Socia dell’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intelletiva e/o Relazionale) sin dal 1964, l’insegnante piemontese Mirella Antonione Casale e la sua ricca storia di vita – dedicata soprattutto alla scuola e alla solidarietà nei confronti delle persone più deboli, passando per la pubblicazione di libri come Il bambino handicappato e la scuola (1991) e I colori della vita (2010) – sono al centro dell’intervista che presentiamo oggi, curata da Lidia Goldoni.
Tra i protagonisti italiani, credo che lei occupi un posto tra coloro che hanno profuso solidarietà e impegno, pur non essendo tra i nomi che tutti ricordano. Quali sono stati gli eventi e i momenti che hanno caratterizzato la sua vita e che ancora oggi sono presenti?
«Prima di rispondere alle sue domande, penso sia opportuno ricordare alcuni episodi, ben presenti nella mia memoria, che mi indussero a riflettere – già da bambina poi da adolescente – sulla necessità della solidarietà, della difesa del debole (senza usare la violenza) e sull’autocontrollo. E venne presto anche la scelta del mio futuro lavoro e l’amore per l’arte. Dalle esperienze e dagli episodi citati, infatti, si può capire come abbiano iniziato a caratterizzare la mia vita.
Sono stata fortunata ad avere un padre severo, ma affettuoso, non sdolcinato, che era attento alla mia educazione e che mi ha rafforzato il senso del dovere – che forse avevo già spontaneamente – e conferito quello della solidarietà, che da piccolissima non avevo. Mi ricordo l’episodio di quando avevo due anni e mezzo (non pronunciavo bene la erre), e di fronte all’emergenza di salute della moglie di un amico dei miei genitori, non volevo lasciare il mio seggiolone per il pranzo alla loro bambina di quattro anni. Mio padre mi sgridò severamente dicendomi con tono duro: “Non devi essere egoista! Lei è nostra ospite e va favorita”. Ricordo chiaramente la scena che mi rimase impressa.
Mia madre era severa, ma non esprimeva molto i suoi sentimenti, perché diceva: “Ai figli non bisogna mai fare capire quanto bene si vuole loro”.
Ero una bambina austera o noiosa? Ad esempio, non volevo giocare a tirare le palle di neve con i miei genitori, perché non trovavo divertente bagnare mani e guanti di lana e magari sporcarmi il cappotto e mio padre, anche quando ero liceale, mi diceva: “Sei come Pipino, nato vecchio e morto bambino!”. Ma ero anche sensibile: a tre anni piangevo a dirotto, quando mia madre leggeva un racconto di Victor Hugo, in cui Pierino, il bambino protagonista, muore assiderato sulla tomba dell’amato nonno, e insistevo perché lo rileggesse ancora, nonostante il mio pianto disperato.
Bambina di quattro anni, avevo il comportamento “giusto” per gli adulti, per cui reagivo a un loro comportamento che trovavo scorretto (ma non rivolto a me) e che-pensavo recasse disagio e sofferenza ad un’altra persona, mentre non ero reattiva con i miei coetanei, anzi non sapevo difendermi dai dispetti e dalle tirate dei capelli o da altre azioni manesche. E due volte ho reagito per “difendere” una mia prozia: la seconda volta, salita su una sedia, vicino al prozio che mi era anche simpatico, gli diedi uno schiaffo, perché nel bisticcio con la moglie, remissiva e non provocatrice, aveva usato toni molto irati. (Ovviamente mio padre alla sera, quando fu informato, mi sgridò, facendomi capire che la reazione a un fatto – anche se lo ritenevo ingiusto – non doveva essere di violenza, ma di pace).
Ma rimase in me il concetto della difesa del debole. Ero figlia unica, non ho frequentato la scuola materna, ma i miei genitori mi hanno preparato, non didatticamente, alla scuola, “luogo ove s’impara e si fanno cose interessanti”, dicevano.
Al primo giorno della prima elementare scelsi la mia futura professione: decisi di fare l’insegnante e così feci. Verso i cinque anni diventai una bambina, poi un’adolescente e una giovane timida e introversa, con molti interrogativi esistenziali non espressi. Studiavo volentieri, non avevo amiche e nessuna compagna di scuola veniva a casa mia, né io andavo da loro, perché mia madre non mi permetteva di frequentare altri bambini (tranne qualche volta d’estate in montagna), in quanto temeva perdessi tempo per lo studio e anche che inficiassero la mia “buona educazione”(?!).
Nel tempo libero – oltre a piccoli aiuti alla mamma – leggevo con piacere e ad otto-nove anni pensavo a problemi come “è meglio la monarchia o la repubblica?”. Avendo letto la biografia di Don Bosco e di Giuseppe Cottolengo, mi posi il problema: “da adulta mi devo occupare prevalentemente di giovani o di anziani e malati?”, ma delle mie infantili elucubrazioni non ho mai parlato con nessuno, neanche con i miei genitori. Mi rafforzai nell’idea di avere sempre il controllo di se stessi, senza manifestare il dolore o la gioia in modo plateale.
Sino all’Università soffrii di solitudine senza dimostrarlo, lì trovai dei compagni con cui parlare di problemi seri in un momento tragico della nostra storia [erano gli ultimi anni della guerra, N.d.R.], ma anche, come me, interessati all’arte, e nelle ore “buche” giravamo per visitare le mostre (ma qualche volta siamo andati anche in barca sul Po!).
L’amore per l’arte figurativa nacque quando mi fu regalato un libro della Scala d’Oro [collana letteraria nata agli inizi degli Anni Trenta, N.d.R.], alla fine della quinta elementare, che illustrava l’arte rinascimentale a Firenze e questa passione è tuttora viva in me, come esiste anche per la musica classica e operistica, incominciata a dieci anni con lo studio del pianoforte.
Fui una studentessa lavoratrice per alcuni periodi dell’Università, cioè per un anno all’inizio e per circa due anni alla fine, ma già in seconda media mi occupavo di due bambini delle elementari, per guidarli a svolgere i compiti e a spiegare quello che non avevano capito a scuola. Avevano nove anni e frequentavano la terza elementare, uno era diligente, ma un po’ lento, e quindi aveva solo bisogno di un aiuto scolastico; l’altro aveva qualche problema in più: non sapeva ancora soffiarsi il naso con il fazzoletto da solo (e con l’aiuto di mio padre riuscii a insegnarglielo), né si allacciava bene le scarpe e tante altre piccole cose, oltre all’apprendimento scolastico. I suoi genitori analfabeti ed emigrati da pochi anni dalle Puglie lavoravano sodo e non avevano né tempo, né capacità (soprattutto la madre), per curarsi seriamente di lui. E ottenni qualche risultato, ma ricavai anche delle riflessioni per me, per il mio futuro lavoro.
Capii che oltre ad offrire aiuto scolastico con metodi adeguati, occorreva anche dare un’attenzione speciale e fare sentire il nostro affettuoso interesse soprattutto a chi aveva qualche problema in più degli altri, infondendogli la speranza di “crescere con gli altri e non essere emarginato”. E anche per lui fu così. Sono gli eventi che hanno poi caratterizzato la mia vita professionale a scuola, che ho amato moltissimo e alla quale ho dedicato il mio impegno anche in ore extra orario pomeridiane, proprio per aiutare chi era in difficoltà. Ma era tutta la classe a intervenire, per non sottolineare le difficoltà di alcuni e tutti ne traevano giovamento. Fu così, per lo più dal 1957 al 1962.
E tuttavia l’impulso a occuparmi di disabilità intellettiva e/o relazionale lo devo a una mia esperienza personale che mi causò un grandissimo dolore, il maggiore della mia vita. Ma seppi contenerlo facendo normalmente la mia vita scolastica, senza far sentire agli alunni la sofferenza che avevo dentro. Il 26 ottobre 1957, mia figlia Flavia – che non aveva ancora compiuto sei mesi – si ammalò d’influenza “asiatica” con febbri fortissime e sviluppò una gravissima encefalite virale, seguita da coma, che ne danneggiò moltissimo il cervello, con previsione e poi certezza di morte. Per cui, dall’ospedale ove era stata ricoverata, fu dimessa per venire a morire a casa, nel suo lettino, ovviamente continuando le cure prescritte che non sortivano alcun effetto e con una previsione di decesso entro la stessa sera, oltreché con un quadro terrificante del “dopo” – se per caso avesse superato la crisi – ciò che tuttavia veniva ritenuto impossibile.
A casa consultammo un anziano pediatra, noto a Torino per la sua capacità e disponibilità umana, che cambiò la medicina con una nuova appena messa in commercio, specifica per i lattanti. E così, in pochi giorni Flavia si svegliò dal coma, riprese conoscenza e gradatamente anche l’uso della gamba destra, perché aveva avuto un’emiparesi.
Sapevamo delle gravi conseguenze che avrebbero portato date le numerose lesioni cerebrali. Al primo anno di età cercai sia nelle strutture pubbliche che in quelle private un intervento riabilitativo di ginnastica per la deambulazione e poi anche per il linguaggio, ma nessuno, neanche quando aveva compiuto tre-quattro anni, volle occuparsi di lei, perché non capiva i comandi e non collaborava.
Medici specialisti, quali neuropsichiatri infantili, neurologi e pediatri, nonché alcuni amici, mi consigliavano di metterla in un buon istituto, vista la sua gravità, prima dei diciotto mesi di età, per evitare la sofferenza del distacco da noi, ma io mi rifiutai sempre di farlo e dopo dieci anni, mio marito – che in un primo tempo era d’accordo con quei consigli – disse di aver accettato di buon grado la mia decisione perché ovviamente si era affezionato e notava qualche piccolo miglioramento che continuò anche quando Flavia divenne adulta. Oltre ad essere carina fisicamente, era buona, affettuosa con noi e riconosceva il nostro ruolo, nella famiglia, pur non essendo autonoma nemmeno per le abilità primarie e non avesse la comunicazione verbale. Si faceva però capire per le sue necessità “corporee”.
Io desideravo avere un secondo figlio, ma mio marito non era d’accordo perché la bimba era impegnativa e un secondo figlio sarebbe stato un aggravio. Questo lo capivo, ma quando il 29 aprile 1961 nacque Roberto e quando cominciò a “ciangottare”, per Flavia era una gioia vederlo e si creò un buon rapporto fra loro, anche in età adulta.
Nel 1964 mi iscrissi a Torino – dove abitavo – all’ANFFAS, l’attuale Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale, fondata dalla dottoressa Maria Luisa Ubershag Menegotto a Roma nel 1958. La situazione per questi disabili era allora grave: scarso, rispetto alle richieste, il numero dei riabilitatori e delle logopediste, scuole e classi speciali con bravi insegnanti, ma con l’esclusione dei casi più gravi. Il problema maggiore era per i ragazzi che dopo la scuola elementare regredivano, non frequentando più la scuola stessa o un Centro Educativo.
Il 5 gennaio 1967 diventai Presidente dell’ANFFAS di Torino e ci dedicammo molto ad ottenere dalla Provincia l’apertura di un Centro Diurno (allora si chiamava “Laboratorio Protetto”) per chi era in grado di svolgere qualche lavoro sotto la guida di istruttori educatori. L’Associazione, inoltre, istituì nella propria sede un piccolo centro pomeridiano con qualche semplice attività per i “gravi”, alcuni dei quali non avevano mai frequentato la scuola ed erano stati relegati in casa. Mi dedicai molto a queste iniziative, mai pensando che Flavia potesse parteciparvi, perché allora era piccola e la ritenevo troppo grave (e lo era).
Convincemmo la Provincia a farsi carico di questi problemi e con un loro funzionario disponibile e uno psicologo, andammo in Francia a Lione e in Svizzera, a visitare interessanti Centri Diurni per persone disabili intellettive di diverse capacità, anche quasi nulle. Si pensò anche a costruire una struttura residenziale per due-tre comunità di disabili adulti orfani o che avevano genitori anziani e/o malati, tramite un finanziamento statale su progetto e un centro formativo d’aggiornamento per educatori, che si realizzò in seguito. Nel corso degli anni ebbi anche cariche nazionali come quella di vicepresidente e di componente del Collegio dei Probiviri. Nel 2002, infine, non rinnovai più la mia disponibilità, per favorire un ricambio generazionale, terminando il mio cursus honorum nell’Associazione come Presidente Nazionale dei Probiviri».
Cito due suoi libri, Il bambino handicappato e la scuola e I colori della vita. Oltre all’impegno sociale, cos’hanno rappresentato per lei la scrittura, le poesie, ancora oggi premiate? E una curiosità: come mai I colori della vita è diventato anche Les coleurs de la vie, in traduzione francese?
«Il bambino handicappato e la scuola, pubblicato nel 1991 da Bollati Boringhieri, è un’opera di tre persone: la dottoressa Francesca Saglio, neuropsichiatra infantile, la dottoressa Pierangela Peila Castellani, psicologa (moglie dell’ingegner Castellani, che diventerà sindaco di Torino) e la sottoscritta per la parte educativa e scolastica; infatti io ho commentato la legislazione scolastica, le leggi e le circolari esplicative riguardanti l’integrazione scolastica dei disabili, ma dando anche alcune indicazioni di didattica. Il volume riporta anche i risultati di un questionario sull’handicap, proposto agli insegnanti di alcune scuole materne, elementari e medie; i dati sono molto parziali, ma danno un’indicazione sul pensiero dei docenti.
Precedentemente a questo libro era uscito nel 1981, per i tipi delle Edizioni Concordia Sette, a cura dell’Associazione Presenza e Cultura di Pordenone, un piccolo libro, Handicappati e società, con relazioni di vari Autori, tenute in un corso di aggiornamento sul tema, rivolto a docenti e familiari e curato anch’esso dall’Associazione pordenonese, che mi aveva cercato, per inaugurare l’iniziativa parlando di disabili, famiglia e comunità locale. Nel volume vi sono poi altri quattro interventi molto interessanti di un bravo e noto neuropsichiatra, di una valente ispettrice scolastica ministeriale, di due architetti specialisti ambientali e di una tavola rotonda su Handicap e mondo del lavoro.
Ho scritto la mia prima poesia a nove anni in quarta elementare: era un giulivo ringraziamento a Dio per le bellezze del creato (allora ero credente). Dopo tanti anni, incominciai a scrivere poesie – esattamente dal 1946 – per il grande dolore causatomi a vent’anni da una delusione amorosa che ha condizionato in parte la mia vita. Poi scrissi per la morte di una compagna di classe poco più che ventenne, a causa della TBC, e anche per altri amici morti giovani o meno giovani. Vi sono osservazioni sulla natura, ma anche sulle sofferenze di persone da me conosciute e nel mondo attuale e soprattutto per la morte di mia figlia Flavia, avvenuta a trentasei anni a causa di un melanoma. Sono tutte poesie personali, di stati d’animo, crepuscolari (forse non più attuali), ma anche di critica al mondo in guerra e… io non sono Leopardi!
Solo nel 2006 una mia amica – che aveva pubblicato due libri di poesia – avendo saputo che avevo nel cassetto alcune liriche, mi esortò a partecipare al Premio Pablo Neruda, anche se ero indecisa. E così arrivarono delle belle gratificazioni, quando nel 2008, dopo aver vinto il terzo posto a quel concorso, mi contattò una casa editrice di Catanzaro, perché interessata alla pubblicazione delle mie poesie con la traduzione in francese, per tentare di conquistare il mercato transalpino.
Sono stata anche contattata dalla rivista “Pagine di Roma”, che ha pubblicato alcune liriche nell’Agenda del Poeta del 2012, intestata a Foscolo e qualcuna comparirà su quella intestata ad Oscar Wilde, oltre che sull’Antologia Immagini.
Per il momento non scrivo poesie, ho troppe cose da fare e non voglio deludere mio figlio: prima voglio scrivere quello che lui aspetta, per cui ci sarà un periodo di pausa».
Lei è ancora impegnata nell’ANFFAS delle Valli Pinerolesi. Come vede le politiche attuali per il welfare e in particolare per i disabili? Cosa vorrebbe fosse fatto?
«Sì, sono socia dell’ANFFAS da oltre quarantotto anni, dal 1964 al 1988 a Torino, anno in cui mi trasferii con la mia famiglia a Torre Pellice, in provincia di Torino, ove dal 1960 mi recavo in vacanza. Nel marzo del 1989, dopo due riunioni con i familiari di disabili, fondai l’ANFFAS delle Valli Pienerolesi, avendo avuto il benestare dall’Associazione Nazionale. La zona comprende le aree montane della Val Pellice e delle Valli Chisone e Germanasca, oltre che Pinerolo, ove c’è la sede, e i paesi delle pianura intorno. Per otto anni ne sono stata Presidente, gestendo poi, negli ultimi due anni, in convenzione con il Comune di Pinerolo, l’assistenza fisica per l’autonomia dei disabili nelle scuole.
Dal 1997 sono semplice socia, ma mi interesso ancora dell’Associazione e do una mano per varie manifestazioni. Da oltre quindici anni tengo alla Radio Beckwith, valdese, una rubrica mensile di quindici minuti, sul tema Handicap e società, seguìta poi da altri quindici minuti dall’amica Bianca per la DIAPSi (Difesa Ammalati Psichici), che si occupa di malattie mentali.
La Commissione Welfare del Comune di Torre Pellice, di cui faccio parte, si occupa in modo particolare di anziani, di licenziati dal lavoro perché alcune imprese hanno chiuso o ridotto il tempo: sono state richieste delle offerte di cibo non deperibile (pasta, riso, zucchero, biscotti secchi, olio) ed eventuali offerte.
Le attuali politiche per il welfare – e in modo particolare per i disabili – sono preoccupanti, dato il taglio dei Ministeri ai Comuni, alle scuole, alle ASL, per dare i servizi necessari ai bisogni di persone in difficoltà. La Legge Quadro 104 del ’92 aveva ribadito la concezione dell’integrazione scolastica e sociale e previsto la precedenza nei servizi ai disabili in situazione di gravità, pur non indicando chiaramente i doveri dei Comuni nel fornire i servizi necessari, secondo i bisogni di ciascuno, ma tenendo conto invece delle possibilità finanziarie comunali. Quella norma, infatti, dice possono anziché devono, che è stato comunque un passo avanti, sancito maggiormente, poi, dagli articoli 12 e 14 della Legge 328/00, in cui si parla di progetto di vita prescritto sulla carta, ma realizzato quando è possibile per la scarsezza di mezzi finanziari.
Qui in Val Pellice la Comunità Montana si è attivata anche senza poter dare il massimo. La situazione, infatti, era migliore che in altre zone d’Italia (forse le prestazioni migliori sono nel Veneto e in alcune zone dell’Emilia Romagna), per l’impegno costante delle assistenti sociali, per il pungolo dell’ANFFAS, della DIAPSI e dei singoli genitori.
Occorrono però maggiori fondi all’ASL – e magari assumere una persona in più – per la riabilitazione e per interventi di logopedia, che per essere efficaci, devono godere di continuità. Il neuropsichiatra infantile – che fu mio allievo, quand’ero preside all’Olivetti di Torino – è bravo e disponibile, ma travalica il suo orario.
Anche il tempo libero, dai bambini agli adulti, ha la sua importanza per la formazione e per la socialità: per ora, qui in valle per gli adulti, delegati dal Servizio Sociale, se ne occupano i volontari dell’ANFFAS, della DIAPSI, dell’Auser e dell’Arcobaleno, Associazioni che promuovono progetti di spettacolo teatrale, finanziati in parte da Idea Solidale, Centro Sociale per l’erogazione dei servizi e il saldo dalle organizzazioni che si occupano di teatro. Precedentemente avevamo anche promosso danze sudamericane e gioco delle bocce, ma ora quello che attira di più è il teatro. Al sabato, infine, nella bella stagione, c’è un’uscita sul territorio.
Le persone che seguiamo nel tempo libero e con cui interagiamo in teatro sono cinque adulti dai 25 ai 65 anni con deficit cognitivo e qualcuno anche con problemi comportamentali; inoltre, ci sono alcune persone malate di mente che vivono prevalentemente in famiglia (una sola è in Comunità) più qualcuno saltuario, perché magari impegnato in piccoli lavori temporanei. Per i minori sono i Comuni che pensano a gestire cicli come l’Estate Ragazzi e l’attività della ludoteca, con l’aiuto dei Servizi Sociali».
Le chiedo però come vede anche la politica e le azioni delle associazioni di volontariato, in particolare quelle di categorie o per meglio dire specifiche.
«Le associazioni di volontariato, in particolare quelle specifiche, devono certo tutelare i diritti dei loro associati, ma si devono rivolgere a tutti, dare sostegno alle famiglie, magari anche corsi di auto mutuo aiuto, soprattutto per i genitori giovani che si accorgono di avere un bambino con problemi intellettivi, o psicofisici, o relazionali, perché l’impatto è duro e quindi psicologicamente essi vanno sorretti e incoraggiati ad aiutare i loro piccoli con serietà e costanza, condite da tanto affetto.
Un altro momento nella vita che preoccupa la famiglia è quando il figlio ha già una certa età e si scorgono sintomi di decadenza o cambiamenti di comportamento; se ha cinquant’anni e più, i genitori sono molto anziani e quindi vanno aiutati, anche con soggiorni temporanei per i loro figli (che dovrebbero già iniziare quando questi sono ancora giovani), per abituarli al distacco dalla famiglia. Qui va ricordato che la retta delle strutture residenziali si deve considerare sul solo reddito del disabile.
È ovvio che gli interventi debbano essere mirati all’individuo, alla sua personalità, alle sue capacità e lacune. Una confederazione di associazioni di disabili potrebbe rinforzare il peso contrattuale con le Istituzioni. Esiste già la FISH (Federazione Italiana Superamento dell’Handicap), che è molto attiva. L’ANFFAS ne fa parte a livello nazionale, ma credo che localmente esista anche in alcune città, ad esempio a Torino.
In Val Pellice, nel 2000, è nato il Coordinamento Volontariato Val Pellice (CVVP), che raggruppa le seguenti associazioni di volontariato: AVO (Associazione Volontari Ospedalieri), Auser, Arcobaleno (contro le dipendenze da alcool e droghe), DIAPSI, CVAMM (medici per l’Africa), Telesoccorso Val Pellice, Ci pensiamo noi (animazione per ragazzi), AEV (Associazione Evangelica Valdese) e ACAT (contro le dipendenze da alcol). Come esponente dell’ANFFAS, sono stata tra i fondatori e le riunioni costitutive si sono protratte dal 1999 al 2000. Da tre anni il CVVP è iscritto all’Albo Provinciale delle Associazioni di secondo livello del volontariato.
Ogni organizzazione ha la sua politica, fa le sue manifestazioni, rispettando anche lo Statuto del Coordinamento e, se necessario; aiutata dalle altre. L’ANFFAS – che è una ONLUS – non fa più parte del Coordinamento perché non è stata considerata di volontariato, ma Associazione di Promozione Sociale. E tuttavia nelle manifestazioni del volontariato, l’ANFFAS è sempre presente con me, io aiuto le altre e qualcuna delle altre ci aiuta, quando noi promuoviamo una manifestazione».
In conclusione, quali sono le due convinzioni più profonde che vorrebbe trasmettere ai giovani, ma non solo?
«La prima convinzione profonda che vorrei trasmettere ai giovani è la disponibilità. Oltre ad essere onesti, leali e corretti con gli altri (come predicano anche i genitori), voi giovani dovete essere disponibili ad aiutare le persone in difficoltà, che siano bambini, giovani o anziani, mettendovi al loro fianco perché siano inseriti – con le loro capacità e i loro limiti – come parte integrante nella società. Nessun uomo è un’isola e tutti devono avere la possibilità di non sentirsi soli. E non solo perché ci sono dei diritti sanciti dalla Costituzione Italiana e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia [con la Legge 18/09, N.d.R.], ma anche perché aiutare gli altri fa bene anche a se stessi, ricevendone simpatia e affetto e a volte con gli altri ci si può divertire; perché poi tutti noi – e questo è il motivo etico per me fondamentale – siamo “sulla barca della vita” e ci dobbiamo aiutare l’un l’altro, ma specialmente farlo nei confronti di chi è in difficoltà, senza pretendere nulla in cambio, né in vita e nemmeno nell’aldilà, per chi è credente.
Poi la convinzione: non scoraggiatevi mai nella vita. Se trovate degli ostacoli, considerateli naturali e non una “catastrofe”. Imparate sin da bambini a superare le difficoltà con pazienza, tenacia, intelligenza. Perché gli ostacoli si vincono così».