Da un po’ di tempo, a causa di situazioni sottoposte all’attenzione della nostra Associazione [Gruppo Solidarietà, N.d.R.], riflettevo sul ruolo della diagnosi, collegata alla fruizione dei servizi. Nella fattispecie, le diagnosi in questione riguardavano persone con malattia di Alzheimer e autismo.
Fino a qualche anno fa tali “diagnosi” indicavano malattie o condizioni di particolare bisogno (gravità) e l’indicazione diagnostica era/poteva essere funzionale anche alla fruizione di alcuni interventi o servizi specifici insieme a maggiori sostegni. Oggi, l’evoluzione tecnologica, associata a una maggiore informazione, porta in molti casi a diagnosticare una malattia in fasi molto precoci (vedi Alzheimer), nelle quali la persona gode ancora di buone autonomie, oppure, dal lato opposto, la condizione viene accertata in età molto avanzata (ultraottantenni), quando cioè le condizioni funzionali sono assimilabili a quelle di altri malati, con deterioramento cognitivo.
Càpita però, sempre più spesso, che la diagnosi sganciata da un’effettiva valutazione funzionale possa paradossalmente essere condizione di esclusione da alcuni servizi che non prevedono quella particolare condizione, oppure che le stesse persone vengano inserite all’interno dei soli percorsi previsti per quella malattia. Infine, che la diagnosi – prescindendo dall’effettiva condizione – determini (vedi ad esempio ricovero in ospedale) gestioni inadeguate, a causa non della situazione di quella specifica persona, ma sulla base dell’idea che a quella determinata diagnosi corrisponda un determinato comportamento (dall’aggressività, al disturbo comportamentale ecc.).
Mentre riflettevo su tali aspetti, ho avuto modo di leggere due articoli, rispettivamente di Roberto Beneduce, docente di Discipline Demoetnoantropologiche all’Università di Torino, su «Animazione sociale» e di Andrea Canevaro, pedagogista dell’Università di Bologna, su «Handicap & scuola», che introducono altri aspetti importantissimi. Vorrei dunque proporne qui due ampi stralci, affinché la riflessione su tale questione possa proficuamente continuare.
«Anzitutto non possiamo perdere di vista che qualunque diagnosi reca in sé una potenziale minaccia: nel momento in cui dice qualcosa e non dice altro, la diagnosi sancisce il proprio limite, esattamente quando pretende di aver rivelato la natura intera della sofferenza. Nella clinica con gli immigrati, naturalmente, ciò vale tanto per la diagnosi medico-psichiatrica occidentale che per quella tradizionale. Guai a dimenticare come ogni diagnosi sia sempre poco più che un provvisorio e consensuale mascheramento di un problema rispetto al quale spesso l’individuo, la famiglia o il gruppo, non sono in grado di riformulare le domande appropriate. Se perdiamo di vista questa consapevolezza, splendidamente formulata da Michel de Certeau, commettiamo una terribile ingenuità.
C’è una complicità singolare tra la compulsione diagnostica del curante e la compulsività a ricevere una diagnosi del postulante, una complicità che è la trappola per eccellenza della relazione di cura, forse la trappola in cui davvero la complicità tra chi cura e chi soffre tocca il suo punto più alto. Liberarsi dall’idea di arrivare a una diagnosi come il momento fondatore di una buona terapia è alla base della necessità di liberarsi dell’illusione stessa dell’efficacia di alcuni modelli terapeutici.
La parola che produce soggettivazione, che costruisce soggettività, è una parola che non si vuole ferma e definitiva, ma incerta e sospesa. Questo vale anche per la diagnosi. Molti operatori e servizi sembrano però incapaci di accettare il provvisorio come la cifra dell’esistenza stessa. Così, continuando il discorso sulla “modernizzazione del paziente immigrato”, risalta la grottesca convinzione che la diagnosi possa proporsi come scorciatoia per una moderna soggettivazione.
Sostenendo quella posizione, produrremmo soggetti incapaci di fare un buon uso del simbolo, soggetti espropriati dalla produttività dell’incertezza ed estromessi da quel processo di continua significazione che rappresenta la premessa a un più antico percorso di cura [grassetti nostri in questo brano e in quello successivo, N.d.R.]».
(Roberto Beneduce, in Disarticolazione del mito della diagnosi, intervista allo stesso a cura di Simone Spensieri, in «Animazione Sociale», n. 265, agosto/settembre 2012)
«Mi piacerebbe immaginare la scomparsa delle diagnosi. È certamente paradossale che la diagnosi, che, anche per la sua etimologia, dovrebbe essere uno strumento per la conoscenza, diventi invece sovente un ostacolo alla conoscenza, che sembra un fatto per gli specialisti. Può così succedere che un insegnante che da un paio di mesi incontra tutti i giorni, e per diverse ore ogni giorno, un bambino o una bambina, ritenga di non sapere niente perché non è ancora arrivata la diagnosi.
Spero sia chiaro che [questa mia affermazione] è soprattutto dettata dall’uso improprio della diagnosi, diventata, nel nostro Paese, un credito esigibile in “sostegni”: se c’è una diagnosi, può esserci un “sostegno”. La diversità di chi cresce è condizionata dalla diagnosi, che “chiude” alla conoscenza diretta da parte di chi vive in relazioni quotidiane con quel/la bambino/a. Ciascuno subordina ciò che vive alla “verità” della diagnosi, anche lamentando la sua assenza, i ritardi che possono esserci.
Ancora: l’uso improprio della diagnosi è collegato alla “consegna” di chi cresce con la sua diversità (che non ritengo né esclusiva né escludente) al “suo” sostegno, in un rapporto a due che appare la risposta universale. Credo, in buona compagnia, che sia necessario circoscrivere l’utilizzo e l’utilità del rapporto a due e sviluppare una didattica inclusiva che coinvolga tutto il gruppo-classe».
(Andrea Canevaro, in Il segreto della pipa e i pericoli degli specialisti, conversazione con lo stesso, a cura di Emilia De Rienzo, in «Handicap & Scuola», n. 166, novembre/dicembre 2012).