Sul tema dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, in questi giorni di avvio d’anno scolastico, si sono succedute diverse notizie e diversi approfondimenti. Il tema che si affronta è risalente, anche se prende spunto dalle ultime notizie e approfondimenti. L’intento è quello di un’analisi delle “prassi” maggiormente diffuse e non sempre perfettamente coerenti con quello che è il dettato legislativo, con la finalità di alcune norme e con l’intento complessivo del Legislatore.
Spesso, infatti, spinti da un’impetuosa, quanto indispensabile tutela dei diritti delle persone con disabilità – quotidianamente posti ai margini dei princìpi della civiltà giuridica – anche involontariamente si potrebbe tendere a un uso non corretto e pertinente di norme e istituti, pur se questi sono volti al raggiungimento di un medesimo scopo. Laddove quindi i diritti umani sono prossimi – se non coincidenti – con i diritti naturali e laddove, pertanto, diviene più difficile confondere il mezzo e il fine, si ritiene comunque opportuna l’opera del giurista che – valorizzando e contribuendo alla tutela dei diritti dei più deboli e a un miglioramento della ricerca scientifica sul punto – tenti di approfondire questioni che potrebbero sembrare, ai più, perniciose ricerche di perfezione. Volendo, così, invece, riportare alcuni temi sui giusti binari e su percorsi che conducano ad evitare le lesioni dei diritti e, quindi, l’instaurazione stessa di procedimenti giurisdizionali socialmente onerosi.
Da ultimo l’avvocato Salvatore Nocera, nel suo Osservatorio Scolastico dell’AIPD [Associazione Italiana Persone Down, N.d.R.], con un commento ripreso anche da «Superando.it», ha diffuso la notizia di un’interessante sentenza emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio (7783/13), con la quale si «condanna l’Amministrazione a garantire il suddetto rapporto 1 a 1 anche per gli anni scolastici successivi, perdurando la situazione di handicap grave da cui sono affetti i minori». Nel commento, sottolineava l’avvocato Nocera, «ci si augura che tale orientamento venga confermato da altre decisioni dei TAR».
Non si dubita che la possibilità che l’efficacia di una Sentenza perduri per più anni scolastici successivi sia un interesse utile e rilevante per le famiglie. Ma, forse, questo auspicio va contemperato con princìpi giuridici e con obiettivi di tutela (tra cui quello, di evitare in toto i Giudizi), tali da renderlo valido solo laddove vi dovessero essere oggettive condizioni di fondamento e non già una generica possibilità.
L’occasione della Sentenza del TAR Lazio 7783/13, ritiene lo scrivente essere interessante per profili che, in parte, convergono sull’analisi della correttezza o meno della perdurabilità della Sentenza stessa, avente ad oggetto un giudizio sull’omessa o insufficiente assegnazione di docenza specializzata per il sostegno per gli anni scolastici successivi rispetto a quella in cui fu emessa.
Innanzitutto occorre compiere l’analisi che segue.
Nella maggior parte di documentazione giuridica in materia, si fa espresso riferimento all’handicap grave ai sensi e per gli effetti dell’articolo 3 comma 3 della Legge 3 febbraio 1992 n. 104, come risultante dal Certificato della Commissione di Invalidità Civile ed Handicap. Sul punto appare opportuno e necessario tentare di dissolvere un equivoco.
I parametri e le finalità di valutazione posti in essere dalle Commissioni per l’accertamento dell’handicap di cui all’articolo 4 della Legge 104/92 («relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell’intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua») sono ben diversi da quelli, invece, rilevanti ai fini scolastici, che ai sensi dell’articolo 12, comma 5 della stessa Legge 104/92 e dell’articolo 2 del DPR [Decreto del Presidente della Repubblica, N.d.R.] del 24 febbraio 1994, è chiamato a porre in essere lo “Specialista”, ovvero il Neuropsichiatra Infantile della locale Azienda Sanitaria (successivamente divenuto un “Collegio”).
Ai fini scolastici, infatti, rileva la Certificazione di individuazione dell’alunno come persona handicappata ai fini scolastici, rilasciata dal servizio di Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda Sanitaria (e non già dalla Commissione per l’Handicap). Infatti, l’articolo 12 comma 5 della Legge 104/92 e l’articolo 2 del DPR 24 febbraio 1994 (nel suo testo modificato dal DPCM [Decreto del Presidente del Consiglio, N.d.R.] 185/06 del 23 febbraio 2006) sono chiari nell’attribuire a un Collegio diverso da quello della Commissione Handicap e, soprattutto, orientati a una valutazione ben diversa da quella a cui è finalizzata la Commissione Handicap stessa.
Infatti, il DPCM 185/06 afferma che: «1. Ai fini della individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, le Aziende Sanitarie dispongono, su richiesta documentata dei genitori o degli esercenti la potestà parentale o la tutela dell’alunno medesimo, appositi accertamenti collegiali, nel rispetto di quanto previsto dagli articolo 12 e 13 della legge 5 Febbraio 1992, n. 104. 2. Gli accertamenti di cui al comma 1, da effettuarsi in tempi utili rispetto all’inizio dell’anno scolastico e comunque non oltre trenta giorni dalla ricezione della richiesta, sono documentati attraverso la redazione di un verbale di individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap ai sensi dell’articolo 3, comma 1 della legge 5 Febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni. Il verbale, sottoscritto dai componenti il collegio, reca l’indicazione della patologia stabilizzata o progressiva accertata con riferimento alle classificazioni internazionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nonché la specificazione dell’eventuale carattere di particolare gravità della medesima, in presenza dei presupposti previsti dal comma 3 del predetto articolo 3. Al fine di garantire la congruenza degli interventi cui gli accertamenti sono preordinati, il verbale indica l’eventuale termine di rivedibilità dell’accertamento effettuato».
Ciò, d’altra parte, è confermato da una realtà logico giuridica agevolmente riscontrabile nel suddetto esempio. Si ipotizzi il caso di Tizio che, affetto da una disabilità fisica fortemente limitante e per cui necessita di un «intervento assistenziale permanente», si trovi, invece, da un punto di vista intellettivo e cognitivo, in piena e totale efficienza di intendere e di volere, tale per cui non abbisogna di alcun tipo di assistenza specialistica o di sostegno. In tal caso, il “Signor Tizio” sicuramente beneficerà e godrà di certificazione ai sensi dell’articolo 3 comma 3 (grave) rilasciata dalla Commissione Handicap; mentre “l’alunno Tizio”, nella certificazione di individuazione dell’alunno in stato di handicap ai fini scolastici, potrà benissimo (e realisticamente) beneficiare di una certificazione che non lo dichiari affatto grave ai fini scolastici (ma lieve).
La certificazione di individuazione dell’alunno come persona handicappata, infatti è volta al fine di «assicurare l’esercizio del diritto all’educazione, all’istruzione e all’integrazione scolastica [grassetto dell’Autore, N.d.R.]», finalità ben diversa dalla certificazione riconosciuta e rilasciata dalle Commissioni Handicap tradizionali.
Pertanto, a fondamento della valutazione se considerare un alunno in stato di handicap grave o meno, non si dovrebbe tener conto del Certificato della Commissione Handicap di cui all’articolo 4 della Legge 104/92, ma, più correttamente, del Certificato di individuazione dell’alunno in stato di handicap a fini scolastici, di cui agli articoli 12 e 13 della Legge 104/92 e di cui al DPR del 24 febbraio 1994, nel suo testo modificato dal DPCM 185/06.
La Certificazione di Handicap tradizionalmente riconosciuta dalle Commissioni Handicap, pertanto, può essere semmai considerata un indizio, ma giammai l’atto giuridicamente rilevante per far sorgere una serie di garanzie e diritti all’alunno con disabilità.
Non si dubita, infatti, che il primo atto amministrativo del procedimento che scaturisce nell’individuazione e assegnazione delle diverse figure e servizi di assistenza (igienico-personale; insegnante di sostegno; assistenza all’autonomia e alla comunicazione; servizio di trasporto) sia il Certificato di individuazione dell’alunno in stato di handicap ai fini scolastici, ai sensi degli articoli 12 e 13 della Legge 104/92, e che senza di esso non sarà possibile il prosieguo del procedimento con la stesura della Diagnosi Funzionale, del Profilo Dinamico Funzionale e del Piano Educativo Individualizzato. Per cui, si ritiene anche errata quella prassi secondo cui l’alunno che non è “certificato” con handicap ai sensi della Legge 104/92 dalla “Commissione” non possa beneficiare di assistenza e di servizi. Sul punto, infatti, non si rintraccia nell’ordinamento giuridico alcuna norma in proposito, mentre ha una sua logicità giuridica l’assenza di assistenza e di servizi, se non sussiste la certificazione di individuazione dell’alunno in stato di handicap ai fini scolastici, posto che mancando questo primo documento, mancheranno di conseguenza tutti i successivi atti amministrativi necessari e previsti per legge!
Di converso, la rilevanza della Certificazione di individuazione dell’alunno in stato di handicap ai fini scolastici e non già il Certificato Handicap di cui alle Commissioni Handicap, consente anche di meglio organizzare interventi e servizi per quei casi di alunni che si trovino in una sorta di “confine” tra connotazione di gravità e di non gravità (disabilità mentali lievi; disturbi pervasivi dello sviluppo di moderate entità ecc.), per cui un riconoscimento di gravità ai fini dell’handicap (articolo 4 della Legge 104/92) sarebbe oggettivamente eccessivo e/o fuorviante.
Da tutte queste considerazioni, quindi, si può pervenire alla questione se la Sentenza emessa da un Tribunale Amministrativo Regionale può o meno riconoscere «il diritto al rapporto 1 a 1 anche per gli anni scolastici successivi, perdurando la situazione di handicap grave…».
La questione è tutt’altro che agevole. Innanzitutto abbiamo compreso che – in tema di inclusione scolastica – le famiglie e le amministrazioni si trovano annualmente innanzi ad un procedimento amministrativo. Procedimento amministrativo volto – non lo dimentichiamo – a certificare e a riconoscere le «effettive esigenze rilevate» dell’alunno, ai sensi della Legge 296/06 e della Legge 244/07. Se a ciò si aggiunge che l’Intesa Stato-Regioni del 20 marzo 2008, sull’accoglienza degli alunni con disabilità, ha previsto che «in presenza di condizioni nuove e sopravvenute la diagnosi clinica/certificazione, la Diagnosi funzionale, devono essere riconsiderate in relazione all’evoluzione della persona», si comprende che può essere assai arduo prevedere il perdurare di una situazione di handicap grave «ai fini scolastici» e, comunque, ad ogni eventuale mutamento della documentazione, ne scaturirà, automaticamente e necessariamente, il venir meno della documentazione su cui originariamente si sarebbe formato il giudicato e la necessità di un’eventuale ulteriore valutazione giurisdizionale, qualora vi dovessero essere conflitti od omissioni o lesioni di diritti tra le parti.
Pertanto, se è certamente vero che «la situazione di handicap grave è connotata dalla durevolezza nel tempo degli effetti della patologia da cui è affetto il disabile», è anche vero che occorre verificare – avendo quale parametro la finalità scolastica, ovvero quella di «assicurare l’esercizio del diritto all’educazione, all’istruzione e all’integrazione scolastica» – se di anno in anno la documentazione amministrativa sia rimasta immutata sul punto della gravità oppure se – magari grazie a dei buoni interventi educativi e istruttivi – l’alunno sia giunto a un miglioramento “scolastico” delle sue condizioni, tale da non renderlo più “grave” per il raggiungimento degli obiettivi scolastici del nuovo anno di studi.
Pare quindi eccessivamente sintetico sperare che la suddetta tesi possa essere confermata da altri Tribunali Amministrativi, diversamente non comprendendosi il senso delle «verifiche periodiche» (ordinarie e straordinarie) cui vengono sottoposti gli alunni con disabilità e le loro documentazioni, ai sensi dell’articolo 6 del DPR del 24 febbraio 1994.
Si ritiene, così, ancora una volta, che la “disabilità” sia un concetto generico e astratto e assai eterogeneo (sociologicamente e giuridicamente), mentre la “persona con disabilità” sia un cittadino con diritti e doveri, con rapporti con la Pubblica Amministrazione e con peculiarità (per patologia, tipologie e mutamenti) che non consentono una generalizzazione sol perché appartiene al “genere” della “disabilità”.
È certamente corretto ostinarsi verso la rivendicazione di un servizio scolastico di qualità e sulla fornitura – sulla base delle «effettive esigenze rilevate» – dei servizi di assistenza e sostegno di cui abbisognano gli alunni. Ma non si creda che questo si ottenga puntando sull’obiettivo che una Sentenza, in tema di sostegno, a beneficio di un alunno con disabilità grave, possa durare per tutta la vita scolastica dell’alunno.
Bisogna propendere, forse, verso una tutela che si fondi sulla disciplina normativa delle effettive esigenze rilevate e della garanzia di quei livelli essenziali di istruzione previsti dalla normativa vigente e che dovrebbero condurre a una totale assenza di conflitti in aule giudiziarie tra cittadini/bambini con disabilità e lo Stato.
Si ritiene importante, ad esempio, risolvere l’annosa questione “dell’assegnazione” delle docenze, della precarietà degli insegnanti, dell’assenza di continuità scolastica e di quella assurdità – pedagogica, scolastica e giuridica – che l’insegnante di sostegno venga assegnato alla scuola e non già come manifestazione dell’esito di un procedimento della Pubblica Amministrazione, tutto compiuto sulla base di valutazioni del singolo alunno con disabilità e dell’esigibilità di un diritto soggettivo perfetto dell’alunno con disabilità stesso. Non ha senso, infatti, che un procedimento amministrativo che si avvia sulla base di una documentazione redatta sulla scorta dell’analisi di un alunno con disabilità, si concluda con l’assegnazione del docente specializzato per il sostegno (in varie forme di unità e di ore) alla scuola anziché a quello specifico alunno che ne è il beneficiario e la “fonte” del procedimento amministrativo stesso.
Questi, pertanto, si credono essere i problemi e i temi da risolversi. E non già come possa farsi in modo che un «diritto, conquistato per via giurisdizionale, sia per sempre». Si crede infatti che “il diritto sia per sempre”, se legittimamente e correttamente certificato e non già imposto da un – pur rispettabilissimo e autorevolissimo – consesso giurisdizionale. Si deve cercare, insomma, di non giungere nemmeno all’aula giudiziaria, ma di creare un sistema amministrativo di efficienza ed efficacia che riconosca e renda esigibile il diritto della “persona”.
Le istanze e le speranze che provengono dal mondo della disabilità e dei loro familiari, quindi, sono più che comprensibili e più che legittime. Si ripete: purtroppo, il diritto di cittadinanza delle persone con disabilità viene quotidianamente messo alla prova. Ma, nel contempo, la perdurabilità di una Sentenza – fondandosi sul principio di «è grave per sempre» – non può fondarsi su una “presunzione” medica o sociologica o generica della persona, sol perché, così facendo, possono evitarsi ulteriori e successivi ricorsi. Deve invece fondarsi su dati obiettivi, pedagogico-didattici, incontrovertibili e che trovano conferma nelle documentazioni amministrative annuali, tali per cui è duraturo nel tempo il diritto di cittadinanza e di assistenza scolastica e non già l’atto di giustizia che ne tenta di ripristinare il diritto leso.
Ecco che l’obiettivo deve sempre rimanere quello del rispetto del diritto da parte degli enti e delle organizzazioni deputate (e, quindi, della conseguente insussistenza del procedimento giudiziario).
Ma laddove ciò non si sia verificato e laddove la “gravità” e la documentazione dovessero confermare la connotazione di gravità «ai fini scolastici», anziché incardinare un nuovo giudizio di tutela, potrebbe tentarsi un giudizio di ottemperanza fondato sul precedente giurisdizionale già ottenuto.
Tutto questo anche al fine di evitare che tutti possano “spingere” – pur se involontariamente – verso una speranza o richiesta di riconoscimento di “gravità” da parte delle “Commissioni”, per finalità e obiettivi diversi da quelli voluti originariamente dal buon Legislatore della Legge 104/92.
Avvocato.
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