Come avevamo ampiamente riferito qualche tempo fa, il progetto triennale DISCIT (Making Persons with Disabilities Full Citizens – New Knowledge for an Inclusive and Sustainable European Social Model, ovvero “‘Rendere le persone con disabilità Cittadini a pieno titolo – Nuove conoscenze per un modello sociale europeo inclusivo e sostenibile”), finanziato dalla Commissione Europea per la ricerca nel campo della disabilità, è stato presentato all’inizio di marzo, durante un seminario svoltosi a Firenze.
A occuparsene è un Consorzio che vede coinvolti vari Paesi europei (Belgio, Germania, Irlanda, Italia, Gran Bretagna, Norvegia, Repubblica Ceca, Serbia, Svezia e Svizzera), coordinato dalla NOVA (Norwegian Social Research), e il referente per il nostro Paese è il Laboratorio ARCO (Action Research for Co-Development) dell’Università di Firenze, che su questo ha lavorato in sintonia con Giampiero Griffo, membro dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), uno dei “‘padri italiani”‘ della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Come avevamo preannunciato, approfondiamo oggi le caratteristiche dell’importante iniziativa, tramite il seguente lungo colloquio con Mario Biggeri dell’Università di Firenze, responsabile italiano del progetto.
Che cosa si propone di essere DISCIT?
«DISCIT si pone come obiettivo la produzione di nuove conoscenze che rendano gli Stati Membri, i Paesi europei affiliati e l’Unione Europea stessa in grado di ottenere una piena ed effettiva partecipazione delle persone con disabilità alla vita sociale ed economica. La possibilità di esercitare la cosiddetta “Cittadinanza Attiva”, attraverso l’azione e la pratica sociale, è legata alle condizioni sociali per la partecipazione in Europa. Per finalità analitiche, DISCIT distingue fra tre dimensioni di Cittadinanza Attiva, così come sono percepite dagli individui:
– Sicurezza: ridurre cioè le principali fonti di incertezza o la necessità di assumere rischi a livello individuale (ad esempio in relazione a questioni finanziarie), evitare preoccupazioni costanti relative al futuro, godere della protezione sociale contro i principali rischi della vita (malattia, povertà, violenza ecc.).
– Autonomia: evitare la “dipendenza da” o l’interferenza di altri, vivere in modo indipendente, esercitare la propria libertà e vivere la vita avendo motivazioni per voler vivere.
– Influenza: partecipare ai processi deliberativi e decisionali pubblici, definendo il quadro per il proprio percorso di vita e prendendo parte alle decisioni relative alla promozione del bene comune; regolare il comportamento sociale, data l’interdipendenza dell’azione umana.
In sostanza DISCIT ha il compito di identificare i fattori e le condizioni che attualmente impediscono o scoraggiano le persone con disabilità dall’esercitare la Cittadinanza Attiva e, più positivamente, di indicare i mezzi o i modi per renderle in grado di esercitare la stessa».
Durante l’incontro di presentazione di DISCIT, a Firenze, lei si è soffermato sulla prospettiva del cosiddetto c” (“approccio delle capacità”), tema al quale, qualche tempo fa, ha anche dedicato un ampio dossier, elaborato insieme a Nicolò Bellanca e intitolato appunto L’approccio delle “capability” applicato alla disabilità: dalla teoria dello Sviluppo Umano alla pratica. Di che cosa si tratta esattamente?
«Quel dossier è stato parte di un percorso di ricerca pluriennale che ha condotto me e il gruppo di ricercatori con i quali collaboro a cercare di tradurre in linee guida pratiche un approccio teorico-filosofico come quello delle capabilities. Il percorso si è sviluppato grazie al contatto costante con gli operatori e i dirigenti dei servizi socio-sanitari, con le persone con disabilità e con le loro organizzazioni. In diversi casi ci siamo trovati ad analizzare modalità di fornitura di servizi che già “inconsapevolmente” basavano le loro pratiche sull’approccio delle capabilities.
L’idea di base è quella di un sistema incentrato sulla persona che abbandoni un approccio “fordista” alla produzione di beni e servizi, per andare verso la personalizzazione e l’ottimizzazione nell’uso delle risorse [il “fordismo”, termine utilizzato qui e oltre, è sinonimo, in senso generale, del sistema moderno di produzione industriale e del consumismo di massa, N.d.R.]. La sfida di fronte alla quale ci ritroviamo è però enorme, per cui abbiamo bisogno di un ripensamento globale dei sistemi socio-sanitari. Proprio per questo, assieme ai tecnici della Regione Toscana, ci occupiamo anche di elaborare strumenti gestionali appropriati, dato che siamo pienamente consapevoli che non possiamo proporre modelli di intervento la cui sostenibilità economica non sia provata e monitorabile».
Quali sono i metodi di empowerment – ovvero di “crescita della consapevolezza e dell’autoconsapevolezza” – in grado di fornire sostegno a una concreta riforma politica sulla disabilità, passando, come scrive nel dossier, «dalla teoria dello Sviluppo Umano alla pratica»?
«Nella costruzione dei percorsi di empowerment ci sono sicuramente dei passaggi critici. Il primo punto è avere un sistema di servizi che riesca a valorizzare le risorse e le aspirazioni della persona, senza costringere la persona stessa a incasellarsi all’interno di ciò che il sistema offre. Il secondo è il coinvolgimento della famiglia e dell’intera rete sociale della persona. Il terzo è la promozione di attività quali il peer counseling [“consulenza alla pari”, N.d.R.], che mostrino alla persona il tipo di risultati che può raggiungere facendo leva sulle proprie risorse residue».
Rispetto ad altri Paesi europei, la situazione italiana offre un quadro piuttosto negativo: mi riferisco ai tagli al sostegno scolastico e in genere al mancato finanziamento all’integrazione degli studenti con disabilità, alla carenza di adeguati servizi assistenziali e di tutela, come pure all’inadeguato inserimento professionale. Qual è la sua opinione?
«Il problema fondamentale, al momento, è culturale. Il punto è che la condizione di disabilità viene percepita come statica, dal momento in cui da determinate forma di disabilità non si guarisce. La cosa sulla quale non si riflette è che la condizione di disabilità – come tutte le condizioni umane – è invece dinamica e legata all’interazione tra la persona e il suo contesto. Questo vuol dire che le risorse che si spendono per la persona e per migliorare il contesto possono produrre cambiamenti. Se questo è vero, allora la spesa per le persone con disabilità dev’essere considerata come un investimento che produce flussi di costi e di benefìci nel presente e nel futuro. In altre parole, una persona che si inserisce nel lavoro, un familiare che riacquisisce serenità o un ambiente pubblico accessibile producono ricchezza materiale (e non) per l’intera società».
Sempre nel dossier di cui parlavamo, si legge che «il framework delle capability [il “quadro delle capacità”, N.d.R.] aiuta a superare i limiti dei principali modelli utilizzati nella disabilità»: l’approccio delle capabilities può quindi servire ad affrontare il problema del modello sociale che rifiuta il concetto stesso di “disabile”, pensando al fatto che sono le barriere architettoniche, sociali e culturali a bloccare di fatto la vera inclusione? E in quale modo?
«Quello che possiamo dire è che l’approccio delle capabilites può essere complementare all’approccio sociale, inducendo una maggiore presa in considerazione della persona, delle sue aspirazioni e dei suoi valori. Questo spinge verso la creazione di un sistema che sia in grado di accogliere e valorizzare l’infinità diversità umana anziché incasellarla all’interno di schemi di fornitura dei servizi di tipo “fordista”».
Vorrei una sua descrizione del “progetto di vita” e di quale importanza esso abbia per le persone con disabilità.
«L’elaborazione del progetto di vita è un passaggio molto importante ed è importante sia per il risultato a cui conduce (il vivere una vita che si avvicini il più possibile a quello che la persona ritiene una buona vita), sia per il processo da cui scaturisce (cioè il recupero di una visione di sé nel futuro, di sé come soggetti dinamici). Il progetto di vita, pertanto, è esattamente quel passo che consente alla persona di trasformarsi da recipiente passivo di politiche a parte attiva della società».
Concludendo, come si può evolvere il concetto di disabilità, in assenza di un vero cambio di passo della politica e della cultura, per ottenere un rafforzamento del benessere per le persone con disabilità?
«Come dicevamo prima, il cambiamento culturale è esattamente il primo passo di cui abbiamo bisogno. Senza di esso nessun ammontare di risorse economiche può essere sufficiente per offrire un livello di benessere sufficiente alle persone con disabilità, rendendole pienamente fruitrici dei diritti di cittadinanza.
In altri termini, è necessario che nell’intera società si radichi la consapevolezza che la qualità della nostra democrazia – nel senso più ampio del termine – e il peso specifico del concetto di giustizia e di diritti che la nostra società decide di adottare, sono direttamente proporzionali allo spazio di libertà che riusciamo ad offrire alle persone a rischio di marginalizzazione. La crescita economica che si ottiene (sempre che sia possibile) “scaricando” alcune persone come se fossero la bad company della nostra società, non è sviluppo e non crea nessun incremento reale di benessere. Proprio per questo, all’interno del Progetto DISCIT ci occupiamo di cittadinanza e di creazione di una società europea che possa essere pienamente fruita da tutti i cittadini in tutte le sue dimensioni.
Sono del tutto consapevole che per ottenere questo tipo di risultati non possiamo investire in tutte le direzioni contemporaneamente e proprio per questo mi sento di sottolineare due priorità. La prima è la scuola e l’istruzione in ogni suo grado. L’inclusività del sistema scolastico italiano è un vanto per il nostro Paese, ma è attualmente messa in pericolo dalle politiche di austerità. Il secondo punto è la necessità di un orizzonte temporale lungo nella pianificazione e nell’implementazione delle politiche. È estenuante, infatti, vedere anni di sforzi vanificati nel momento in cui un dirigente viene rimosso o destinato ad altro incarico a causa di alchimie politiche che niente hanno a che fare con la competenza e i risultati ottenuti».