Improvvisamente si scopre che quanto per millenni la fantasia aveva relegato in un regno al di là della competenza umana può essere realmente prodotto qui sulla terra, che l’inferno ed il purgatorio, e perfino un riflesso della loro durata eterna, possono essere instaurati con i più moderni metodi di distruzione e terapia (1).
[…] è certo che una sola uccisione ne provoca altre centinaia se non si rinnega fino in fondo l’ideologia che l’ha generata. (2).
Lo sterminio delle persone con disabilità nella Germania nazista è stato figlio di un razzismo biologico e centralizzato, un “razzismo di stato”, come viene definito da Michel Foucault, che appare alla fine del XIX secolo e si incarica di proteggere biologicamente la razza.
Il concetto di razzismo di stato è subentrato a quello di “guerra delle razze” e, nel corso del XX secolo, «diventerà il discorso di un combattimento da condurre non tra due razze, ma a partire da una razza posta come la vera e la sola, quella che detiene il potere ed è titolare della norma, contro quelli che deviano rispetto a questa norma, contro quelli che costituiscono altrettanti pericoli per il patrimonio biologico» (3).
In questo quadro, tuttavia, il nazismo ha operato una particolare sintesi, prendendo il tema del razzismo di stato, recependolo in maniera regressiva e ricollocandolo all’interno del discorso della guerra delle razze, spesso con toni epici e teatrali (4).
A conferma di questo vale la pena analizzare un fatto che appare particolarmente significativo: il decreto di avvio dell’operazione di “eutanasia” venne stilato nell’ottobre del 1939, ma Hitler stesso lo retrodatò al primo settembre 1939, il primo giorno della seconda guerra mondiale. Secondo Henry Friedlander, tale retrodatazione fu fatta al fine di sottolineare il fatto che «la guerra non doveva modificare solo la posizione internazionale del Reich, ma anche annunciarne la purificazione interna» (5).
Analizzando lo stesso fatto, George L. Mosse afferma che questo fu «un gesto più significativo dello stesso decreto amministrativo. Hitler considerava la vittoria dell’ariano come obiettivo primario del conflitto: per lui era necessario non solo mettere le razze inferiori al loro posto, ma anche preservare gli ariani da qualsiasi fattore di indebolimento» (6).
La reiscrizione nazista del razzismo di stato nell’antica leggenda delle razze in guerra, per assolvere al meglio alla funzione profetica di annunciare una nuova stagione per l’umanità, aveva, nelle intenzioni di Hitler, bisogno di un unico punto di partenza. Il far coincidere le date di inizio della guerra e dell’Aktion T4 era un modo teatrale e ricco di pathos per fornirglielo [“Aktion T4” era il nome in codice dell’“operazione di soppressione dei cittadini tedeschi ‘al di sotto dei parametri’”, ove “T4” stava per “Tiergartenstrasse 4”, “la strada nel giardino dello zoo”, indirizzo della centrale operativa berlinese. N.d.R.].
A questo proposito è, inoltre, utile ricordare come nel settembre 1939 venne fondato da Heinrich Himmler l’RSHA (Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich), che fu immediatamente affidato a Reinhard Heydrich, e la cui IV Commissione, relativa alla “questione ebraica”, venne affidata ad Adolf Eichmann.
Da questo momento in avanti si assiste a una progressiva recrudescenza delle politiche razziali naziste, secondo un percorso tortuoso, quasi mai lineare e di cui la guerra pare esser stata più che il filo conduttore, come sostenuto da Georges Bensoussan (7), collante ed elemento di radicalizzazione. La guerra, infatti, favorì sicuramente un’accelerazione del percorso finalizzato allo sterminio delle persone con disabilità, e tuttavia non ne fu l’origine.
Con l’avvio dell’operazione “eutanasia”, sembra sia stata fatta una seconda dichiarazione di guerra, più nascosta, ma altrettanto importante, le cui ragioni venivano da lontano e si trovavano nel progressivo affermarsi, a partire dal secolo precedente, di una cultura scientifica che si opponeva all’eguaglianza degli uomini: «genetisti, antropologi e psichiatri avanzavano una teoria di ereditarietà umana che si mescolava con la dottrina razzista ultranazionalista, tale da formare una ideologia politica basata sulla razza» (8).
Si può quindi ben capire la facilità con cui in breve tempo si strinse un profondo legame tra le teorie biologiche (evoluzionismo, eugenetica…) e il discorso del potere nazista. Il razzismo di stato fu, quindi, ciò che permise al potere di introdurre una separazione tra ciò che doveva vivere e ciò che doveva morire, sulla base di una cesura di tipo biologico, collegando, inoltre, la morte del “diverso” a un miglioramento e a una purificazione della vita in generale (9).
I gruppi dirigenti di burocrati, professionisti e scienziati promossero e sostennero, sulla base di questi presupposti, le basi culturali e organizzative che legittimavano l’eliminazione delle “vite indegne di essere vissute”, il nazismo fornì la copertura politica e l’arsenale legislativo (10).
Ernst Klee, uno dei principali storici che contribuirono negli Anni Ottanta a far riemergere i fatti relativi all’operazione “eutanasia”, estremizza questa analisi al punto di arrivare ad affermare che la “guerra” finalizzata alla purezza razziale interna fu autonoma e indipendente dall’altra: «[…] la sterilizzazione di massa di persone considerate inferiori e la loro uccisione non ha niente a che fare con il nazismo; è un’idea più remota. La psichiatria non è stata costretta a fare alcunché dai nazisti. Essa ha utilizzato Adolf Hitler ed il nazismo, se posso dirlo in termini estremi, per poter realizzare il suo programma omicida e continuare la distruzione delle persone inutilizzabili; essa distingueva fra i pazienti che riteneva inutilizzabili e quelli che essa credeva di poter curare per renderli nuovamente utilizzabili» (11).
L’affermazione di Klee, se da una parte è sicuramente utile per ribadire il ruolo e le responsabilità di medici e scienziati, dall’altra non sembra tenere nel dovuto conto il ruolo che il nazismo prima e la guerra poi ebbero nell’accelerare e radicalizzare il percorso di sterminio delle persone con disabilità e i collegamenti con l’altro sterminio, quello degli ebrei, come viene ben evidenziato da Mosse: «[…]eutanasia e guerra erano altrettanto interdipendenti che guerra e soluzione finale» (12).
Possiamo, però, ritrovare in questa affermazione due concetti utili a caratterizzare questa “seconda guerra”: quello di curabilità e di utilizzabilità.
Klaus Dorner, rileggendo le uccisioni delle persone con disabilità alla luce di questi due aspetti, li utilizza inserendoli in un quadro sanitario di tipo prestazionale che avrebbe spinto medici e operatori ad una sorta di iperattivismo clinico e che li avrebbe portati a «curare i pazienti curabili e uccidere gli incurabili, così da non doversi confrontare con i fallimenti» (13).
Una tesi plausibile, seppur parziale, e che riporta nuovamente l’attenzione sul concetto di utilizzabilità dei pazienti, arricchendolo di un elemento: il diritto alla cura non veniva negato, ma doveva essere collegato a una possibilità di “uso della persona”, e questo “uso” non doveva essere fine a se stesso, ma doveva essere produttivo per lo Stato o per la scienza.
L’utilizzabilità delle persone per lo Stato si traduceva, come si è visto, nella loro capacità di compiere lavori produttivi, principalmente all’interno degli istituti in cui si trovavano, ed è stato uno dei principali criteri per la valutazione sull’opportunità o meno della loro uccisione.
Questo concetto, oltre ad avere avuto una grande rilevanza nel pensiero razzista, secondo cui la razza superiore «è sempre stata definita come produttiva» (14), aveva anche delle evidenti ricadute economiche, ben sintetizzate dall’affermazione di Karl Binding e Alfred Hoche: «[…] il malato congenito e coloro che hanno perduto la volontà di lavorare dovrebbero essere soppressi perché la comunità deve essere sollevata dall’onere di prendersi cura dei suoi membri inutili» (15).
Per il mondo scientifico l’utilizzabilità delle persone assunse due declinazioni parallele che condussero, però, ad esiti antitetici. Gli psichiatri e i medici che dirigevano la T4 a un certo punto, con il procedere delle uccisioni, dovettero prefigurarsi un futuro in cui non avrebbero avuto più pazienti e, quindi, lavoro. Dopo la prima fase dell’avvio dell’eutanasia si assistette, quindi, all’introduzione di nuove terapie, per mantenere intatto il prestigio della classe medica.
Le principali erano quelle riabilitative basate sul lavoro e quelle sanitarie basate sull’utilizzo di terapie d’urto (attraverso uso di medicinali o elettroshock) (16). Le persone che rispondevano alle terapie ed erano utili per suffragarne scientificamente la validità erano utilizzabili e, quindi, mantenute in vita, le altre erano inutili e quindi potevano essere uccise.
Il secondo utilizzo da parte del mondo scientifico, come si è visto, era quello di persone ritenute “biologicamente interessanti” per la ricerca scientifica, che venivano selezionate, osservate, valutate, uccise e poi sezionate per studiarne cervello e organi (17).
Il principale criterio per tenere in vita le persone, la misura del loro valore umano, era, quindi, la loro “utilizzabilità” nelle sue diverse sfaccettature: produttiva (lavoro), terapeutica, e di ricerca scientifica (legata prima alla persona, poi al suo cadavere). Per le altre “vite indegne” l’unico esito scientificamente e terapeuticamente possibile “per il loro bene”, era, da subito, l’omicidio e la successiva eliminazione del corpo (per lo più cremato).
Questa tendenza a quantificare “produttivamente” il valore della vita, però, pare non essere così lontana e del tutto superata e, spesso, porta ancora oggi a valutare i diversi interventi socio-sanitari esclusivamente in termini di costi, quasi un privilegio e un fardello da alleggerire in periodi di crisi.
Nel corso di un intervento tenuto a un convegno svoltosi a Bolzano nel 1995, Alice Ricciardi von Platen ricordava come «prevalga ancora oggi una concezione puramente scientifica del mondo e dell’uomo, che paragona l’uomo ad una macchina», evidenziando come «di fronte agli enormi costi del sistema sanitario, i valori economici balzano nuovamente e pericolosamente (poiché spesso espressi senza alcuna ponderazione) in primo piano» (18).
Al termine della propria riflessione, l’Autrice poneva un preoccupante, e attuale, interrogativo: «l’uomo comune o il professionista, saprà opporsi e/o protestare se si trovasse di nuovo di fronte alle pretese umanamente inaccettabili di uno stato suffragate dal mondo scientifico?».
Interrogativo che richiama quello di Christopher R. Browning, che giungeva a conclusioni simili al termine della sua ricerca sui poliziotti del Battaglione 101 e sui crimini di cui si erano macchiati nello sterminio degli ebrei: « […] ovunque la società spinge gli individui a rispettare e a ossequiare l’autorità, ed è difficile che funzioni altrimenti; ovunque le persone aspirano a un avanzamento di carriera. In ogni società moderna, la complessità della vita, con la burocratizzazione e la specializzazione che ne conseguono, attenuano il senso di responsabilità personale di coloro che realizzano le direttive ufficiali. All’interno di ogni collettività sociale, il gruppo di riferimento esercita pressioni spaventose sul comportamento e stabilisce le norme morali. Se in circostanze analoghe gli uomini del 101 divennero assassini, quale gruppo umano può reputarsi immune da un tale rischio?» (19).
Gerarchia, burocrazia, pressioni del gruppo di riferimento, ambizioni personali sono stati tutti elementi centrali anche nel percorso che ha caratterizzato lo sterminio delle persone con disabilità e vengono in parte richiamati anche nell’analisi che ne fa Michael von Cranach, attuale direttore sanitario della Clinica di Kaufbeuren: «Siamo di fronte a un sistema molto gerarchico, tale da sollevare i suoi membri da ogni responsabilità morale. […] Le atrocità compiute, la sofferenza e la morte non erano percepite come conseguenza di un’azione personale. Il non agire singolarmente rende superflua la coscienza individuale. […] Eventi come l’olocausto (e lo sterminio delle persone con disabilità) sono un esempio estremo di come gli uomini possono agire quando sono liberi dalla coscienza e dall’anima» (20).
Ritengo che il richiamo a quest’ultimo aspetto, alla liberazione o, in alternativa, all’annichilimento della coscienza individuale, sia centrale per una corretta valutazione delle azioni dei responsabili dell’operazione “eutanasia” e ci dice molto sulla velocità in cui persone e normali lavoratori si trasformarono in assassini: «[…] nulla si rivelò più facilmente distruttibile dell’intimità e della moralità privata che pensava unicamente a salvaguardare l’ininterrotta normalità della propria vita» (21).
La normalità della vita, per i responsabili dell’operazione, era anche la normalità del loro lavoro in ospedali, istituti, uffici, caratterizzato da procedure e da consuetudini che, facendo leva sulla capacità umana di adattamento e «iniziando oggi dal punto in cui era giunti la sera prima, e in sostanza riciclando l’inconcepibilità di ieri nella realtà di oggi», avrebbero contribuito a sostenere e a preparare le persone per ogni ulteriore passo in avanti che sarebbe stato fatto. Una normalità che evidenzia i potenziali rischi dei processi di razionalizzazione della società, e che è indicativa di quanto formale ed eticamente cieca sia la ricerca dell’efficienza (22).
Quindi, la società moderna, caratterizzata da una struttura burocratica e animata da una cultura della razionalità strumentale, non solo non rappresentò una tutela dal rischio di queste derive omicide, ma ne fu elemento costitutivo e – seppure il nazismo rappresenti la sintesi e l’espressione più totale del potenziale barbarico insito in essa – non ci sono segnali che non ci saranno altre sintesi, non ci sono segnali che sia stato chiuso il laboratorio di violenze che si è rivelata essere l’Europa liberale e civilizzata del XXI secolo (23).
La violenza perpetrata nei confronti delle persone con disabilità, mascherata da finalità “umanitarie”, fa crollare l’illusione che il comportamento morale sia frutto della società e che venga preservato dal funzionamento delle istituzioni sociali, anzi, evidenzia come alcuni aspetti dell’organizzazione societaria possano rendere la condotta immorale più, e non meno, accettabile.
A cosa, quindi, si deve fare riferimento, quali possono essere le basi di una morale che possa, quantomeno, ridurre il rischio che si ripetano certi tragici avvenimenti? Zygmunt Bauman propone una risposta impegnativa, ma illuminante e sempre attuale nella sua semplicità: «[…] il dovere morale deve contare sulla propria fonte originaria: la fondamentale responsabilità umana verso l’altro» (24).
Questa responsabilità, tuttavia, non può valere in termini astratti, deve tradursi in comportamenti conseguenti, fondati sulle proprie capacità di pensiero e di immaginazione. Il pensare, il riflettere implica il dovere di confrontarsi con quel che si è, con quel che si sta facendo, vuol dire assumersene la responsabilità prima di tutto nei propri confronti. Non implica una particolare forma di intelligenza o studi approfonditi, vuol semplicemente dire «impegnarsi in un dialogo silente con se stessi» (25), per imparare a convivere con la propria coscienza.
Parallelamente l’immaginazione ci permette di cogliere la vera dimensione di quello che possiamo fare, non solo in termini empirici, ma anche in termini morali. Secondo Gunther Anders, l’aspetto immaginativo è fondamentale, non solo per tentare di evitare che in futuro si ripetano le atrocità naziste, ma anche per provare a dare una risposta ai problemi del nostro tempo che, afferma, «non nascono da voluttà o perfidia, da disonestà o licenziosità, e neppure dallo sfruttamento, bensì da un deficit di immaginazione. Mentre l’immaginazione coglie più verità di quanto non riesca alla nostra percezione empirica» (26).
La vera dimensione della responsabilità morale verso l’altro, dunque, deve essere sostenuta e accompagnata da una parte da un “pensare”, inteso principalmente come capacità di dialogo con se stessi, e dall’altra da un “immaginare”, inteso come capacità di andare oltre il già noto e il razionalmente prevedibile (27). Pensare e immaginare, per poter giudicare e, conseguentemente, scegliere, perché «dopo tutto e, forse, prima di tutto, la moralità riguarda la scelta. Niente scelta, niente moralità» (28). La scelta è, quindi, l’àmbito in cui si concretizza la responsabilità morale verso l’altro.
E tuttavia le scelte che caratterizzano la moralità non sono scelte facili, non si basano su certezze razionali che ci dicono quali siano le cose buone e quali quelle cattive: «[…] essere morali significa essere destinati a fare delle scelte in condizioni di profonda e dolorosa incertezza» (29). In questo percorso pare che – contrariamente a quanto preconizzato dal nazismo con le sue verità scientifiche e certezze indiscutibili – ad essere avvantaggiati siano proprio coloro che hanno più dubbi che certezze, non perché il dubbio sia un bene in sé, ma perché ci abitua «ad esaminare le cose ed a farci una nostra idea in proposito» (30).
Per la verità nel percorso di sterminio delle persone con disabilità non tutti ebbero la possibilità di scegliere. Questa possibilità venne negata alle vittime, chiuse fin da subito in un percorso obbligato, per lo più all’interno di istituzioni, senza altra possibilità che quella di subire il tragico susseguirsi degli avvenimenti. Poche tracce restano delle loro storie, cosicché pare che siano state vittime di una seconda violenza, pare che la “biologia” ne abbia cancellato anche la “biografia”.
Una visione biologica che si accompagnava al concetto di “vita indegna di essere vissuta”, un concetto aprioristico che eliminava il dovere di confrontarsi con la volontà della persona in quanto, secondo Hoche e Binding, non sarebbero state in grado, per lo stato del loro cervello, «di avanzare pretese soggettive a chicchessia e quindi in particolare alla vita», e anche se lo avessero fatto, la loro vita sarebbe comunque rimasta «assolutamente senza scopo, anche se essi non la percepiscono come insopportabile» (31).
L’avere dunque identificato e classificato le persone esclusivamente in base al loro patrimonio genetico e alle loro caratteristiche fisiche, l’avere trasformato i bisogni in colpe, il non avere voluto riconoscere i diversi percorsi di vita, portarono a una progressiva espropriazione della vita stessa alle persone con disabilità. Espropriazione che incominciò dal negare loro la possibilità di parlare e, quand’anche lo avessero fatto, nel non ascoltarle e prenderle in considerazione.
Le conseguenze di questo circolo vizioso e del suo autoalimentarsi sono ben evidenziate da Paulo Freire, quando afferma che «in colui che ruba la parola agli altri si sviluppa un profondo scetticismo nei loro riguardi, li considera incapaci» (32).
Questa spirale di violenza e di screditamento, che si autoalimentava e trovava le proprie giustificazioni in se stessa, era condotta in nome del bene non solo della società, ma anche delle sue vittime. Questa caratteristica perversa rende unico e, per certi aspetti, più facilmente ripetibile lo sterminio delle persone con disabilità. Ancora oggi, infatti, si tende a ridurle a quanto nei nostri limiti riusciamo a cogliere di esse, dimenticandoci che ogni uomo nella sua unicità e con la sua storia, è sempre in divenire, è sempre “eccedente” rispetto a dati fisici, biologici e a conoscenze scientifiche. Il “loro bene” diventa, quindi, un inganno frutto di ignoranza, dietro cui si cela il grimaldello morale per scardinarne, sempre “nel loro interesse”, i diritti e per privarle della dignità.
La dignità della persona dovrebbe essere, invece, sintesi di libertà ed eguaglianza, presupposto e motore di un processo nel quale la persona vede riconosciuti nel concreto i propri diritti e messa, quindi, in condizione di esercitarli (33). Un percorso possibile, questo, solo quando vengono attivate una serie di prestazioni sociali idonee a promuovere le opportunità di vita, a eliminare le condizioni di emarginazione e sfruttamento. In altre parole, solo quando si riesce a recuperare una dimensione di solidarietà umana sulla cui base costruire risposte adeguate ai diversi bisogni delle persone, tenendo conto delle differenze individuali, ma senza cercare in esse le ragioni di scelte discriminatorie.
Alla domanda, quindi, se sia possibile una “vita indegna”, la risposta e l’insegnamento che possiamo trarre dai tragici fatti relativi allo sterminio delle persone con disabilità, come con forza e chiarezza afferma Stefano Rodotà, dovrebbe essere che «non vi sono vite indegne, fuori da quelle che altri pretendono di costruire al nostro posto» (34).
Il percorso di costruzione dell’indegnità non è stato e non è tuttora un percorso immediato né obbligato. È un percorso storico, culturale, scientifico e morale che va avanti per piccoli passi. Un percorso che ci richiama a un irrinunciabile dovere morale nei confronti dell’altro, che si sostanzia nella capacità di fare scelte. Nella capacità di dire no, di testimoniare che le cose non devono necessariamente essere come sono, che non ci sono percorsi obbligati, che si può immaginare e fare diversamente. Se questo vuol dire deviare dai rassicuranti binari delle nostre certezze, allora «dobbiamo armarci ed agguerrirci per affrontare l’incertezza» (35).
Il fatto che nell’àmbito del percorso di sterminio delle persone con disabilità, qualcuno scelse, qualcuno denunciò, si dissociò, ci insegna che è sempre possibile questa scelta: «[…] non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno lo abbia fatto» (36).
Questo tipo di scelta consapevole, in quanto basata su pensiero e immaginazione, e in cui si concretizza la nostra responsabilità morale nei confronti dell’altro, per sua natura non è né semplice né scontata e neppure può essere fatta da altri al nostro posto: la si deve voler fare. Cosa, quindi, dobbiamo fare oggi, cosa si doveva fare allora, per volerla?
La risposta, come suggerisce Vladimir Jankélévitch, può stupire nella sua ineludibile semplicità, e nel suo riportarci ancora una volta di fronte a noi stessi: «Per volere non è necessario essere atleti, bisogna solo volerlo. Ma bisogna volerlo» (37).
Note:
(1) Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2009, p. 611.
(2) Alice Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Firenze, Le Lettere, 2000, p. 85.
(3) Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 58.
(4) Ibid., p. 75.
(5) Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale., Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 93.
(6) George L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto. Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 231.
(7) Georges Bensoussan, Storia della Shoah, Firenze, Giuntina, 2013, p. 66.
(8) Friedlander, Le origini del genocidio nazista cit., p. 27.
(9) Foucault, Bisogna difendere la società cit., pp. 220-221.
(10) Bensoussan, Storia della Shoah cit., p. 30.
(11) Diego Fontanari e Lorenzo Toresini (a cura di), Psichiatria e nazismo, Atti del Convegno di Venezia (San Servolo) del 9 ottobre 1998, “Collana Fogli di Informazione”, n. 27, Centro di Documentazione di Pistoia Editrice, 2002, p. 20.
(12) Mosse, Il razzismo in Europa cit., p. 231.
(13) Fontanari e Toresini (a cura di), Psichiatria e nazismo cit., p. 21.
(14) Mosse, Il razzismo in Europa cit., p. 231.
(15) Ibid.
(16) Friedlander, Le origini del genocidio nazista cit., p. 216.
(17) Robert J. Lifton, I medici nazisti, Milano, Rizzoli, 2002, p. 168.
(18) Verena Perwanger e Giorgio Vallazza (a cura di), Follia e pulizia etnica in Alto Adige, Atti del Convegno di Bolzano del 10 marzo 1995, “Collana Fogli di Informazione”, n. 20, Centro di Documentazione di Pistoia Editrice, 1998.
(19) Christopher R. Browning, Uomini Comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia. Torino, Einaudi, 1999, p. 198.
(20) Fontanari e Toresini (a cura di), Psichiatria e nazismo cit., p. 30.
(21) Arendt, Le origini del totalitarismo cit., p. 469.
(22) Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, il Mulino, 2010, p. 33.
(23) Enzo Traverso, La violenza nazista, Bologna, il Mulino, 2010.
(24) Bauman, Modernità e Olocausto cit., p. 268.
(25) Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2003, p. 37.
(26) Zygmunt Bauman, Le sorgenti del male, Trento, Erickson, 2013, p. 89.
(27) Günther Anders, Discesa all’Ade, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 43.
(28) Zygmunt Bauman, Società, etica, politica, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 46.
(29) Ibid., p. 48.
(30) Arendt, Responsabilità e giudizio cit., p. 38.
(31) Carlo A. Defanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo, Torino, Codice, 2012, p.285.
(32) Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2002, p. 131.
(33) Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 168.
(34) Ibid., p. 210.
(35) Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2001, p. 94.
(36) Bauman, Modernità e Olocausto cit., pp. 279-280.
(37) Vladimir Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, Torino, Einaudi, 2011, p. 434.
Sul tema trattato nel presente approfondimento, suggeriamo – sempre nel nostro giornale – la consultazione di Quel primo Olocausto di Stefania Delendati, con un ampio inquadramento storico dello sterminio delle persone con disabilità durante il nazismo e la seconda guerra mondiale, insieme al lungo elenco di testi da noi dedicati all’argomento, proposto nella colonna a destra dell’articolo di Delendati.