Il mondo in generale, e Roma in particolare, non smetteranno mai di stupirmi. Preferirei che fosse in bene, purtroppo raramente è così…
Lavoro ormai da anni per una ONLUS, la MagicAmor, che opera in Repubblica Democratica del Congo, dove costruisce scuole, presìdi sanitari e sostiene studenti e persone disagiate. Seguendo la mia natura, e quindi non potendo recarmi fisicamente in Congo, aiuto a promuovere gli eventi e a cercare fondi. Per mia esperienza, infatti, è sempre meglio consegnare di persona le informazioni sulla nostra attività, anche perché non sempre – e mi rivolgo a fondazioni ed enti privati – i destinatari sono così corretti da confermare di avere ricevuto il materiale.
Premesso questo, alcuni giorni fa mi sono armata di santa pazienza e sono partita di mattina – con lettere e pochi spiccioli per il pranzo, nonché con mio nipote e collaboratore – decisa a contattare alcune fondazioni romane che si occupano di sanità.
Non mi è passato neppure per la mente che mi potesse accadere quel che invece è successo dopo; avevo infatti pensato al traffico, all’esigenza di avere con me materiale informativo chiaro e coinciso, a portarmi appresso la carrozzina facendo incavolare il mio scooter elettrico Lone, che adora scorrazzare per Roma, ma all’accessibilità proprio non aveva pensato. Perché? Perché magari sarò un’ingenua, ma le fondazioni sono enti benèfici aperti al pubblico e queste, in particolare, si occupavano del settore sanitario, disabili e malati compresi. Come facevo, quindi, a immaginare?
Sono partita dunque tranquilla da casa, bella caricata – l’autostima ci vuole, quando si va a parlare con qualcuno che devi convincere a donare – e del tutto convinta che avrei potuto fare il mio lavoro tranquillamente. Abbiamo raggiunto la prima fondazione con non pochi problemi, il traffico, il posteggio… ma alla fine siamo arrivati al CESMET.
Entriamo dal portone e cosa ci troviamo davanti? Un cortile esterno e due belle rampe di scale, che mio nipote, decisamente meno “talpa” di me, mi ha descritto come alte e profonde. Ci guardiamo, mio nipote fa addirittura il giro, per cercare una rampa; tra l’altro, oltre ad essere una fondazione, quella è anche una clinica, possibile che non abbia un accesso per le persone con disabilità? Possibile. E infatti è proprio così, non c’è traccia di rampa, né di altro. Mio nipote prende la cartellina e sale, mentre io rimango fuori a battere i denti, visto che si trattava dei giorni in cui Roma sembrava “la Siberia”.
Dopo dieci minuti ridiscende, da solo. Ha consegnato il materiale alla segreteria, incontrato anche un medico e tutti gli hanno confermato che non c’è una rampa d’accesso. Se ne sono scusati molto, aggiunge. Con lui, però, dal momento che io non ho visto nessuno!
Rientriamo in macchina, e comincio ad avere la curiosa sensazione che potrei essere stata ottimista circa la possibilità di sfoggiare le mie doti comunicative, però in fondo, dai, è stata solo la prima fondazione. Via con la seconda, di sicuro andrà meglio.
Si tratta di Operation Smile, un’organizzazione di cui tutti hanno sentito parlare almeno una volta. Impossibile che abbiano anche loro problemi di accessibilità! Vero? Falso! Arriviamo infatti davanti a uno di quei bei portoni grandi dei palazzi antichi e davanti a noi c’è uno di quegli scaloni larghi, ma inevitabilmente inaccessibili, che ci beffano con almeno dieci scalini prima di arrivare all’ascensore. Nessuna traccia di rampe o di montascale.
Anche qui rimango sotto e di nuovo sale con i fogli mio nipote Maurice. Stavolta ridiscende dopo almeno un quarto d’ora, durante il quale si è incontrato con sei o sette ragazze e donne della segreteria che lo hanno intrattenuto sulla necessità o meno di portar su a braccia la carrozzina, restandosene sedute al calduccio, dopodiché ha incontrato la Presidente dell’Associazione, che gli ha assicurato che avrebbe portato il nostro progetto con sé in America, dov’era in procinto di recarsi.
Io, ovviamente, non vedo né segretarie né presidente, ma tutte si scusano molto per la mancanza di rampe, perché, dicono, «il palazzo non le vuole». Si scusano, naturalmente, con lui…
A questo punto, un po’ di fumo comincia a salirmi dalle narici: tutte e due le volte non solo non sono riuscita ad entrare, a presentarmi e a fare il mio lavoro: c’è stato di peggio. Nessuno, cioè, si è preoccupato di scendere, di presentarsi, di scusarsi. Peggio ancora, si sono scusati con Maurice, che di problemi di deambulazione non ne ha. Ce l’avevano davanti, senza fiatone, ed era evidente che lui di problemi a raggiungerli non ne aveva avuti. Quindi, di cosa si scusavano?
E soprattutto, possibile che nessuna delle signorine della segreteria, né dell’una né dell’altra fondazione, abbia avuto la decenza di pensare che sulla carrozzina c’era una persona che era rimasta ad attendere al freddo, e che, magari, bisognava che si scusassero con lei?
La “parte buona” che c’era in me avrebbe tanto voluto credere a una momentanea dimenticanza dovuta a un “raggio della memoria alieno”, che avesse fatto dimenticare la mia presenza a tutte quelle gentili anime impegnate a fare beneficenza, a curare i malati, a dare conforto alle persone con problemi. Ma la “parte cattiva”, quella più realistica, ha insistito con la sua versione. Che semplicemente, cioè, una persona con la carrozzina per loro non era degna di attenzione, e nemmeno di essere considerata come un essere umano da incontrare. Per questo motivo, non solo non aveva diritto a scomodarle, facendole scendere dalla loro comoda posizione per venirle incontro, dato che l’inaccessibilità era chiaramente un problema loro, ma nemmeno alle scuse in diretta, aveva diritto. Semmai poteva avere quelle che porgeva l’accompagnatore. Solo mio nipote, infatti, era un membro alla pari della loro società di benefattori, mica io, che evidentemente ero stata trascinata lì, mero “oggetto a rotelle”, invisibile, e, soprattutto, non realmente facente parte del genere umano. Di quelli che aiutano gli altri men che meno.
Piuttosto sconfortata, sono andata alla Fondazione Veronesi, convinta ormai del peggio. E invece no, ho avuto ragione solo in parte. La sede, infatti, era così inaccessibile che il portiere dello stabile ci ha riferito che una signora un po’ robusta, una volta, ci era rimasta incastrata in mezzo! Però il medico che era in sede è sceso, ci ha incontrati entrambi, si è scusato guardandomi negli occhi e presentandosi.
Mi sono rituffata nel traffico romano quasi riconciliata con il mondo della beneficenza, e sono andata a mangiare a un McDonald’s, concedendomi solo un respiro leggermente incandescente, quando mi hanno avvertito che il bagno era al piano di sotto, e l’ascensore per arrivarci era rotto.
Per la cronaca, la successiva fondazione – l’ultima della giornata, visto che girare per Roma in auto è come immergersi in un girone dantesco – non ci ha nemmeno aperto; il segretario si è degnato solo di dirci che era “in conference” e che non poteva farci entrare. Fine della storia.
Conclusioni? Mi chiedo quante delle persone che ho incontrato abbiano ad esempio versato una lacrimuccia, postato un “mi piace”, fatto qualche commento sulla morte di una persona come Franco Bomprezzi [il direttore responsabile del nostro giornale, scomparso nel dicembre dello scorso anno, N.d.R.]. Mi chiedo quante di loro si siano rese conto di quanto sarebbe stato facile mantenere un comportamento corretto nell’occasione del nostro mancato incontro.
Il medico della Fondazione Veronesi ha speso in tutto una decina di minuti per prendere i fogli, parlare con me, salutare. In parole povere, per trattarmi da persona normale, che come lui cerca di fare qualcosa per gli altri.
Un palazzo può essere inaccessibile, e a questo prima o poi si deve provvedere, le persone, però, non devono esserlo mai. Soprattutto se lottano insieme per un mondo migliore!