
Nel 2006 alcuni medici olandesi firmano il cosiddetto Protocollo di Groningen, ove scrivono che «tra i bambini e i neonati per i quali potrebbe essere presa la decisione di fine vita» ci sono anche quelli «sopravvissuti grazie alla terapia intensiva ma per i quali è chiaro che dopo il completamento delle cure intensive la qualità della vita sarà misera» e senza «alcuna speranza di miglioramento».
Alla fine di quello stesso anno, i componenti del Collegio Reale di Ostetricia e Ginecologia della Gran Bretagna, chiedono in un documento ufficiale «la possibilità di uccidere i neonati con disabilità gravi».
Più recentemente – siamo ormai nel 2010, l’“era dei social network” – un docente di Teoria dell’Armonia al Conservatorio di Milano si sofferma in Facebook sui «problemi della didattica», parlando tra l’altro di «pseudoscienza senza bussole che fa comparire organismi che non lo dovrebbero» e di «Rupe Tarpea cui bisognerebbe tornare».
Infine, nel mese di agosto dello scorso anno, il biologo inglese Richard Dawkins twitta che sarebbe «immorale mettere al mondo una persona con sindrome di Down».
Ieri, 27 gennaio, è stato il Giorno della Memoria, per ricordare i milioni di vittime dell’Olocausto, durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale, tra ebrei, dissidenti politici, rom, omosessuali e persone con disabilità, le quali, com’è ormai ben noto, ne costituirono addirittura la “prova generale”.
Condividiamo totalmente l’idea di chi ritiene che il 27 gennaio dovrebbe essere il Giorno di tutte le Memorie, guardando cioè anche alle altre azioni di sterminio e genocidio, precedenti e successive all’Olocausto. Ma allarghiamo ulteriormente il concetto, sottolineando che tra le “cose da ricordare” dovrebbero esserci anche le frasi sopra riportate. Solo così, infatti, crediamo che il 27 gennaio possa diventare una “ricorrenza viva”, con il suo valore di monito per il futuro, attivo in tutti gli altri giorni dell’anno.
E senza mai nemmeno dimenticare che quando in buona o in cattiva fede si parla e si scrive ripetutamente di “falsi invalidi”, il primo marchio di discriminazione, quello più visibile, non ricade su chi truffa, ma proprio su chi è invalido.
Segretario di redazione di «Superando.it».
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