la domanda è: come è possibile accompagnare i nostri alunni e alunne fragili in un cammino costruttivo, in questo panorama sociale, caratterizzato da cambiamenti ultrarapidi, veicolati anche dall’uso delle tecnologie? È vero i nostri studenti nascono in un mondo tecnologico e padroneggiano le nuove tecnologie, ma spesso accade in modo superficiale; l’introduzione della metodologia del Project Work dovrebbe quindi permettere agli insegnanti, mediante l’uso degli strumenti messi a loro disposizione, di aiutare gli alunni e le alunne a sviluppare abilità sia cognitivo-apprendimentali, sia emotivo-affettive e sociali.
Ma sono gli strumenti e i metodi (ho suindicato sia la lezione frontale – scrittura e lettura, metodo considerato vetusto -, sia il Project Work, metodo innovativo) che fanno la differenza o la modalità con la quale si utilizzano? A mio avviso ciò che fa la differenza è la forza-spinta che la persona adulta imprime alla lezione, che fa sì che quest’ultima diventi “avvolgente e motivante”, lasciando il segno.
Lo risottolineo con forza: la vita è tridimensionale e non bidimensionale; perciò è essenziale il rapporto docente-discente, che dev’essere generativo, ovvero caratterizzato da un’interazione dinamica che fa crescere. Ciò precisato, va da sé che l’essere in presenza facilita le relazioni sociali, mentre – utilizzando sempre il linguaggio ICF – lavorare a distanza immancabilmente determina una restrizione della partecipazione sociale ovvero diviene una barriera in più. Quindi, nei fatti, la didattica a distanza – o didattica digitale integrata che dir si voglia -, rappresenta un freno a mano socio-relazionale che mortifica la componente pedagogico-formativa. Senza dimenticare che la diffusione della didattica a distanza durante la pandemia ha acuito, come già detto, diseguaglianze preesistenti e aumentato il rischio di povertà educativa e dispersione scolastica. L’“apri e chiudi” delle scuole ha determinato dei vuoti nel processo di crescita e apprendimento degli studenti tutti; la stessa didattica a distanza/didattica digitale integrata, se ha avuto il merito di garantire il diritto allo studio, ha comunque intralciato quello che è il vero processo di integrazione e interazione fra gli studenti, rallentando il processo di crescita e formazione degli allievi più fragili.
Concludendo questo excursus a trecentosessanta gradi, penso che la pedagogia abbia come scopo ultimo quello di mettere al centro la persona e salvaguardare le unicità degli individui-studenti. E inoltrando questa sollecitazione ai rappresentanti del popolo: loro mettono al centro della vita del Paese i Cittadini salvaguardando il «pieno sviluppo della persona umana»? Se importante nella società della conoscenza è studiare, perché non cambiare il paradigma: dallo spendere, all’investire in istruzione?
Negli ultimi mesi, costantemente i politici, come se fosse un mantra, ripetono l’espressione «la Scuola è centrale per il futuro del Paese, come lo è nei piani di intervento del PNRR [Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, N.d.R.]». Ma è davvero così o si sta facendo mera retorica?
Oserò in questa sede effettuare la comparazione fra il mio essere insegnante specializzato e l’essere un rappresentante del popolo che siede in Parlamento (Camera o Senato che sia).
Innanzitutto voglio sottolineare che non si può improvvisare la professionalità nella specificità. Essere docenti di sostegno è una scelta, non è solo una risposta ad una potenziale vocazione. So per certo che è necessaria un’intrinseca e forte motivazione che dev’essere accompagnata da autenticità e formazione specifica. Da oltre cinque lustri sono docente di sostegno e conservo nella mia mente e nel mio cuore storie che mi hanno fatto crescere sia professionalmente, sia umanamente. Essere insegnante specializzato presuppone però una formazione che comprende l’acquisizione sia di competenze psicopedagogiche che relazionali. Coloro che siedono sullo scranno del Parlamento hanno competenze organizzativo-gestionali? Hanno la capacità di fare scelte tese a valorizzare chi lavora al servizio della crescita delle altre persone, operatori della scuola in primis?
Come docente di sostegno devo sapermi mettere in ascolto per avvicinarmi ed entrare delicatamente nella storia dell’altro, per cercare di comprendere ed esplorare il mondo dello studente e non solo quello esteriore. È necessario che scopra le sue potenzialità-punti di forza su cui costruire, ma conoscere anche i punti deboli, per educare, ovvero tirar fuori ciò che c’è di più bello nell’altro e co-costruire benessere.
Nell’estrinsecare il mio “mestiere”, è utile essere accoglienti, disposti a mettersi in discussione, rompere gli schemi precostituiti per imparare a “osare”, per andare “oltre”. È necessario che abbia a rischiare di lavorare sulla “zona di confine” ossia nella “zona di sviluppo prossimale”, per reinventarmi e realizzare qualcosa di straordinario, oltre la routine rassicurante. I nostri Parlamentari avranno il coraggio e l’audacia di ragionare in modo da accettare la sfida di andare oltre al loro personale consenso “qui e ora”? Sapranno dare una vision al Paese? Ascoltano il popolo che rappresentano oppure prediligono operare in una pseudo zona di confort, con espressioni verbali edulcorate e prive di azioni pragmatiche che abbiano un’effettiva ricaduta nel mondo della scuola? Oggi si fa tanto parlare di assumere insegnanti specializzati poiché ce n’è bisogno, ma si è noncuranti della loro preparazione professionale e specifica…
Inoltre, fare l’insegnante specializzato vuol dire essere disposti a realizzare un lavoro di rete, coinvolgere le famiglie, sostenerle e comunicare con le altre figure specialistiche, collaborare con i colleghi curricolari per poter ipotizzare la realizzazione di un progetto di vita con il “nostro” studente. Significa favorire l’inclusione, sostenere il processo di crescita attraverso il confronto con i pari, realizzando costantemente un monitoraggio, momenti di tutoraggio, di confronto o drammatizzazione, di problem solving, in altri termini di preparazione alla vita sociale, ciò che è mancato in quest’epoca di Covid. Essere insegnante di sostegno devi sentirlo dentro, devi provare il desiderio di abbracciare la storia per farne parte, per camminare insieme a chi incontri durante il percorso formativo. I nostri politici sentono dentro il desiderio di apportare migliorie a questo nostro Paese? Ricordano che concorrere a fare la storia e a costruirla è una responsabilità soggettiva e collettiva e, oltremodo, necessita dare il buon esempio?
In conclusione occorre sottolineare che nel nostro Paese ci sono ben due milioni di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, i cosiddetti neet. Assistiamo a fenomeni come bullismo, cyberbullismo, oltre che ad atteggiamenti autolesionistici. In altri termini, nel mondo giovanile vi è un espandersi di un sottobosco di disagi che abbiamo il dovere di affrontare, risolvere. Il Next Generation dell’Unione Europea ci dà la possibilità di ridisegnare potenzialmente questa Nazione, il suo futuro. Ma il futuro, per antonomasia, appartiene ai giovani ed è proprio dai giovani che dobbiamo ripartire. Come? Intraprendendo una strada che porti ad affrontare ed eliminare i disagi, a curarli, a prevenirli. Mediante il Recovery Plan, alias Piano di Ripresa e Resilienza, sarà necessario partire dal basso al fine di poter raggiungere i ragazzi nel loro mondo e nei loro spazi. I Parlamentari e il Governo avranno il coraggio di assumersi congrue responsabilità? Chi ci governa crede che la scuola potrà essere un posto più bello di quello che è? In relazione ai danni che oggi immancabilmente si registrano, causa l’insufficiente attenzione alla formazione culturale dei cittadini, si vorrà supportare l’istruzione-educazione dei giovani quale elemento vitale di una democrazia matura?
Quindi, se da un lato i docenti dovranno tornare a credere che l’insegnamento è il mestiere più bello del mondo, dall’altro la scuola ha bisogno di risposte concrete. Noi, lavoratori della scuola e cittadini liberi, aspettiamo fiduciosi; ne va del futuro di questo Paese.