Ci sono notizie che vanno date con molta, molta attenzione, come quella diffusa alla fine di marzo dalla rubrica televisiva Pixel del TG3 RAI, riguardante l’esoscheletro EKSO, un’ingombrante struttura robotica di acciaio e carbonio che grazie a particolari motori e a un sofisticato sistema di leve, consente di tenere in piedi e far compiere piccoli passi a pazienti in sedia a rotelle. E ciò ha acceso in molti la speranza di un “miracolo” della scienza prossimo venturo, capace di restituire a breve autonomia di movimento alle persone con disabilità motoria.
In verità, quella dell’esoscheletro non è una notizia del tutto nuova, visto che se n’era già parlato, ad esempio, a un convegno dell’AVI di Roma (Agenzia per la Vita Indipendente) nel dicembre dello scorso anno.
In tale occasione erano stati in molti, compresa chi scrive, a chiarire che l’utilità di questo nuovo strumento era solo quella di consentire una riabilitazione momentanea e l’ottimizzazione di movimenti ripetitivi che, altrimenti, avrebbero richiesto il sostegno di due fisioterapisti e di un terzo addetto agli arti inferiori. Ma l’autonomia è un’altra cosa! Perché, come giustamente sottolineato su queste stesse pagine da Vincenzo Falabella, presidente di FAIP (Federazione Associazioni Italiane Paratetraplegici) e FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), essa «riguarda tanti aspetti quante sono le dimensioni della vita di una persona» e «guardare negli occhi una persona è un esercizio che riesce abbastanza bene anche a chi utilizza una carrozzina».
Per cercare di capire meglio come stanno le cose ho chiesto lumi al dottor Simone Russo e alla sua ventennale esperienza di fisioterapista e osteopata della riabilitazione: «L’esoscheletro – mi dice – ha un’imbracatura sulla vita e uno zaino con le batterie che, uniti ai bastoni, non permette di camminare troppo. Lo penserei pertanto come strumento di supporto al trattamento riabilitativo, piuttosto che come uno strumento di autonomia. Inoltre non può essere pensato per tutti i pazienti. Lo userei per quelli giovani, con le capacità intellettive necessarie a gestire una forma di apprendimento e di interazioni di schemi corporei complessi. E ancora, il paziente dovrebbe avere fatto molti progressi, prima di avvicinarsi a un esoscheletro, avere cioè un ottimo controllo del tronco, da seduto e in posizione eretta, e avere forza nelle braccia, dovendo comunque usare due bastoni. Al momento, quindi, affermare che renda il paziente veramente autonomo mi sembra precoce».
Su questioni tanto delicate abbiamo dunque bisogno di tutto, men che degli scoop giornalistici e soprattutto di un’informazione che, pur di vincere sulla concorrenza, anticipa solo false speranze. Sul tipo di quelle alimentate dalle mitiche performance di Oscar Pistorius, l’atleta che senza gambe aveva corso alle Paralimpiadi [e anche alle Olimpiadi, N.d.R.], utilizzando delle protesi al carbonio, ciò che aveva illuso tanti pazienti amputati di avere ormai a portata di mano una soluzione per i loro problemi, ma che i fatti hanno dimostrato non essere vera.
Consigliera dell’ADV (Associazione Disabili Visivi), con delega per le Problematiche ITC (Information and Communication Technology) per la stessa ADV e per la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), presso i tavoli del Consiglio Nazionale Utenti, AgCom, Sede Permanente del Segretariato Sociale RAI e Commissione Parlamentare di Vigilanza RAI. Il presente testo è già apparso in «West – Welfare Società Territorio», con il titolo “Illusi dall’esoscheletro come da Pistorius” e viene qui ripreso – con alcune modifiche alla luce del diverso contenitore – per gentile concessione.
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