Alcuni bimbi palestinesi con disabilità non hanno mai visto il sole!

Intervista a Hamdan Jewe'i
In Palestina le famiglie più povere e prive di un'educazione tengono segregati in casa i figli con disabilità, per evitare quella che considerano una vergogna sociale. Hamdan Jewe'i ha vissuto i suoi primi undici anni chiuso in una stanza. Oggi ne ha 26 ed è venuto in Italia a cercare un partner per creare nella sua terra un centro dove le persone con disabilità possano lavorare e in questo modo riscattarsi socialmente

Hamdan Jewe'iHamdan Jewe’i è giovanissimo, ha solo 26 anni, e fa parte di undici organizzazioni, tra locali, nazionali e internazionali, quattro delle quali fondate da lui stesso.
È palestinese e vuole che nella sua terra le persone con disabilità possano godere degli stessi diritti e farsi carico degli stessi doveri di tutti gli altri. Venuto in Italia per seguire un corso intensivo sui diritti umani e lo sviluppo della cooperazione internazionale, in questi giorni e prima della sua partenza a fine mese sta incontrando diverse realtà locali in giro per la penisola, allo scopo di trovare un partner che collabori alla realizzazione di un suo ambizioso progetto. Hamdan vuole infatti creare in Palestina un centro che ha chiamato GEDD (Gateaway Enterprise for Disabled Development), dove offrire posti di lavoro alle persone con disabilità.
Nato a Betlemme, è egli stesso persona con disabilità. Ha subito numerosi interventi chirurgici alle gambe e cammina sostenuto da un paio di stampelle.

Che significato ha il GEDD nella tua terra?
«Un significato importantissimo, un segnale in controtendenza in uno Stato che non prende in considerazione a nessun livello i propri cittadini con disabilità che sono tantissimi, 170.000, di cui molti vittime di episodi di guerra».

Che cosa offre lo Stato sociale alle persone con disabilità in Palestina?
«Nulla. Non c’è nessun sistema sociale, non abbiamo una pensione, non un’assicurazione né alcun altro tipo di sostegno governativo. Le famiglie con figli disabili, dunque, si trovano completamente sole. E non basta. Perché per quelle più povere c’è anche un problema culturale, legato alla tradizione radicata nei villaggi e nei paesini che collega la venuta al mondo di un figlio non sano a un episodio di vergogna sociale. Molti figli vengono tenuti nascosti e mai fatti uscire di casa. Alcuni non hanno mai visto il sole. In questo senso abbiamo grossi problemi a livello di educazione. Molte persone non hanno idea di come comportarsi con un figlio disabile  e non ricevono alcun aiuto. Non c’è alcun sistema educativo che aiuti le famiglie a capire che anche i figli con disabilità possono diventare qualcosa di significativo per il futuro e per la società».

Una vicenda simile è capitata anche a te.
«Sì. Da quando sono nato, fino al mio undicesimo anno di età, sono rimasto chiuso in una stanza all’interno della mia casa. Non sono mai uscito e non vedevo nessuno, nemmeno la mia famiglia. I miei genitori sono poveri e di estrazione culturale molto bassa. Mia madre si è sposata a 14 anni e mio padre da quando ne aveva 8 lavorava insieme al suo. Hanno sempre abitato in un villaggio, senza alcuna forma di educazione e non avevano gli strumenti per capire come comportarsi con me, non erano abbastanza “civili” per capire il concetto di integrazione sociale. Nel mondo arabo la famiglia è una struttura sociale fondamentale che impone le proprie tradizioni a tutti i membri della sua comunità. È impensabile non seguire le tradizioni dei propri nonni».

Come hai fatto a uscire da quella stanza?
«In undici anni di reclusione avevo sviluppato dei problemi psicologici, ero molto violento. Un giorno mia madre ha aperto la porta e io prima l’ho aggredita e poi sono scappato. Ho corso fino alla strada. Uno dei vicini – venuto a vedere cosa stesse accadendo – riuscito a prendermi e a portarmi a casa sua. Quando mi sono tranquillizzato gli ho raccontato la mia storia. Lui non sapeva neppure della mia esistenza. Ha provato a riportarmi a casa, ma inizialmente mia madre mi ha rifiutato perché mi giudicava un “peso morto” e una vergogna per la famiglia, un disabile senza speranze».

Un'altra immagine di Hamdan Jewe'i durante una delle sue attività in PalestinaTi sei riconciliato con tua madre?
«Non ha agito con cattiveria, era solo ignorante. Una volta alla radio locale ha ascoltato un programma sulla disabilità e ha telefonato subito in diretta parlando di me e chiedendo consigli, ammettendo di non sapere cosa fare. Mi ha riaccolto in famiglia e si è scusata. Tuttora, quando incontriamo amici di famiglia che però io non conosco, fingo di aver vissuto a lungo fuori dalla Palestina, per non creare imbarazzo. La prima cosa che ha fatto la mia famiglia riaccogliendomi è stata quella di inserirmi in un centro sportivo dedicato anche alle persone con disabilità. Anche se non sono diventato uno sportivo, rapportandomi con le persone ho capito che quello che mi interessava era tessere relazioni per costruire una rete sociale. Tramite questo centro la mia famiglia e io stesso siamo stati seguiti da uno psicologo ed è stato lui a invitarmi a partecipare a un campo di lavoro vicino a Betlemme. Lì – era il 1999 e avevo 13 anni – mi sono innamorato dell’Italia».

Come mai?
«Ho partecipato al campo per 21 giorni e ho conosciuto un gruppo italiano del Servizio Civile Internazionale. Sono stati molto simpatici con me, mi hanno trattato bene e per la prima volta ho cominciato a sentirmi più sicuro di me stesso.
Poi, l’anno dopo, ho vissuto un’altra esperienza importantissima perché il coordinatore del gruppo, un italiano, mi ha ospitato nella sua casa e mi ha coinvolto in una serie di attività con altre persone con disabilità. Da lì non ho più smesso di fare corsi ed esperienze formative che mi portano oggi a sentirmi molto sicuro di quello che dico: le persone con disabilità hanno diritto a una vita dignitosa al pari di tutti gli altri».

Sei diventato un giovane socialmente molto attivo.
«Ho partecipato a moltissimi convegni e ad altri eventi, ho fondato delle associazioni come la Lighting Candles, nel 2005, per aiutare i giovani palestinesi a ritrovare fiducia in se stessi, nonostante le dure condizioni di vita sotto l’occupazione israeliana, in uno Stato la cui economia è morta e i punti di controllo degli occupanti sono 750.
Sono diventato un consulente freelance sull’argomento disabilità. Incontro personalmente le famiglie e offro anche un supporto psicologico. Cerco di mettermi in contatto con situazioni di segregazione allo scopo di sbloccarle».

E come fai?
«Soprattutto con il passaparola. Nei villaggi le notizie passano velocemente di bocca in bocca, così, quando arrivo, si fa presto a far sapere a tutti che sono in grado di offrire un aiuto a famiglie che hanno persone con disabilità in casa.
Mi è capitato ad esempio tre anni fa di incontrare un uomo che mi ha confessato di tenere rinchiusa la propria figlia con problemi psichici nel sottoscala da vent’anni. Non ne aveva registrato neppure la nascita e quando l’ho invitato a farlo, per dare finalmente un riconoscimento formale alla sua esistenza, si è spaventato e non è più tornato. Si vergognava troppo del giudizio sociale. Temeva di perdere il rispetto e di venire deriso. Oggi purtroppo di questa ragazza non so più niente».

Perché ritieni che l’Italia possa avere un ruolo nel cambiare questa situazione?
«Vorrei trovare qui un partner che credesse nel mio progetto. Se fosse italiano sarebbe un sogno perché, come dicevo, sono innamorato dell’Italia. Vorrei che insieme si riuscisse ad aprire questo centro, cambiando la vita a molte persone in Palestina».

Questa è la prima volta che vieni in Italia?
«No, nel 2005 ero già venuto dagli amici conosciuti a Betlemme per poter usufruire della sanità italiana e ricevere delle cure. In Palestina, oltre al fatto che non c’è alcun servizio ospedaliero gratuito, il livello di preparazione e la ricerca medica sono arretrati rispetto all’Italia».

Quali sono le caratteristiche principali del GEDD che ti immagini?
«Mi sono ispirato a un modello inglese che integra una situazione profit con una situazione non profit. Voglio rivolgermi alle persone con disabilità e alle loro famiglie, offrendo corsi di formazione professionale e artigianale e poi occasioni di inserimento lavorativo, in modo da essere fautori di integrazione sociale, al di fuori ma anche all’interno delle famiglie stesse». (Barbara Pianca)

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