L’insegnante di sostegno: uno strano crocevia di aspettative

di Michela Giangualano*
«La presa in carico delle difficoltà degli alunni dev’essere un atto collettivo e condiviso, non una delega allo specializzato di turno, in modo tale da pervenire a una situazione di vera comunità educante e formativa». Lo scrive l’insegnante di sostegno Michela Giangualano, che mette in discussione alcuni punti della recente Proposta di Legge riguardante la qualità dell’inclusione degli alunni con disabilità

Insegnante di sostegno con una bimbaOrmai da alcuni anni lavoro su posti di sostegno e ciò mi ha dato l’occasione di verificare in prima persona alcune criticità del lavoro d’inclusione degli alunni in situazioni problematiche.
Da una parte, infatti, ci sono i problemi del bambino o del ragazzo in difficoltà e della sua famiglia, dall’altra c’è il lavoro degli insegnanti e degli educatori scolastici, che hanno le loro priorità. E ancora, c’è l’attività delle équipe mediche e delle associazioni esterne alla scuola, che hanno in carico i ragazzi per lo sviluppo delle autonomie e che si muovono secondo logiche e metodologie proprie.
L’insegnante di sostegno, dunque, si trova nel mezzo tra mondi e aspettative diverse, ma lavora nella scuola: un ambiente strutturato in un certo modo, con regole ben precise.
Viene naturale porsi dalla parte del bambino, dello studente svantaggiato: noi insegnanti questa persona la dobbiamo socializzare alla vita scolastica, ma non sempre è facile, perché la scuola può venire incontro al bambino, ma anche il bambino deve adeguarsi alla vita scolastica.
In primo luogo, se i bambini che ci vengono affidati hanno problemi comportamentali, in qualche modo non si può negare che portino disagi all’interno della vita scolastica, andando a toccare fragili equilibri. Il problema della socializzazione, del resto, si presenta anche per tutti i bambini chiusi in se stessi, con scarsa autostima, con problemi di comunicazione, con problemi cognitivi.
C’è poi da considerare che a scuola vengono richieste delle prestazioni: bisogna cioè imparare a scrivere bene, a esprimersi bene oralmente, a risolvere problemi matematici. Ci sono obiettivi da raggiungere che hanno a che fare con l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze. Quando gli studenti non ce la fanno a raggiungerli, si deve iniziare ad abbassare il livello di questi obiettivi.
I bambini di solito cercano di adattarsi all’ambiente intorno, se hanno un minimo di consapevolezza. I genitori vogliono che ai loro figli siano risparmiate delusioni e amarezze; vorrebbero che imparassero tutto ciò che c’è da imparare e che condividessero con gli altri alunni le giornate scolastiche in una protetta posizione di parità. Gli insegnanti di classe cercano di proporre un programma adatto alla maggioranza dei loro studenti, che risponda alle richieste ministeriali: ma sono sempre in lotta con le differenze individuali nel livello di apprendimento e di prestazione dei loro studenti. Dal canto loro, le équipe mediche, oberate di lavoro, spesso, dopo avere certificato un handicap, non riescono a seguire i bambini con disabilità nel loro percorso scolastico e di vita: conoscono a fondo il bimbo durante l’attività di diagnosi, ma poi inevitabilmente sono costrette a lasciarlo andare per la sua strada, con monitoraggi sempre meno frequenti, escluso per i casi di gravi disabilità (dove la gravità del problema induce a un approccio di maggiore prossimità nel tempo). Ed è in questi casi che intervengono le strutture specializzate, che accompagnano il bambino anche in un percorso extrascolastico.

Se consideriamo però che in gran parte d’Italia i bambini stanno a scuola per il maggior numero di ore della loro giornata attiva, vediamo come la scuola abbia per i bambini stessi un’importanza decisiva per lo sviluppo delle loro competenze e propensioni sociali. Così a scuola essi arrivano con un loro bagaglio personale, per affrontare nuove sfide.
Nella sua “valigia”, però, il bambino con disabilità spesso trova o cose troppo pesanti o cose insufficienti a far fronte alle necessità. L’insegnante di sostegno è un po’ colui che deve cercare di riorganizzare questa valigia durante quel viaggio quotidiano tra le mura scolastiche: in certi casi dovrà alleggerire il fardello, in altri dovrà riempire il bagaglio di cose nuove e più utili. E purtroppo ci sono anche valigie difficili da aprire…
Credo che l’insegnante di sostegno debba essere un riferimento individuale per l’alunno in difficoltà. Non può però essere una figura onnipresente, che si sostituisca a lui: dev’essere una figura di contorno, un appoggio, una guida, se possibile un mentore…
Lo si vorrebbe anche un po’ “regista della didattica in classe”. E tuttavia è veramente impossibile espletare questo ruolo, perché gli altri insegnanti della classe non sono praticamente mai disponibili a lasciare la cabina di regia.

Perché si diventa insegnanti? Per lo più perché si ama o si è amato studiare, perché si crede di avere qualcosa da trasmettere: dalle nozioni ai metodi, dai valori alla capacità di osservare, analizzare, criticare, rielaborare, rinnovare… Si diventa in particolare insegnanti di sostegno perché si sente anche il bisogno di aiutare, supportare, perché si crede all’elasticità e flessibilità dell’essere umano, alla possibilità di risorgere dalle difficoltà, alla possibilità di convivenza delle diversità.
L’insegnante di sostegno ha una sua mission: deve cercare di facilitare il percorso del bambino a scuola. Si trova così a dover mediare tra i contenuti disciplinari, le aspettative degli altri, lo stile d’apprendimento del bambino, le attività del gruppo-classe e ciò che il bambino riesce a fare a seconda delle proprie competenze di base; ma deve arginare anche i possibili fallimenti, la frustrazione, la delusione dell’alunno che via via, col passare del tempo, inizia a intuire che ha qualcosa che non va, che ha qualcosa di diverso dagli altri.
Si dice che lo strumento per facilitare e mediare ci sia: si chiama contitolarità. In base ad essa l’insegnante di sostegno dovrebbe – insieme agli altri docenti della classe – predisporre degli interventi di contesto che andrebbero a facilitare la vita scolastica dei bambini più svantaggiati.
In verità ciò che succede nella scuola è che il film che si proietta ha un solo regista: l’insegnante di materia. Difficilmente, infatti, chi insegna le discipline in una classe condivide con i colleghi di sostegno spunti e materiali di lavoro, figuriamoci le metodologie… Alla scuola dell’infanzia e alla primaria questa possibilità può sussistere in alcuni contesti particolarmente innovativi e autoriflessivi, ma negli altri ordini di scuola l’autoreferenzialità dell’insegnante disciplinare regna vieppiù sovrana.
Non è che l’insegnante di sostegno non conosca i princìpi e i metodi della didattica speciale: già oggi chi si è specializzato ha dovuto studiarli, ma non ha proprio occasione di metterli in pratica. Il titolare di materia normalmente si sente l’unico depositario del sapere da trasmettere alla classe e per compiere questa sua missione non vuole interferenze sulle metodologie didattiche da adottare. Così succede che tante buone pratiche, che potrebbero essere estese sempre a nuovi contesti, non hanno occasione di sbocciare laddove più servirebbero.
Da qui il disagio di chi fa sostegno, che sente e che sa che altro si potrebbe fare e che in altro modo si potrebbe agire, lavorando in modo sistemico sull’intero gruppo-classe (ma anche proponendo esperienze di studio alternative), ma che rimane ingabbiato nel ruolo di assistente del singolo.

Ora si pensa che, specializzando ulteriormente sulla didattica speciale e le varie disfunzioni del singolo la figura dell’insegnante di sostegno, si potrà risolvere il problema delle esperienze di sostegno fallimentari. In realtà, a mio parere, si aumenterà solo l’isolamento di una categoria professionale che non è messa nelle condizioni di lavorare al meglio dalla struttura di potere e burocratica interna alla scuola, che non riesce a fare emergere saperi e competenze già presenti.
La soluzione ai problemi dell’inclusione non sarà l’ulteriore specializzazione e separazione burocratica di una figura professionale sistemicamente già molto debole. Non sono gli insegnanti di sostegno a dover cambiare: ciò che deve cambiare è la mentalità di quegli insegnanti che improvvisano l’attività didattica, non si aggiornano, non collaborano, ripropongono una visione della scuola non al passo coi tempi, una visione unicamente meritocratica, che non lascia spazio alla diversità, ma invece la relega e la punisce, creando stigma sociale e insoddisfazione.
Ciò che credo si debba fare è piuttosto questo: monitorare i processi di inclusione tramite il lavoro di consulenti che si mettano a disposizione per diffondere una nuova idea di scuola. Ciò non vuol dire che questi consulenti debbano necessariamente essere degli esperti di particolari disturbi o disfunzioni presenti nella classe a cui fare tutoraggio: in ogni contesto scolastico le problematiche possono insorgere anche per motivi “nascosti”, che vanno resi espliciti per poterli poi meglio affrontare con gli strumenti adeguati. Si deve semplicemente consentire il lavoro di squadra, attraverso la responsabilizzazione delle varie figure professionali esistenti.

Il Movimento Sostegno Doc [Doc sta per Docenti, N.d.R.] – per conto di cui scrivo – è nato per difendere la figura e i diritti dell’attuale insegnante di sostegno, insegnante specializzato sia a livello disciplinare che nella didattica speciale.
Chi scrive crede che rappresenti un grave errore togliere ai docenti di sostegno la possibilità di una formazione completa sulla disciplina. Così si otterrebbero solo insegnanti di sostegno più ignoranti e demotivati che, di fronte al loro compito, anche individuale, di aiutare gli studenti in difficoltà nello studio, si troverebbero spiazzati (in quanto dovrebbero imparare e impadronirsi di volta in volta dei contenuti da mediare nel lavoro coi loro studenti).
A cosa potrà servire poi un super-esperto in didattica speciale se non gli sarà data facoltà di progettare il lavoro per la classe? Cosa ci assicurerà che sarà lasciata a questo esperto la possibilità di applicare in classe le giuste metodologie di lavoro? A cosa mai servirà questa figura se il suo ruolo non sarà riconosciuto dai colleghi, ma anzi, la singola persona verrà percepita come inadeguata all’insegnamento, a causa della mancanza di preparazione sulle discipline scolastiche insegnate?
Chi ha pensato alla nuova riforma sull’inclusione scolastica [ci si riferisce alla Proposta di Legge C-2444, “Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali”, sostenuta da FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e FAND-Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità, N.d.R.] ha voluto focalizzarsi solo sui problemi di quegli studenti che, avendo disabilità molto particolari o molto gravi, non riescono allo stato attuale a trovare una risposta risolutiva ai loro bisogni all’interno della struttura scolastica. In nome di questi studenti si sacrificherà, però, il lavoro di reale sostegno che in questi anni è stato offerto alla maggioranza degli studenti con certificazione di handicap.
Effettivamente nelle scuole sono presenti bambini e ragazzi che svolgono programmi molto differenziati dai compagni, per i quali le esigenze di autonomia e socializzazione rivestono il carattere di priorità. Sicuramente si deve dare una risposta efficace anche alle loro difficoltà. Ma per questi studenti non si potrebbe pensare all’affiancamento di educatori scolastici, loro sì specializzati nelle singole disfunzioni, da utilizzare in classe insieme agli insegnanti di classe e di sostegno e solo laddove il normale lavoro di classe non riesca a far davvero fronte alle reali esigenze e bisogni di contesto emersi?

In realtà credo che l’unico modo davvero efficace per diffondere la cultura dell’inclusione potrebbe passare dal transito degli attuali docenti specializzati nel sostegno alla disciplina e dalla formazione obbligatoria di tutti i restanti insegnanti sulle problematiche della differenza e non solo della disabilità. Infatti, la presa in carico delle difficoltà degli alunni dev’essere un atto collettivo e condiviso, non una delega allo specializzato di turno. In altre parole, si deve pervenire a una situazione di vera comunità educante e formativa, dicendo basta alle esclusioni, alle separazioni e alle microespulsioni.
Stravolgere invece l’attuale lavoro degli insegnanti di sostegno, costringendoli in situazioni di continuità forzata e imputando a loro il malfunzionamento dell’inclusione scolastica, quando invece si dovrebbe chiedere agli insegnanti di materia una maggiore responsabilizzazione sui temi della diversità, significa voler affrontare l’intera problematica solo a partire da una visione di parte.

Per il Movimento Sostegno Doc (Docenti).

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