In questo Paese sembra che la Lingua dei Segni Italiana sia tabù. Ma che cos’è un “tabù” se non un pregiudizio, un impedimento per l’altro? Non vogliamo, letteralmente, che l’altro “provi” quella gratificazione culturale, linguistica o sessuale che hanno i cosiddetti “normali” o autorizzati dalla maggioranza. Entriamo nel tabù scolastico, quando ad esempio si diceva che apprendere a scrivere era un diritto dei figli di classi benestanti o nel tabù sessuale – assai resistente nel nostro Paese – quando si parla di permettere, come in altri Stati europei, di esprimere pulsioni sessuali ai disabili con donne o uomini volontari, attraverso un’etica accolta o/e ordinata da normative.
Qui siamo nel campo del tabù linguistico, in base al quale si vuole impedire – ormai sono vent’anni che ciascun partito politico propone l’approvazione di una legge sulla Lingua dei Segni – che quest’ultima sia riconosciuta “per legge”.
Ma riflettiamoci un istante: nessuna lingua può essere estromessa dalla circolazione o approvata “per legge”! Nessuno può affermare – argomento che spetta ai linguisti e a chi la utilizza – che una lingua è migliore di un’altra. La lingua è utile semplicemente per “comunicare”, per scambiarci emozioni e idee. Nel caso delle persone sorde cosiddette “segnanti”, vale a dire di persone che l’hanno appresa in contesti precisi (nelle scuole dove a prevalere in numero erano i sordi, nelle comunità associative, nelle famiglie dove i componenti genitoriali sono sordi eccetera), è un pregiudizio affermare che essa è la “lingua dei sordi”: è semplicemente la lingua di chi vuole apprenderla!
A questo punto la questione si sposta sui processi di apprendimento, sul fatto di che cosa sia la “lingua” e come agisca sull’individuo, dal quinto, sesto mese di gestazione sino alla conclusione della vita.
In breve, senza citare i tanti che hanno soffermato la loro attenzione sulla lingua visuomanuale, mi è sufficiente ricordare lo statunitense William Stokoe, che nel 1960 dimostrò come la Lingua dei Segni avesse tutto ciò che hanno le lingue comunicate con i codici verbali. La conferma è venuta poi dal più grande linguista d’oggi, Noam Chomsky.
Nessuno riflette su quanto sarebbe utilissima, questa lingua, a insegnarla nelle scuole dell’obbligo ai bambini e agli studenti udenti, per favorirne la sintesi nel dialogo con gli altri! Oggi i bambini udenti, i giovani studenti, sono letteralmente saturi di udire, le emozioni sono alienate, la lingua visuomanuale permetterebbe di aprire l’“altra finestra sana” sul mondo, la vista. Imparare a vedere darebbe una marcia in più ai bambini udenti, favorendo l’inclusione di quei bimbi che, per un motivo o per l’altro, incontrano difficoltà di percezione della parola verbale!
Ma sorge a questo punto un’altra domanda: chi dovrebbe insegnarla questa lingua? E chi vorrebbe apprenderla dove sono abilitate le scuole statali? La risposta è semplice: dovrebbe essere insegnata da sordi e udenti che possiedono un titolo accademico con specializzazione post lauream o con pubblicazioni specifiche. Non basta essere sordo e segnare – magari bene – a livello pratico, senza conoscere lo sviluppo del linguaggio, sia verbale che visuomanuale, e, ovviamente, i processi di apprendimento cinestetico.
Chi rifiuta questa Lingua non ha abbastanza studi e letture sufficienti per essere illuminato sul fatto che la Lingua dei Segni non intende affatto entrare in competizione con la lingua verbale! Essa può essere di aiuto ai bambini udenti per manifestare meglio il proprio pensiero. Perché dove viene dimenticato il codice verbale (la parola), può arrivare la memoria visiva! Se infatti i due sensi superiori cooperano, a vincere è il pensiero del bambino!
Ma quanto detto, valendo per il bambino normodotato, dovrebbe prevalere anche per il bimbo che ha difficoltà di percepire compiutamente la parola verbale? La maggior parte degli esperti – ovviamente mi riferisco ai logopedisti, ai foniatri eccetera – temono che il piccolo venga privato dello stimolo che, a ragione, deve avvenire – se c’è stato l’impianto cocleare – quanto prima.
Certo, appropriarsi dell’ascolto è fondamentale, ma perché non si propone un programma maggiormente polisensoriale, che favorisca i processi percettivi visivi? È un ottimo dibattito che conduce ai processi nosologici. E ancora: dove sono gli Ispettori del Ministero dell’Istruzione a controllare i programmi didattici degli scolari sordi di ogni ordine di scuola? In Italia ci sono centoventimila “docenti di sostegno” (termine adottato dal Ministero), ma nelle scuole residenziali, da Chiasso a Canicattì, si fa fatica a trovarne cento in grado di insegnare su processi d’apprendimento focalizzati sulle modalità visive e… auditive.
La verità è molto più complessa di come appare a primo acchito, perché lo Stato italiano non investe sulla formazione. Poi i sordi, tout court, sono sempre barcamenanti fra gli aspetti medico-riabilitativi e la normalizzazione e perché avvenga ciò, si tenta di nascondere la disabilità o di sradicarla, non si studia quanto potrebbe offrire ai cosiddetti “normali” studiare bene le aree cerebrali dei bambini sordi! In questo senso, siamo molto lontani dall’occhio indagatore di Leonardo da Vinci che, in gioventù, entrando nella bottega del Verrocchio, pittore fiorentino, scorse ritrattisti sordo(muti).
Pensando infine alla marcia partita in maggio da Parigi e che nei prossimi giorni arriverà a Milano, unendo sordi francesi e italiani per il riconoscimento della Lingua dei Segni, posso concludere dicendo che marciare per la lingua va bene, ma meglio ancora sarebbe che il nostro Stato – anzi il Ministero dell’Istruzione – creasse una Commissione di alta cultura scientifica, con capaci protagonisti laureati, per predisporre un programma adeguato che fosse utile, nella scuola, per tutti gli studenti frequentanti. L’inclusione, infatti, passa nell’offerta della scuola e nella qualità dei docenti.
Incaricato di Psicologia dei Disabili Sensoriali e di Lingua e Linguaggio per il Sostegno (Modulo Non Udenti) alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Macerata.
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