“Quelli che la politica” (parafrasando una nota trasmissione televisiva) siamo tutti noi perché la politica, per antica definizione, è lo stare assieme, il fondamento della coabitazione nella polis greca, il sentirsi Cittadini di un mondo comune, di una realtà fatta di esseri umani con i loro bisogni e le loro speranze.
E tra le speranze e i bisogni – in questa fredda stagione pre-elettorale – pare che quelli delle persone con disabilità e delle loro famiglie siano stati completamente dimenticati. Non siamo neppure più ricordati come coloro ai quali vanno addebitati quasi tutti i mali finanziari della Nazione, gli “improduttivi”, i “succhiasangue”, gli “insostenibili”… E pazienza se tale dimenticanza si riscontra nei discorsi e nei programmi (ma chi li ha visti i programmi dei partiti e dei candidati?) dei partiti “liberisti”, che da sempre ci vedono come “remora del mercato” e “peso per la società”, ma il riscontrarla anche in quelli dei “familiaristi” – quelli cioè che dicono di occuparsi della famiglia – e dei “progressisti” ci addolora.
Certo, nei discorsi dei candidati leader ogni tanto compare un fuggevole accenno all’equità sociale («il rigore non disgiunto dall’equità»…), subito bilanciato da un forte richiamo «ai limiti delle risorse disponibili». Ma quello che manca davvero è un discorso un po’ più nobile, un ragionamento basato sul fatto che i diritti sono diritti, anche in tempi di casse vuote.
Che poi le casse siano vuote probabilmente è vero, ma perché sono vuote? Sarebbero molto meno vuote, anzi direi quasi stracolme, se venissero fatte le cose più semplici, ovvero se molti dei troppi Onorevoli Deputati e Senatori non intrallazzassero orridamente nel bene comune, se così tanti Consiglieri Regionali non comprassero auto di lusso, cravatte da miliardari (da Finollo a Genova o a Napoli da un altrettanto noto produttore), diavolerie tecnologiche da bambini viziati e innumerevoli cene e pranzi naturalmente “a fini elettorali” (chi mai può fare politica a pancia vuota?) e tutto questo vagamente rendicontato nel mare magno delle spese dei loro gruppi assembleari.
Sarebbero molto meno vuote se si riuscisse a sradicare la mala pianta della tortuosità bizantina dal funzionamento dello Stato, se dirigenti e funzionari tornassero ad essere dei pubblic servants (in altri tempi un Papa non si definì forse «servo dei servi di Dio»?).
E se, naturalmente, corruzione e criminalità finanziaria non imperversassero per ogni dove, lasciando scie simili a bave di gigantesche lumache.
«Diritti certi ed esigibili per gli “insostenibili”»: non sarebbe un bello slogan?