A Civitavecchia, a pochi chilometri dalla Capitale, nella notte del 12 agosto scorso, un uomo di 59 anni, legato a un letto del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) dell’Ospedale San Paolo, si dà fuoco con un accendino; soccorso in extremis dal personale e dai Vigili del Fuoco, viene ricoverato in gravi condizioni nel Reparto Rianimazione di quel nosocomio. Il soccorso è stato ritardato e ostacolato dal mancato funzionamento dell’allarme antincendio. Un’inchiesta è in corso: «Le indagini devono chiarire due aspetti fondamentali: come abbia fatto il paziente a venire in possesso di un accendino e il motivo del mancato funzionamento dell’allarme antincendio». Così Giulia Amato, nella cronaca locale del «Messaggero» del 13 agosto. Non dissimile l’annuncio da parte del «Tempo» e del TGR Lazio.
Queste le scarne e fuggevoli notizie dei media. Non viene nemmeno sfiorato il dramma di quest’uomo sofferente, sottoposto a un odioso e mortificante trattamento, ma si dà per scontata, con assoluto candore, e con una buona dose di cinismo, l’applicazione di una prassi, la contenzione meccanica, una pratica violenta, che non configura in nessun modo un intervento medico – come taluno si ostina ancora a sostenere – ma è dannosa alla saluta fisica e psichica di chi la subisce; una pratica purtroppo tanto diffusa da essere considerata ormai come una “normale” misura curativa nelle persone con sofferenza mentale, soprattutto se ricoverate in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). «Un paziente ricoverato in TSO legato proprio per impedirgli atti autolesionistici», si precisa infatti ancora nella cronaca del «Messaggero».
Rimossa dunque la questione cruciale, umanamente e tecnicamente scandalosa, quella della contenzione, il tema diventa surrealisticamente quello del “tutto in ordine”, del buon andamento della macchina burocratica e dell’indagine amministrativa: come è possibile che un uomo legato venga in possesso di un accendino e si dia fuoco? Chi è il colpevole di questa deplorevole circostanza?…
Non sappiamo quasi nulla di ciò che succede nei circa 320 SPDC italiani. Salvo pochissime eccezioni, rappresentate dai cosiddetti SPDC no restraint (15 in tutto, il 5% circa), si tratta di luoghi chiusi, praticamente “off limits”, interdetti perfino ai familiari degli stessi degenti e alle loro associazioni. Di tanto in tanto il silenzio che li avvolge viene rotto da una notizia sconvolgente: la morte (22 giugno 2006) del fruttivendolo Giuseppe Casu, dopo sei giorni di contenzione nell’SPDC dell’Ospedale Santissima Trinità di Cagliari; la morte (4 agosto 2009) di Franco Mastrogiovanni, un insegnante molto ben voluto dai suoi allievi, deceduto dopo 84 ore di contenzione selvaggia nell’SPDC di Vallo della Lucania (Salerno); alcuni decessi (2008-2010) di pazienti sottoposti a regimi di contenzione particolarmente duri nell’SPDC dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano ecc.
Abbiamo motivo di ritenere che si tratti soltanto della punta di un iceberg e che un numero più consistente di casi di decesso o quanto meno di danni, non solo psicologici, conseguenti a pratiche di contenzione particolarmente protratta e/o dura, non vengano alla luce e sfuggano al controllo delle autorità preposte e dell’opinione pubblica.
Purtroppo, nonostante il duro giudizio del CPT (il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani o Degradanti), alcune Sentenze di condanna della Corte di Cassazione e nonostante le prese di posizione di autorevoli organizzazioni per la difesa dei diritti, la contenzione meccanica viene ancora praticata largamente in quasi tutti gli SPDC, in taluni routinariamente. La messa in atto di essa ha infatti profonde radici culturali, essendo, da una parte, l’espressione del persistere – nella popolazione e quindi anche nelle famiglie e nei servizi -, del pregiudizio (ampiamente smentito dall’esperienza e dalla letteratura scientifica) di una potenziale pericolosità intrinseca al disturbo mentale e dall’altra, il risultato finale di una serie di insufficienze dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM), sostanzialmente coerenti con tale pregiudizio.
Non ci deve pertanto stupire se nessuno si sia scandalizzato per la degradante condizione in cui quell’uomo era costretto a Civitavecchia e se anche la stampa e la TV, nel riportare la notizia, abbiano ignorato il cuore della questione e spostato l’attenzione su particolari sicuramente importanti, ma pur sempre marginali rispetto al problema di fondo. È infatti giusto e doveroso che si compia una rigorosa indagine e si punisca ogni eventuale omissione, imperizia o abuso, ma non sarà giusto eludere ancora una volta il problema di fondo e scaricare tutte le responsabilità su pochi operatori che, a loro volta, sono costretti a lavorare in condizioni di estrema difficoltà e si dibattono spesso nel dilemma di dovere scegliere fra il lavorare in condizioni di grande disagio e di abbrutimento professionale o il dovere addirittura cambiare mestiere.
La questione di fondo è ben più vasta e riguarda non solo singole persone – e in particolare coloro che rivestono ruoli di decisione e di responsabilità -, ma il sistema nel suo insieme e il suo modo di “funzionare”, che devono essere oggetto di analisi e di interventi adeguati.
Purtroppo, anni di politiche dissennate di tagli e impoverimento dei servizi hanno devastato e devastano un sistema di tutela della salute mentale che, pure, aveva raggiunto traguardi eccellenti e prodotto esperienze altamente positive. È aberrante e insensato – anche in presenza di difficoltà economiche come quelle attuali – ritenere che bisogni primari delle persone, come quelli della salute e della salute mentale in particolar modo, possano passare in seconda linea, come se la salute non avesse, oltre che un suo intrinseco e inestimabile valore, anche un valore economico e come se le disabilità indotte da mancanza di prevenzione e di cure non avessero per la collettività costi notevolmente superiori a quelli della prevenzione e della cura stesse.
E infatti, all’impoverimento dei servizi territoriali e delle pratiche di inclusione sociale, ha corrisposto, negli ultimi anni, l’espansione di un sistema di istituzionalizzazione neo-manicomiale oltre che negli SPDC, nelle case di cura e in una miriade di cosiddette, costose “residenze”, per lo più private, nelle quali le persone, non sottoposte ad alcuna pratica riabilitativa, vanno incontro a cronicizzazione e progressiva disabilitazione, con costi enormi per la collettività.
Non c’è dubbio che la rimozione di questa perversa e sotterranea controriforma, avvenuta sotto la spinta di un’involuzione culturale che ha ricacciato in basso, a livelli non più accettabili, il sistema di tutela della salute mentale del nostro Paese, debba essere l’oggetto dell’impegno di quanti – cittadini e organizzazioni – lottano per la difesa dei diritti e per il pieno benessere delle persone.