Sono più drammatici o paradossali – ci eravamo chiesti qualche settimana fa – i dati esposti durante un recente incontro a Milano, secondo i quali in alcuni Stati dell’Africa, come lo Zambia o il Malawi, lavorano più persone con disabilità che non nel nostro Paese? Sarà bene rammentare ai Lettori qualche cifra.
In Italia lavora solo il 16% (circa 300.000 individui) delle persone con disabilità fra i 15 e i 74 anni, contro il 49,9% del totale della popolazione. Solo l’11%, poi, delle persone con limitazioni funzionali che lavorano ha trovato occupazione attraverso un Centro Pubblico per l’Impiego.
E ancora, le persone con limitazioni funzionali che sono inattive rappresentano una quota quasi doppia rispetto a quella osservata nell’intera popolazione (l’81,2% contro il 45,4%), mentre la percentuale di chi non è mai entrato nel mercato del lavoro e che non cerca di entrarvi (250.000 persone, per la quasi totalità donne) è molto più elevata tra chi ha limitazioni funzionali gravi (il 18,5%) contro l’8,8% di chi ha limitazioni funzionali lievi.
«Che ci sia qualcosa che non funziona nelle politiche e nei servizi di inclusione è evidente»: è questa la constatazione quasi eufemistica, espressa in una nota della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che proprio oggi – nonostante si stiano registrando in queste settimane alcuni timidi segnali in senso opposto, quale il promesso rifinanziamento del Fondo previsto dalla Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) – ha trovato una chiara e clamorosa sanzione anche a livello internazionale, con la Sentenza prodotta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha sonoramente bocciato il nostro Paese, stabilendo che esso «non ha adottato tutte le misure necessarie per garantire un adeguato inserimento professionale dei disabili nel mondo del lavoro e la invita a porre rimedio a questa situazione al più presto».
A spiegare la sostanza di tale provvedimento – che avremo certamente modo di approfondire ulteriormente in futuro – è ancora la FISH: «L’Italia – si legge nel comunicato della Federazione – è venuta meno agli obblighi derivanti dal diritto comunitario, a causa di un recepimento incompleto e non adeguato di quanto previsto da quella Direttiva varata alla fine del 2000 [Direttiva 2000/78 del Consiglio dell’Unione Europea, N.d.R.] sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Una norma con la quale è stato stabilito un quadro generale di riferimento anche per la lotta alla discriminazione delle persone con disabilità. Dopo avere quindi esaminato le varie misure adottate dall’Italia per l’inserimento professionale dei disabili, la Corte Europea ha concluso che tali soluzioni – anche se valutate nel loro complesso – non impongono a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione».
Anche la conseguenza di tale Sentenza è presto detta: se il nostro Paese non si adeguerà, la Commissione Europea potrebbe avviare una nuova procedura di infrazione, che potrebbe portare a pesanti multe.
«La FISH – è il commento del presidente della Federazione Pietro Barbieri – non può che accogliere con favore questa Sentenza di portata storica: da anni, infatti, sosteniamo la carenza di politiche inclusive e di servizi efficaci. I dati drammatici sull’occupazione delle persone con disabilità già erano disarmanti e brutali. Ora, quindi, che si stanno discutendo varie misure per il rilancio dell’occupazione, anche l’attenzione alle persone con disabilità dev’essere prioritaria e mutare radicalmente le politiche e i servizi per l’inclusione lavorativa, per uscire dalla marginalità e per essere finalmente protagonisti della propria esistenza. Attendiamo pertanto un segnale dal Governo, qualche interrogazione parlamentare, ma soprattutto misure concrete». (S.B.)