Mi succede spesso di sentire parlare di “diritti esigibili”, ma confesso che a volte non sono sicuro che chi usa questa espressione ne abbia compreso pienamente il senso. C’è infatti una condizione precisa perché i diritti siano esigibili, ma non sempre questo requisito pare emergere dai ragionamenti che ascolto o che leggo.
Diciamo subito che i diritti rappresentano per tanti familiari – di soggetti autistici e non solo – veri e propri nervi scoperti. La burocrazia, la farraginosità di molte disposizioni, se non si configura addirittura il non ascolto degli interlocutori, determinano sentimenti – in apparenza contraddittori – di rassegnazione e rabbia: sono quelli i cui risvolti salgono, talvolta, agli onori della cronaca, salvo beninteso essere dimenticati alcune ore dopo, allorché l’audience dei media fagocita e tritura altro.
Davanti a questa realtà, è paradossale che a qualcuno capiti di scrivere: «Il problema spesso è l’arrendevolezza delle famiglie di fronte allo Stato». Poco ragionevole perché penso che questa definizione racconti solo un aspetto, per giunta il meno importante, della situazione. La vera questione, detto banalmente, è che, a mio parere, per essere realmente esigibili, i diritti devono esistere in concreto e non in astratto!
Porto, a titolo di esempio, l’esperienza che vive attualmente a Torino l’ambulatorio dedicato alle persone con autismo adulte, inaugurato nel 2009 con grande enfasi, come si poteva leggere sulle pagine del sito del Comune: «Per la prima volta in Italia, un dipartimento di salute mentale ha deciso di dotarsi di un ambulatorio che si occuperà in via esclusiva dei disturbi dello spettro autistico in età adulta».
Si presti attenzione, ora, ai numeri qui di seguito riportati. L’ambulatorio inizialmente aveva come utenti gli autistici adulti dell’ASL TO 2. Al dottore che si sarebbe occupato della parte medica, venivano date a disposizione 10 ore settimanali. Nel giugno del 2013 si decise di allargare l’esperienza anche all’ASL TO 1. Le ore a disposizione del medico rimasero 10, ma gli fu affiancata una psicologa per 5 ore. Nel marzo di quest’anno, poi, dopo l’approvazione della Deliberazione di Giunta Regionale (DGR) sull’autismo, si decise che l’ambulatorio – visti i buoni risultati conseguiti – avrebbe dovuto estendere il suo intervento all’intera Regione Piemonte (comprendendo, naturalmente, ASL TO 1 e ASL TO 2). Ebbene, le ore assegnate – può sembrare incredibile ma è così – sono rimaste, a fronte di un pauroso incremento dell’utenza, quelle che erano: 10 per la componente medica e 5 per quella psicologica!
Ad oggi, questo quadro orario è rimasto immutato e la prima immediata conseguenza è stato il formarsi di lunghissime, intollerabili (per chi sa un minimo di autismo) liste di attesa, passando da 15 a 120 giorni! Faccio notare che stime (prudenti) del 2011 accreditavano di 16.000 autistici (molti dei quali adulti) la Regione Piemonte!
E allora, di cosa stiamo parlando? Quale diritto in questo caso è esigibile a fronte di una visione così miope (eufemismo) delle Istituzioni? Sono arrendevoli i genitori o siamo davanti al collasso colpevole imposto dalla politica?
Diciamo la verità: accade purtroppo frequentemente che la realtà sia molto diversa da quanto la legislazione prevede. Inutile ricordarlo, ad esempio, a tanti genitori che leggono nella Legge 104/92 di «programma educativo individualizzato, massimo raccordo delle istituzioni, formazione ad hoc, consulenza esterna se richiesta dai familiari e»… e poi si ritrovano con un pugno di mosche in mano!
Cambiamo àmbito? Lascio la parola a Sonia Zen, presidente dell’ANGSA Veneto (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici): «A trent’anni dalle varie leggi sull’integrazione scolastica, mi chiedo dove sia finito il bagaglio dei saperi accumulati in questo tempo… Mi risulta che pochissime scuole abbiano nel Piano di Offerta Formativa [POF, N.d.R.] qualche proposta per la disabilità… Eppure queste indicazioni darebbero ai genitori la possibilità di scegliere gli inserimenti migliori nelle scuole che hanno a disposizione, rispetto ad altre, un bagaglio di esperienza. Dietro la bandiera dell’integrazione si nasconde un occultamento dei veri problemi legati alla mancanza di flessibilità, alla carenza di formazione specifica e a una ridotta valorizzazione delle competenze. Sembra che dedicare spazi e specificità alla disabilità sia sinonimo di emarginazione e ghettizzazione… Semmai è vero il contrario».
Continuiamo la nostra panoramica con un nuovo esempio e parliamo questa volta della Legge 68/99 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.], che all’articolo 1 recita: «La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato».
Chiedo: «Quanti disabili hanno potuto usufruirne?». Sapete che, secondo i dati ISTAT del 2011, solo il 16% delle persone con disabilità tra i 15 e i 74 anni ha un’occupazione? Sapete che dai dati del 2012 e 2013, contenuti nella relazione [la settima, N.d.R.] presentata al Parlamento sull’attuazione della Legge 68, emerge che su quasi 680.000 iscritti al collocamento ci sono stati nell’ultimo anno appena 18.000 avviamenti? Sapete che le sanzioni comminate per queste inadempienze si possono contare sulle dita di una mano? Sapete che fra pubblico e privato ci sono, oggi, 41.000 posti riservati ancora scoperti?
Tutti questi esempi – e potrei farne molti di più – mostrano che viviamo davvero – Crozza docet – nel “Paese delle Meraviglie”. L’Italia ha una legislazione in materia di handicap che probabilmente non ha eguali al mondo. L’unico “piccolo” inconveniente è che quasi nessuna legge viene effettivamente applicata. Il fatto stesso di riconoscere alle persone con disabilità diritti e dignità solo a patto che siano finanziariamente sostenibili, ritengo sia un’autentica aberrazione.
In questo quadro, quindi, arrivare a “colpevolizzare” le famiglie, sostenendo che sono “arrendevoli” (laddove i fatti dimostrano ampiamente, come mi sono sforzato di dimostrare, la responsabilità della politica), è francamente troppo, tanto più se si tiene conto che oltre il 21% delle “famiglie con disabilità”, in Italia, è a rischio di povertà!
Chiudo questo mio intervento, sperando di stemperarne il clima serio, con un aneddoto. Ho provato a chiedere ad almeno dieci persone adulte quale fosse il participio passato del verbo “esigere”. Zero persone, ahimè comprese due insegnanti di Lettere e un paio di universitari, mi hanno dato la risposta giusta. Anzi, al posto di “risposta giusta” stavo per scrivere “risposta esatta”, perché… in effetti, il participio passato di esigere è proprio esatto.
Qualcuno/a dei miei interlocutori si è spinto fino ad affermare che il participio del verbo esigere non esiste proprio… Come dire: «Diritti esigibili? Non esattamente!». Può sembrare un paradosso, ma in questo “pensare ignorante”, alla luce di quanto si è detto, c’è persino un fondo di verità!