Robert F. Murphy, pioniere ancora solitario degli studi sulla disabilità

di Matteo Schianchi*
"Disabile che andava a fare ricerca tra altri disabili", l'antropologo statunitense Robert F. Murphy, scomparso vent'anni fa, è una figura sconosciuta ai più e tuttavia assai importante per il contributo fornito agli studi sulla disabilità, che egli poneva in una sorta di "zona intermedia". Un modo di concepire e di analizzare la disabilità, quello di Murphy, che resta ancora troppo solitario

Figura sfuocata di persona in carrozzina al computerL’8 ottobre del 1990, dopo una lunga malattia che lo aveva reso prima paraplegico e poi tetraplegico, moriva l’antropologo statunitense Robert F. Murphy. Sconosciuta ai più, questa figura è importante per il contributo agli studi sulla disabilità.
Nel testo The Body Silent, infatti (1987, non tradotto in Italia), Murphy fa “l’antropologo di se stesso”, della propria condizione di disabile e del mondo che lo circonda (famiglia, amici, università, Stati Uniti).
È un libro in prima persona, una sorta di biografia intellettuale e umana, con un pregio argomentativo e narrativo piuttosto raro: parlare di sé, partire da sé (si parte sempre da se stessi), per arrivare agli altri, mostrando le questioni, i nodi problematici della propria esistenza di disabile, un passato da alcolista e un presente da accademico.

La vicenda prende le mosse da quando nel 1972, all’età di quarantotto anni, gli viene diagnosticata la malattia invalidante, che affronta in modo nuovo sul fronte delle scienze sociali. Prima di lui, alcuni studiosi (Erving Goffman e Michel Foucault sopra tutti) avevano trattato la questione in termini di stigma, devianza, anormalità. Pur riconoscendo l’importanza di alcuni approcci (Goffman in particolare), Murphy rifiuta di affrontare la disabilità come tradizionale questione sociale, ricorrendo alle nozioni di oppressione, sfruttamento, esclusione. Non nega simili concetti, ma li considera insufficienti e impropri poiché inadatti a misurarsi con la specificità antropologica della disabilità.
A partire dal suo bagaglio di antropologo, pone dunque la disabilità come condizione di liminalità. Chi ha una disabilità sta in una zona intermedia, di confine, è su un crinale: ha abbandonato lo statuto di “normale”, ma non è estraneo al mondo; non è perfettamente sano, ma non è neanche malato; non è morto, ma non fa pienamente parte del mondo dei vivi; non è pienamente umano, ma non è neanche un animale; non è completamente rifiutato, ma non è neanche pienamente accettato.
Tale condizione costringe il disabile a dover avere una postura davvero difficile: cercare di essere come gli altri e introdursi nel loro mondo “normale” e, nello stesso tempo, restare al suo posto, continuare a essere “non normale”, distinto dai normali. Deve cioè comportarsi come se venisse accettato e restare cosciente che in realtà non lo è mai fino in fondo.
Per Murphy, la disabilità – e la stigmatizzazione che ne consegue – sono elementi predominanti nella definizione dell’individuo disabile. Questi concetti sono indagati nella loro portata sull’esistenza delle persone: la riduzione delle libertà, le difficili relazioni con l’altro sesso e la socialità in genere, il sentimento di essere di peso agli altri, l’idea di essere stati castigati, la vergogna nel presentarsi menomato e limitato agli occhi altrui, lo sviluppo di un senso di colpa (che diventa anche familiare). Moglie, figli, amici, colleghi, conoscenti, persone qualsiasi, tutti sono coinvolti nei processi che descrive.

Con l’avanzare della malattia, Murphy cambia i propri interessi accademici (fino alla morte è sempre stato in università). Insieme alla moglie Yolanda, è convinto che la ricerca sulla disabilità soffra di lacune metodologiche e di prospettive antropologiche e riesce, a fatica, ad avviare alcuni studi e ricerche (di cui non rende conto nel volume).
Fa inchieste socio-antropologiche a partire da un “rapporto alla pari”: contrariamente al classico antropologo – che è altro rispetto al mondo su cui indaga – lui, negli anni Ottanta, è il disabile che va a fare ricerca tra altri disabili. Questa visuale è molto utile, ma non esclusiva dello studio della disabilità, più importante è lo sguardo che pone sugli individui. La sua concezione – pur partendo dal fondamentale radicamento antropologico della disabilità nel soggetto – è indagata in tutti gli aspetti della vita delle persone, non solo all’interno delle istituzioni e dei dispositivi socio-sanitari, ma in una prospettiva plurale, complessa e articolata del soggetto stesso: senza cadere in facili determinismi e meccaniche.
In questo modo di concepire e studiare la disabilità, a vent’anni dalla sua morte, Murphy resta un pioniere. Ancora troppo solitario.

*Autore del libro La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Milano, Feltrinelli, 2009).

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