«L’arte non è un progetto. È un bisogno, una necessità». Mi appunto le parole della professoressa Bianca Tosatti, mentre insieme ad altri giornalisti visito in anteprima la mostra Nasi odorano tulipani. L’arte irregolare nella Collezione Würth, aperta al pubblico dal 10 febbraio scorso fino al 21 gennaio 2017, presso l’Art Forum Würth di Capena (Roma), con trenta opere di artisti, prevalentemente tedeschi, con disabilità intellettive.
Si deve proprio alla studiosa Bianca Tosatti la denominazione di “arte irregolare”, mentre lo scopritore di questa forma artistica è stato il pittore e scultore francese Jean Dubuffet, che nel 1945 coniò il termine art brut, dove brut sta per “grezzo”, “bruto”, ma anche “frizzante”, “effervescente”, in riferimento – è probabile – all’azienda vinicola della sua famiglia.
Il grande lavoro di collezione delle opere è frutto invece dell’impegno della famiglia Würth – che oltre ad essere leader mondiale nella distribuzione di prodotti e sistemi per il fissaggio e il montaggio, è il più grande collezionista privato d’Europa – e in particolare della coppia Carmen e Reinhold Würth, che hanno anche creato un albergo ristorante che occupa molte persone con disabilità intellettive (Hotel Restaurant Anne-Sophie a Künzelsau, nel sud della Germania).
Non sono un critico d’arte. Partecipo al lancio della mostra come “esperto” di disabilità varie. Mentre osservo dipinti e sculture, mi dico che sarebbe bello raccontare le opere attraverso le biografie degli artisti. Cosa che, per il momento, non riuscirò a fare, rimanendo però rapito dalla lecture che, dopo il giro con i giornalisti, Bianca Tosatti tiene di fronte a un pubblico attento ed emozionato. Accenno allora alla storia raccontata dalla critica d’arte. Una storia magnifica, fatta di opere scovate in manicomi e istituti psichiatrici a partire dai primi anni del secolo scorso. Ad esempio di collezionisti e critici d’arte, come Aby Warburg, che tra il 1918 e il 1924 è internato più volte in un istituto psichiatrico svizzero e che qualche anno più tardi, per festeggiare la sua guarigione, organizza una mostra con le opere dei pazienti che aveva conosciuto in quegli anni. Per sfuggire al nazismo, i dipinti vengono poi trasferiti a Londra, dove si possono ammirare ancora oggi, presso il Warburg Institute.
È Jean Dubuffet, come detto, a teorizzare per primo l’esistenza di un’arte grezza, in cui gli autori non dovevano avere mai avuto contatto con la cultura ufficiale. Alla fine della seconda guerra mondiale fa un viaggio in Svizzera, dove scopre le opere dei pazienti degli istituti psichiatrici. Ne raccoglie alcune e le porta a Parigi, dove le sottopone al giudizio di alcuni tra i maggiori esponenti del surrealismo, come Andrè Breton, Max Ernst e Paul Klee.
Molti collezionisti e artisti francesi cominciano a loro volta a raccogliere le opere degli “irregolari”, da cui traggono ispirazione per i loro lavori, in alcuni casi copiandoli di sana pianta. Del resto, da quelle parti, qualche decennio prima, Paul Cezanne aveva incontrato Vincent Van Gogh, e dopo avere visto le sue opere, aveva commentato: «Lei disegna come un pazzo».
Il cuore della prolusione della professoressa Tosatti riguarda però l’Italia. Che è ricca di “artisti irregolari”, ma fa fatica a organizzarne le produzioni e a promuoverle (il tipico problema dei beni culturali in Italia, tanto abbondanti quanto abbandonati).
Le firme più note sono quelle di Gino Sandri, grafico e illustratore di enorme talento che finisce internato al Santa Maria della Pietà di Roma, o Antonio Ligabue, l’artista italo svizzero che scopre la sua vocazione dipingendo sulle rive del Po, tra un ricovero e l’altro. E poi l’altro padano Pietro Ghizzardi, il “pittore contadino” che arrivò a vincere il Premio Viareggio Opera Prima, nel 1977, con il libro Mi richordo anchora.
Altri nomi sono quello della pastora sarda Bonaria Manca, dello scultore del cilento Guerino Calzerano, del milanese Ruggero Cazzanello, del “ripetitivo” (che ripete cioè più volte una forma nelle sue opere) Massimo Mano, di Giulio Rossi, Antonio Della Valle, Carlo Zinelli, Giordano Gelli, Franca Settembrini, Giovanni Bosco.
Bianca Tosatti è stata tra i fondatori, nel 1996, dell’atelier di pittura Adriano e Michele, presso il Centro di Riabilitazione Psichiatrica Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro (Brescia). Collabora tuttora con i responsabili di diversi atelier psichiatrici italiani, tra cui quello dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. È lì che mi riprometto di andarla a trovare, per approfondire il tema e per conoscere le storie degli “artisti irregolari” italiani contemporanei.
Alla fine del suo appassionato intervento mi ritrovo ad applaudire in piedi, in mezzo a tante altre persone entusiaste. Ho le lacrime agli occhi. Rifletto sulla potenza dell’arte che, come scrisse un giorno Dubuffet, «non dorme nei letti che sono stati preparati per lei, fugge appena si pronuncia il suo nome, ama l’incognito».
Resta un dubbio. Se è vero che l’arte può essere ovunque, come si fa ad identificarla? Come scovare l’opera, tra i tanti lavori di “artisti irregolari”? «Qui – spiega Tosatti – bisogna lasciar fare ai tecnici. È il critico, l’esperto, che applica le proprie conoscenze scientifiche e mette in atto i propri strumenti che stabilirà dove finisce la creatività e dove comincia l’arte».
Testo apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Arte irregolare, una mostra da non perdere”) e qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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